Che per comprendere l’attuale crisi degli equilibri geopolitici incentrati sulla egemonia degli Stati Uniti si debba tenere conto della alleanza tra una “classe capitalistica” e i vertici politici e militari di uno Stato egemone1 (alleanza che ha indubbiamente caratterizzato la genesi e lo sviluppo del capitalismo a partire dal XVI secolo), non è certo una novità2. Né è una novità che la Gran Bretagna, grazie alla rivoluzione industriale e alla definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo, abbia potuto consolidare la sua supremazia, al punto da essere una potenza europea pressoché priva di avversari che potessero impensierirla seriamente. Ciononostante, già nella seconda metà dell’Ottocento, emersero nuove potenze in grado di sconvolgere la “mappa geopolitica” non solo europea ma mondiale. Da un lato, si ebbe la crescita economica impetuosa della Germania e degli Stati Uniti (soprattutto dopo la guerra di secessione), accentuata dalla seconda rivoluzione industriale, dall’altro, si assisté al declino dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano, mentre salirono alla ribalta Paesi come la Russia e il Giappone, e perfino una nuova piccola potenza come l’Italia. Ancora più significativa però fu la sconfitta della Francia nella guerra franco-prussiana, che sancì un mutamento dei rapporti di forza in Europa che avrebbe portato la Francia e la Gran Bretagna ad allearsi, per far fronte al pericolo rappresentato dalla Germania, che si configurava ormai come un vero centro anti-egemonico. D’altra parte, la rivalità russo-turca e la crescente tensione tra l’Austria e la Russia, impedirono a Bismarck di consolidare il rapporto tra Mosca e Berlino, dovendo scegliere tra Vienna e Mosca. Svaniva così la possibilità per la Germania di combattere su un solo fronte, ossia su quello occidentale, nel caso che scoppiasse un’altra guerra tra potenze europee, come poi in effetti accadde nel 1914.

Nondimeno, neanche la Grande Guerra “risolse” la crisi dell’egemonia britannica e il policentrismo che aveva contraddistinto gli anni che precederono quell’immane conflitto, divenne ancora più acuto con la formazione di diversi centri anti-egemonici, per giunta in lotta tra di loro anche per ragioni ideologiche, mentre la Gran Bretagna, pur rimanendo la principale potenza sotto il profilo geopolitico, era già in netta inferiorità sul piano economico rispetto agli Stati Uniti. Negli anni Trenta quindi crisi economica (che continuava nonostante il New Deal, che si rivelava, se non un fallimento, incapace di risollevare le sorti dell’economia americana, perdurando una grave disoccupazione fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale) e crisi geopolitica (resa più grave dalla politica della Germania, dell’Italia e del Giappone) avevano trasformato ancora una volta l’intero pianeta in una gigantesca polveriera. D’altro canto, lo scontro tra potenze rivali non avveniva solo sul piano geopolitico, dato che i diversi centri anti-egemonici rappresentavano non solo un’alternativa geopolitica ma anche un’alternativa di carattere politico-sociale alla società liberal-capitalista (a prescindere dalle pur notevoli differenze tra il liberal-capitalismo britannico e quello statunitense, già allora di tipo manageriale e di gran lunga più dinamico e aggressivo di quello britannico), anche se, com’è ovvio, le tre potenze “revisioniste”, le cosiddette “have nots”, non si possono certo considerare anti-capitalistiche.

D’altro canto, se il Giappone e l’Italia erano potenze nazional-capitaliste3 – caratterizzate cioè dalla alleanza tra potentati economici e vertici politico-militari, che era basata su una ideologia nazionalista in grado di promuovere un’alleanza anche tra capitale e lavoro, benché in funzione di una politica di potenza che favorisse gli interessi del grande capitale – per quanto concerne la Germania, più che di un’alleanza tra regime nazionalsocialista e classe capitalistica tedesca, si dovrebbe parlare di una netta subordinazione dei potentati economici e dello stesso apparato militare (che pure conservò una certa autonomia) ai vertici politici del regime, che, del resto, agì anche sotto l’aspetto economico non secondo le “regole” del mercato capitalistico, ricorrendo, tra l’altro, ai Mefo per risollevare l’economia nazionale e al clearing per gli scambi internazionali, di modo da “sganciare” la Germania dalla finanza anglosassone4. D’altronde, anche se nessuna delle tre potenze “revisioniste” può essere definita socialista, è discutibile (pur tenendo conto della “necessità” di costruire il socialismo in un solo Paese) che lo fosse invece la formazione sociale sovietica. In sostanza, il cosiddetto “socialismo reale” non era altro che una “formula politica” per designare non la socializzazione ma la statalizzazione dei mezzi di produzione, ossia il fatto che l’unico proprietario dei mezzi di produzione non poteva che essere il partito-Stato comunista, in quanto unico legittimo “rappresentante” della classe operaia (e di conseguenza, secondo gli schemi concettuali marxisti, dell’interesse dell’intera collettività). Che si trattasse di una fase di transizione che doveva sfociare nella costruzione di una società comunista era però dubbio già allora. In effetti, persino nella prima metà del Novecento non si poteva davvero ignorare che sia la direzione tecnica delle grandi imprese che la direzione strategica dello Stato richiedevano competenze elevatissime, quasi “esoteriche”, che rendevano impossibile una autentica socializzazione delle forze produttive.

