Gli articoli pubblicati da molti siti Internet e dai giornali italiani mainstream sulla Corea del Nord non contengono alcuna concreta informazione. Leggendone qualche esempio, è facile rendersi conto che in essi non c’è nessuna volontà di far conoscere il Paese da un punto di vista culturale, sociale o storico: essi sono mossi solo dalla necessità di servire una propaganda che si basa sul dogma che siamo il migliore dei mondi possibili e i paladini dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Nessun luogo al mondo, più della Corea del Nord, col suo modello di vita antitetico al nostro, può meglio servire a questo scopo. L’inconsistenza delle argomentazioni è data a volte dalla superficialità, altre volte dalla contraddittorietà, in altri casi ancora dall’evidente falsità delle notizie riportate. Ma ci sono casi, come l’articolo apparso recentemente su un grosso quotidiano nazionale[ 1 ], in cui l’argomentazione usata per denigrare il Paese asiatico è così assurda da apparire quasi ridicola. E allora ci si chiede: chi scrive crede veramente in quello che dice, o ha una così scarsa considerazione dei suoi lettori da non ritenerli in grado di esercitare anche quella minima capacità critica che basterebbe per rendersi conto di essere ingannati?

Al di là di questo dubbio, tali articoli, più che far luce o informare sulla Corea del Nord, scopi per i quali sono del tutto inutili, possono servire però per capire i problemi dell’uomo occidentale quando si trova a confrontarsi con realtà lontane e diverse. Allora emerge soprattutto il vuoto spirituale di chi, lungi dall’accostarsi alle altre culture col rispetto necessario a chi voglia conoscere un qualsivoglia fenomeno, vi si avvicina invece col senso di superiorità e si pone al centro del mondo e della storia.

 

Un linguaggio sensazionalistico ed argomentazioni superficiali

La parola più usata nei testi che parlano di Corea del Nord è “surreale”. Essa serve per rendere forte il senso di lontananza, isolamento, irrealtà di un mondo, sentito così lontano da quello vero, cioè il nostro, da sembrare quasi lunare. Difficile è trovare un articolo sulla Corea del Nord che non contenga questa parola. Spesso, ad accentuare il senso di finzione, vengono utilizzate delle analogie, come quella del set cinematografico, a cui si ricorre spesso per descrivere la città di Pyongyang e l’altra, quella del mondo totalitario orwelliano, in riferimento all’organizzazione sociale. Negli articoli in cui il disprezzo è più forte, capita di trovare aggettivi come “agghiacciante” per descrivere il modo di vita, “visionario” per parlare di un modello urbanistico moderno, “lugubre” per definire uno spazio architettonico, “delirante”, “folle”, “disumana”, per definire l’ideologia. Sono parole che vogliono trasmettere disprezzo, odio, superiorità nei confronti di un sistema agli antipodi di quello occidentale, ovviamente il più libero, umano e razionale dell’universo.

Quei testi, purtroppo la stragrande maggioranza, scritti con lo scopo specifico di colpire negativamente la sensibilità del lettore, non contengono mai informazioni di carattere culturale. Non vi si parla di storia, di arte, di musica, di lingua, di tradizioni culturali, quasi questi aspetti non esistessero. Eppure le due Coree hanno una storia comune e non mancano, anche in Corea del Nord, testimonianze del passato, come templi buddhisti e musei che illustrano l’evoluzione dell’arte e della tecnologia, l’origine della stampa e lo sviluppo dell’artigianato, dei giochi e di altre tradizioni culturali, e biblioteche che ospitano un gran numero di opere letterarie e scientifiche. Parlare di questi aspetti farebbe apparire la Corea del Nord come un mondo ‘normale’, in cui esistono anche studiosi, archeologi e storici e gli toglierebbe quell’aura paranoica che tanto piace a certo giornalismo ‘di corte’. Quando si scrive di Pyongyang, non si deve mai parlare di uno stile artistico moderno inserito nel suo contesto storico, come si fa per ogni città del mondo; tutt’al più si può parlare di un modello visionario o di “mega-monumenti di dimensioni tali che potrebbero essere visibili dalla luna”. I riferimenti al passato, in genere agli anni Cinquanta o Sessanta, oppure al 1984 di Orwell, mirano a sottolineare l’arretratezza e l’estraneità della Corea del Nord al mondo attuale o lo stato di miseria in cui verserebbe eternamente il Paese. A questo punto non può mancare un riferimento al militarismo esasperato di un governo folle, avendo cura di non collegarlo alle esercitazioni militari statunitensi che avvengono regolarmente in concomitanza con l’esercito sudcoreano, a ridosso del trentottesimo parallelo, e al modo diverso dal nostro di concepire l’esercito, utilizzato dai nordcoreani anche per finalità civili, quali possono essere la costruzione di un ponte o la raccolta del riso.