Questo non significa però che lo scontro ideologico tra Berlino e Mosca non fosse così forte da impedire la possibilità di costituire un “blocco eurasiatico”, in grado di opporsi con successo alle potenze liberal-capitaliste, benché non si debba nemmeno sottovalutare l’importanza del noto patto russo-tedesco dell’agosto del 19395. La stessa geopolitica tedesca in quanto subordinata agli “imperativi ideologici” del Terzo Reich e fondata sulla necessità di impadronirsi di uno “spazio vitale” (Lebensraum) che comprendeva i territori della Russia ad ovest degli Urali, lasciava ben poco margine di manovra a coloro che puntavano su un “asse” Berlino-Mosca per combattere le “potenze occidentali”, cioè angloamericane. Comunque sia, l’alleanza tra il centro anti-egemonico sovietico e il nuovo Stato egemone d’oltreoceano, fu determinante per la sconfitta delle potenze dell’Asse, anche se era logico che, una volta terminata la Seconda guerra mondiale e “relegata” la Gran Bretagna in una posizione di secondo piano, sarebbe cominciata la lotta per l’egemonia mondiale tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, o, se si preferisce, tra “socialismo reale” e liberal-capitalismo.

Quel che però rileva in questa sede è che ancora una volta lo scontro avvenne sia sul piano geopolitico che su quello ideologico. E certamente la guerra fredda non fu una sorta di “pantomima”, come taluni sostengono, giacché se le due potenze rivali non avessero avuto ciascuna le armi atomiche, con ogni probabilità la guerra da fredda sarebbe diventata calda. Del resto, la “tensione”, non potendo scaricarsi al “centro”, per così dire, si scaricò in “periferia” (mediante una serie di guerre per procura in Estremo Oriente e in Medio Oriente, ma anche con una serie di conflitti di vario genere nel continente africano e perfino in quello americano). Inoltre, la presenza stessa di un forte centro anti-egemonico che si contrapponeva anche sul piano ideologico allo Stato egemone, favorì non solo le lotte di liberazione nazionale, ma pure le ragioni del mondo del lavoro (in senso ampio, quindi inclusa buona parte dei ceti medi) contro il grande capitale, soprattutto in Europa, ove la struttura sociale, incentrata sul Welfare e su una economia mista, sembrava destinata ad evolversi in senso “postcapitalista”.

Pur tuttavia, già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso era chiaro perfino ad alcuni dirigenti comunisti occidentali che l’Unione Sovietica, volendo competere con gli Stati Uniti “sullo stesso terreno”, sia sotto l’aspetto militare che sotto quello economico, prima o poi non avrebbe potuto non imbattersi nei propri limiti, con conseguenze catastrofiche per l’intero “blocco socialista”, dato che era ormai evidente che un’economia di mercato, anche se “incastrata” come in Europa occidentale in un ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche e culturali, promuoveva lo sviluppo delle forze produttive assai meglio del “socialismo reale”. Difatti, la crisi dell’Unione Sovietica (peraltro incapace di dar vita insieme alla Cina ad unico “blocco anti-egemonico” – e non si trattò di questione di poco conto) si sarebbe accentuata negli anni Ottanta, al punto che, una volta che i dirigenti sovietici decisero di riformare il sistema sovietico, nel giro di pochi anni l’Unione Sovietica sarebbe “implosa”, lasciando apparentemente gli Stati Uniti padroni assoluti del mondo, tanto è vero che allora parve “sensato” parlare addirittura di “fine della storia” ovvero del definitivo trionfo del capitalismo di matrice angloamericana.

Poco importa, sotto questo punto di vista, la celere “conversione” in massa di politici e intellettuali comunisti e socialisti al “verbo anglofono”, liberale, liberista e libertario, avvenuta negli anni Ottanta/Novanta. Quel che rileva è che in effetti negli anni Novanta il modello occidentale “americano-centrico” sembrava non avere rivali né sotto il profilo geopolitico né sotto quello ideologico (se non si considerano alcuni “nostalgici”, di vario colore, incapaci di fare i conti con le dure lezioni della storia). Sono gli anni appunto che vedono la nascita dell’unipolarismo americano, contraddistinto, non a caso, da un forte incremento dei profitti e del potere del grande capitale a scapito del mondo del lavoro, dalla diffusione capillare di una cultura di massa che “veicola” l’american way of life . Ma sono anche gli anni in cui si sono iniziate le guerre umanitarie e le rivoluzioni colorate, e in cui si è incominciato ad eliminare “sistematicamente” ogni centro di potere che non fosse “allineato” con gli interessi di Washington e Wall Street, creando le condizioni per la proliferazione dello stesso terrorismo internazionale (in particolare quello islamista, sostenuto dalle petromonarchie filo-occidentali).

Com’è noto, il “sogno unipolare” americano è durato poco. La crescita della Cina, diventata in pochi anni addirittura la prima potenza industriale, la “rinascita” della Russia sotto la guida di Putin, i fallimenti politico-strategici della macchina bellica statunitense in Afghanistan e soprattutto in Iraq, nonché lo scoppio della bolla finanziaria nel 2007/8 per un’abnorme (e perfino criminale) espansione del capitalismo finanziario, ai danni dell’economia reale, con la conseguente crisi economica internazionale6, hanno segnato la fine dell’unipolarismo americano e inaugurato una fase che si suole designare come multipolarismo imperfetto o asimmetrico, in quanto ancora imperniato sulla supremazia degli Usa, il cui declino (relativo) è comunque innegabile. Ma, anche tenendo presente il ricorso da parte di Washington alla geopolitica del caos per difendere ad ogni costo la propria posizione di Stato egemone (tanto da concedere con l’amministrazione Obama perfino maggiore “spazio” a veri Stati canaglia come il Qatar e l’Arabia Saudita) sarebbe meglio definire la presente fase storica come un periodo di caos sistemico. Un periodo cioè caratterizzato non solo da forte instabilità e crisi economica, ma da numerosi conflitti in “periferia” (Ucraina, Medio Oriente, Africa Settentrionale, etc.) e da una crescente tensione tra Stato egemone e nuovi centri anti-egemonici, in primis con la Russia (soprattutto per il “potere d’attrazione” che potrebbe avere nei confronti dell’Unione Europea – che deve far fronte ad una sempre più grave crisi politica ed economica – e in particolare nei confronti della Germania, il cui ruolo geoeconomico è di gran lunga più importante del suo ruolo geopolitico), anche se la forte pressione su Mosca ha avuto per ora l’effetto di rafforzare i legami tra la Russia e la Cina, anziché indebolirli, e di offrire alla Russia la possibilità di intervenire militarmente in Siria e quindi di tornare ad essere protagonista nell’area mediterranea come al tempo dell’“impero sovietico”.

Il paragone tra il declino dell’egemonia statunitense e quello dell’egemonia britannica, contrassegnato da  due conflitti mondiali, oltre che dalla terribile crisi economica che derivò dal crollo di Wall Street nel 1929, pare dunque logico, eppure le differenze tra le due transizioni egemoniche (ammesso che anche il declino degli Stati Uniti lo si possa definire tale) sono perfino più importanti. Non solo in questo inizio di millennio vi è una situazione culturale e sociale del tutto diversa, in quanto contraddistinta dal quasi totale dominio del grande capitale sul mondo del lavoro, da una sinistra “al soldo dei mercati”, dallo sfaldamento del tessuto sociale, dalla colonizzazione da parte del mercato di ogni “mondo vitale” e dall’impoverimento, economico e culturale, della maggior parte dei ceti medi a vantaggio di una classe media sedicente “cosmopolita” (formata da dirigenti, tecnici e professionisti di alto livello perfettamente “allineati” con la politica dello Stato egemone, ma perlopiù privi di autentica “coscienza politica”). Ma non vi è nemmeno una vera sfida di carattere ideologico tra i centri anti-egemonici e lo Stato egemone, che gode peraltro di una pressoché indiscussa supremazia culturale, anche (ma non solo) grazie al controllo dei media mainstream.