 

Contraddizioni, bugie e paradossi

Leggendo testi diversi, capita di trovare descrizioni di carattere opposto riferite allo stesso luogo. Già nel 1980, Tiziano Terzani descriveva Pyongyang in questo modo: «Non fosse per i giardini pieni di fiori e le acacie sulle colline rigogliose e lungo il fiume, Pyongyang potrebbe apparire una città irreale, artificiale: una sorta di palcoscenico allestito per un film di fantascienza: ricca, coloratissima, ultramoderna, ma inquietantemente vuota» [ 2 ].

Affollata, quasi un’altra città, appare, al contrario, la Pyongyang descritta in alcuni siti Internet o riviste di turismo, che propongono ai lettori l’esperienza di un viaggio quasi marziano. Gli abitanti nella capitale nordcoreana ci sono, ma si muovono “in branchi”, “a frotte”, silenziosi ed inespressivi.

Il 2 aprile 2013, la famosa rivista di turismo Mete promuoveva un viaggio in Corea del Nord con queste parole: «Perché ( … ) un turista occidentale dovrebbe ambire a visitare la Corea del Nord? Non certo per i monumenti storici, la natura incontaminata e i paesaggi bucolici, che pure ci sono, ma piuttosto per toccare con mano le aberranti conseguenze a cui possono portare l’esasperazione delle utopie politiche e la mancanza di democrazia. Qui a colpire sono la fame scolpita sul volto delle persone vestite tutte in abiti militari, il fanatismo riconoscente verso una classe dirigente che li ha resi schiavi ( … ). I turisti possono muoversi solo su itinerari prestabiliti e accompagnati da poliziotti, senza alcun contatto diretto con la gente. Un solo prodotto come souvenir, oltre agli emblemi politici: l’insam selvatico, il miglior ginseng in assoluto ».

Su questo testo possiamo fare due osservazioni: la prima è sulla scorrettezza delle “informazioni”, chiaramente inventate. Basta anche una brevissima visita per vedere che i nordcoreani non sono tutti vestiti in abiti militari, che l’insam non è l’unico souvenir esistente in quel Paese e che non ci sono poliziotti che accompagnano i turisti ma due guide turistiche. Sicuramente l’autore non ha mai visitato la Corea del Nord e non si è curato minimamente di informarsi. Si è accontentato di riportare i più diffusi pregiudizi sul’argomento, accompagnandoli con qualche particolare che stesse con essi in sintonia, inventato di sana pianta. La seconda osservazione è più seria e tocca direttamente il tipo di sensibilità del turista occidentale e il rapporto della nostra cultura con un mondo diverso da sé, che in questo caso è la Corea del Nord, ma potrebbe essere anche qualunque altra cultura lontana dalla nostra. L’autore ci invita a visitare un Paese, non per i suoi monumenti storici o per i bei paesaggi, ma per vedere «la fame scolpita sul volto» di gente che viene descritta come in preda al fanatismo verso un sistema che l’ha resa schiava. Qui il problema non è più quello della veridicità o meno dell’informazione, ma investe il destinatario del messaggio. Che tipo di persona è quella che parte per un viaggio così lungo e costoso solo per vedere la fame “scolpita” sui volti della gente? Che tipo di persona è quella che sente il bisogno di assaporare la negatività di un mondo per il quale nutre solo disprezzo e che sente tanto ostile? Possibile che non ci sia nulla di meglio da fare per il privilegiato occidentale, che vive nel migliore dei mondi possibili, di un lungo, costoso viaggio nel posto più orribile del mondo? Siamo sicuri di avere meno problemi dei nordcoreani, almeno dal punto di vista dell’equilibrio interiore? Forse nella parte più profonda si sé, l’uomo occidentale non è poi così convinto delle sue libertà, se ha bisogno sempre di cercare negli altri o in ipotetici mondi alieni il male e la negatività, per sentirsi l’incarnazione del bene e della positività.