L’assenza di uno scontro ideologico da alcuni potrebbe, tuttavia, essere considerata un fatto positivo, dato che ormai si suole identificare l’ideologia con la “cattiva coscienza” o comunque con l’adesione acritica a determinati schemi concettuali, tanto è vero che si preferisce impiegare il termine Weltanschauung per designare una concezione del mondo sufficientemente strutturata e che si può difendere anche con argomentazioni razionali. Ma la sostanza non cambia, giacché la novità, rispetto alla lotta per l’egemonia nel Novecento, consiste principalmente nel fatto che lo scontro sul piano geopolitico non si configura più come uno scontro tra formazioni sociali di “segno opposto” (nel senso che tendono ad escludersi a vicenda)7 bensì si configuri soprattutto come una lotta tra gruppi dominanti che cercano di rafforzare il proprio potere (o di conquistare delle nuove “posizioni dominanti”), limitandosi ad adeguare il sistema sociale allo sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo secondo i principi del mercato capitalistico e dell’ideologia tipica dell’homo oeconomicus8. Va da sé, infatti, che l’apparato tecnico-produttivo non si sviluppa in maniera del tutto autonoma, bensì anche (ed inevitabilmente) in funzione di determinati interessi, secondo “direttive strategiche” di gruppi di “decisori” (si pensi ai cosiddetti “funzionari del capitale”) nonché secondo principi e valori etici e culturali. Invero, è il “vuoto” generatosi dalla crisi irreversibile del socialismo che rende problematica la definizione di una alternativa all’attuale società di mercato.

Ragion per cui è davvero significativo che autori con differenti biografie politico-culturale e di entrambe le sponde dell’Atlantico, abbiano saputo elaborare in questi ultimi anni una critica seria e motivata all’ideologia neoliberale predominante, mettendo in discussione la supremazia dell’homo oeconomicus e facendo invece valere le ragioni di una concezione che privilegia un rapporto tra comunità e individuo, fondato sulla supremazia del bene comune e sul senso di appartenenza9. Difatti, il comunitarismo, soprattutto quello europeo10, ha tutte la “carte in regola” per confrontarsi con l’ideologia neoliberale e al tempo stesso con le sfide della postmodernità, mentre da più parti si avverte l’esigenza di difendere la sovranità nazionale, pur riconoscendo la necessità di “incastonare” i singoli Stati in “grandi spazi” geoeconomici e geopolitici. Si può pertanto concludere che solo quando si riuscirà (se si riuscirà) a contrastare la supremazia politico-culturale del “polo atlantico” la lotta per l’egemonia non si ridurrà solo ad uno scontro tra gruppi dominanti. Al riguardo, non si deve comunque dimenticare che la crisi dello stesso Welfare europeo è dipesa più da ragioni geopolitiche e culturali che da ragioni economiche (e solo chi è in malafede può ritenere che il Welfare sia stato un fallimento dal punto vista economico). Vale a dire che (come insegna anche la storia del secolo scorso) la lotta sociale e politica non può prescindere dalla geopolitica. In definitiva, è lecito ritenere che solo la lotta tra poli anti-egemonici e polo egemone (anziché, come ancora alcuni pensano, quella tra la “periferia” e il “centro” della cosiddetta “economia-mondo”) sia la conditio sine qua non perché dall’attutale caos sistemico possa svilupparsi una formazione politica e sociale in cui la moneta, la terra e il lavoro non siano più considerati delle mere merci e che quindi avrebbe davvero poco senso definire ancora come una formazione di tipo capitalista.


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  1. Perciò, d’ora in poi per Stato egemone intendo uno Stato egemone capitalistico.
  2. Al riguardo mi permetto di rimandare, oltre al noto libro di Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014, al mio saggio Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra, Anteo, Cavriago (RE), 2016.
  3. Questo indipendentemente dalle differenze tra i due regimi e senza considerare che il regime fascista italiano era di gran lunga più debole, “stretto” com’era tra chiesa cattolica, monarchia (e quindi vertici militari) e grande capitale, con cui aveva fatto una serie di compromessi, che garantivano la fedeltà di questi centri di potere al regime solo nella misura in cui quest’ultimo ne sapeva difendere gli interessi. Non sorprende quindi che il regime fascista italiano, oltre a collezionare una serie impressionante di sconfitte nella “guerra parallela” (cioè 1940-41) sia crollato assai prima che terminasse la Seconda guerra mondiale, dato che era logico che la “vecchia” classe dirigente italiana, quando si fosse resa conto che la guerra era perduta, si sarebbe tolta in fretta e furia la camicia nera, per passare dalla parte delle potenze liberal-capitaliste.
  4. I Mefo erano obbligazioni emesse sul mercato interno per fornire agli industriali i capitali di cui avevano bisogno. In pratica, i Mefo erano una vera moneta, esclusivamente per uso delle imprese (a circolazione fiduciaria).  Il clearing invece è un sistema in cui i pagamenti non equilibrio non generano movimenti di valuta ma vengono registrati solo da uffici di conteggio. Vedi Paolo Fonzi, Germania-Italia. Ricezioni reciproche e storie divise nell’età contemporanea, Deutsches Historisches Institut, Roma, 25-27 ottobre, 2012, pubblicato sul sito di “Academia. edu”. Si tenga presente che per la Germania era essenziale aggirare il problema della scarsità valutaria e che nel 1934 Hitler aveva dichiarato unilateralmente una moratoria totale sul pagamento dei debiti esteri.
  5. Al riguardo vedi Eugenio Di Rienzo, Emlio Gin, Le potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2013 e Eugenio Di Rienzo, “Lo Stato non è Spirito Assoluto”. Ancora sul Patto Molotov-Ribbentrop e sui Peace Feelers nazi-sovietici durante il secondo conflitto mondiale, “Nuova Rivista Storica”, 2, 2015, pp. 519-580 (entrambi pubblicati anche sul sito “Academia. edu”). Di Rienzo e Gin hanno provato che i “contatti” tra Berlino e Mosca non cessarono dopo il fallimento dell’operazione “Barbarossa” e nemmeno dopo la sconfitta della Wehrmacht a Stalingrado.
  6. Indicativo a tale proposito è il fatto che Fernand Braudel, come ricorda Arrighi, considerasse una simile espansione del capitalismo finanziario il segnale dell’autunno dello Stato egemone.
  7. Certamente la Grande Guerra fu un conflitto tra potenze imperialistiche, ma in un contesto politico-culturale assai diverso da quello odierno (basti pensare alla Rivoluzione russa dell’ottobre del 1917).
  8. D’altra parte, la stessa Cina da tempo ha messo in soffitta il “socialismo” e scelto di scatenare gli “spiriti animali” del capitalismo per crescere economicamente e competere sul piano internazionale con il mondo occidentale (paradossale peraltro, in un’ottica marxista, il fatto che la “struttura” della società cinese sia il mercato capitalistico, mentre il partito-Stato, ovvero la “sovrastruttura”, continui a definirsi “socialista”. In pratica, la formula politica “socialismo di mercato” denota la trasformazione in senso capitalista dell’economia di un Paese “socialista” , di modo che, comunque la si pensi, il “socialismo di mercato” per un Paese occidentale non può rappresentare una reale alternativa alla società di mercato. Naturalmente, sia la formazione sociale cinese che quella russa (che si potrebbero forse definire due diverse forme di nazional-capitalismo) si distinguono da quella angloamericana per ragioni storiche e culturali, ma proprio per questo non sono “esportabili” in tutto il mondo, a differenza di quella liberal-capitalistica occidentale.
  9. Se non è difficile “declinare” il senso d’appartenenza senza cadere nella trappola del totalitarismo né in quella dell’estremismo nazionalista o della xenofobia, non lo è neppure respingere la scontata obiezione liberale riguardo al bene comune (secondo cui quest’ultimo non esiste o denota comunque qualcosa di troppo vago), definendo il bene comune a partire dai fondamentali diritti e doveri di ciascun membro di una comunità. In sintesi, il bene comune è, in primo luogo, quello che si ha il dovere di difendere in quanto è in funzione dei fondamentali diritti sociali ed economici dei membri “a pieno titolo” di una comunità, che come tali non possono che essere “eguali”.
  10. Due nomi per tutti: Costanzo Preve e Alain de Benoist (ma si può aggiungere pure il pensatore russo Aleksandr Dugin).
Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.