Spesso questi articoli nascondono soltanto un bieco servilismo nei confronti della propaganda statunitense, e a volte nemmeno lo nascondono. Prova ne è un articolo del Corriere del 16 luglio 2005, dove l’autore arriva ad accusare di miopismo un testo di tre giorni prima, in cui Pio D’Emilia ha osato parlare di “due tentativi di genocidio, prima da parte dei giapponesi e poi dagli americani”. «Passi per l’invasione nipponica, tremenda.», scrive Del Corona, «Forse nel caso degli Usa il termine è eccessivo, anche tenendo conto di napalm, vittime civili e città polverizzate. Forse cogliere la “dignità di questo popolo”, senza sottolineare il carico di condizionamento, appare un po’ riduttivo». Qui si arriva a mettere in dubbio anche la dignità di un popolo, con la tacita certezza di appartenere all’unico mondo dignitoso, proprio grazie alla corretta informazione di una “stampa libera” che chiede di minimizzare i crimini orrendi del padrone liberatore. Veramente un nobile esercizio di dignità e di libertà!

La disinformazione raggiunge livelli paradossali in un articolo apparso qualche giorno fa sul quotidiano La Repubblica. L’autore, dopo aver raccontato il pittoresco episodio di un contadino inferocito che lo inseguiva con un forcone mentre faceva jogging in una stradina di campagna, secondo lui perché scambiato per una spia americana, evoca ricordi «kafkiani, angosciosi e surreali» e fa un breve riferimento alla frontiera ‘smilitarizzata’, definendola «una polveriera con arsenali tali da poter annientare le due Coree». Ovviamente si astiene dal dire dove sono localizzati questi arsenali, né tantomeno parla della concentrazione di armi nucleari a sud del trentottesimo parallelo, la più alta del mondo. Ci rivela anche un piccolo segreto: «i bianchi vengono definiti tutti europei anche quando sono americani, visti i rapporti tesissimi fra Washington e Pyongyang». Non so da dove gli venga questa informazione. Posso dire, avendo visitato personalmente la Corea del Nord, di non aver mai sentito usare la parola “bianchi” in riferimento agli stranieri, ma di essere stata testimone di un linguaggio rispettoso ed alieno da ogni forma di razzismo. Mi è capitato inoltre di incontrare turisti statunitensi, sicuramente pochi, ma che non hanno fatto alcun mistero della loro nazionalità. Ma l’argomentazione più incredibile, che non mi era ancora capitato di leggere, è la seguente: «Non è prevista alcuna visita ai campi di concentramento dove si stima siano detenuti almeno 120.000 prigionieri politici». Come se dicessimo, nel criticare la politica statunitense, che non sono previste visite al campo di detenzione di Guantanamo. Qualcuno mi sa dire se esiste al mondo un Paese che prevede visite turistiche in carceri o luoghi simili?

Nonostante tutto, l’autore dell’articolo consiglia il viaggio, se non altro per godere dei paesaggi naturali incontaminati. Pensate forse che venga, almeno per questo aspetto, riconosciuto qualche merito alla Corea del Nord, che pur ha una legge sull’ambiente, divisa in cinque capitoli, contenenti 52 articoli sulla protezione e conservazione dell’ambiente naturale, la prevenzione dell’inquinamento e le sanzioni sui danni ambientali?[ 3 ] Assolutamente no. Dopo aver definito i paesaggi “incontaminati”, l’autore aggiunge «vista la tragica mancanza di sviluppo economico». La Corea del Nord non può essere salvata. Deve per forza rappresentare il Male assoluto. In essa non può esserci nulla di buono. La sola cosa buona non può che venire ancora una volta dall’Occidente, a cui il nostro giornalista assegna una missione civilizzatrice: i visitatori provenienti dal “mondo libero”, «non armati di “bazuka”», ma solo di democrazia, potrebbero «aprire gli occhi alla popolazione locale attenuando la presa della propaganda paranoica di sua maestà Kim».
Per concludere: sembra che il popolo nordcoreano qualche speranza ancora ce l’abbia. Almeno quella di vedere arrivare dei “salvatori” a liberarli da una propaganda che li rende schiavi. Ma i poveri popoli occidentali, chi li libererà? Resteranno prigionieri della loro illusione, e quando avranno conquistato anche i cuori e le menti dei nordcoreani, non potranno far altro che guardare all’interno dei propri e allora vi troveranno la desolazione, il vuoto, il nulla. E non avranno più alcuno scopo.

NOTE
1) Corea del Nord, di Federico Rampini, in La Repubblica, 24 settembre 2014
2) Tiziano Terzani, Corea del Nord: bandiera rossa, sangue blu, 1980
3) The law of the Democratic People’s Republic of Korea on the protection of the environment, Pyongyang, 1991


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