Si è aperto con una stretta di mano in territorio neutro lo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo di Taiwan Ma Ying-jeou, lo scorso sabato 7 novembre. Erano 66 anni che i due fratelli di sponda opposta non si parlavano, da quando cioè le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek sconfitte dall’esercito di liberazione popolare di Mao ripararono sull’isola di Formosa. Da allora Pechino considera Taiwan una provincia ribelle, parte integrante e irrinunciabile del territorio cinese. Un disgelo di valenza unicamente simbolica comunque, almeno per ciò che riguarda i temi politici: dall’incontro non emergono dichiarazioni di intesa per un eventuale trattato di pace o un accordo che spiani la strada alla riunificazione. La partita politica si gioca su altri campi. Per Taipei l’incontro è dettato dall’agenda elettorale. Le presidenziali che si terranno a Taiwan nel prossimo gennaio 2016 potrebbero vedere la vittoria del fronte indipendentista (e fortemente critico nei confronti di Pechino) guidato da Tsai Ing-wen, a scapito del Kuomintang, il partito di Ma attualmente al potere ma già notevolmente ridimensionato durante le ultime elezioni amministrative.

Il tentativo del Presidente Ma è chiaramente quello di riguadagnare consensi in patria, accreditandosi come il tutore dello status quo contro un avversario politico che rischierebbe di irritare non poco il gigante sulla terraferma. Dall’altra parte Xi – per il quale i popoli “delle due sponde sono una sola famiglia” – intende sperimentare una variante pacifica al tentativo di influenzare il risultato delle urne a Taipei: invece della vecchia prassi delle esercitazioni militari provocatorie, un incontro al vertice tra i “signori” delle due Cine, come i due uomini politici hanno deciso di chiamarsi reciprocamente evitando l’appellativo di “presidente”, un riconoscimento di sovranità che nessuna delle due parti è disposta ad ammettere.

Per Pechino la motivazione a margine dell’iniziativa diplomatica potrebbe poi riguardare la crescente tensione col principale antagonista alla supremazia cinese nella regione: gli Stati Uniti, i quali avrebbero mal tollerato pressioni militari sul proprio alleato strategico. Le rivendicazioni territoriali e marittime del Dragone Rosso a fronte della sua sete di risorse non lasciano ben sperare gli Stati Uniti. La Cina rivendica il 90% del Mar Cinese Meridionale in contrasto con altri attori regionali, molti dei quali storicamente ancorati a Washington. In caso di conflitto i paesi rivali potrebbero recuperare l’amicizia statunitense in chiave anticinese, sfruttando le rispettive posizioni geostrategiche per fortificare la “prima catena di isole”, una linea di territori, cioè, che si snoda dal sud del Giappone fino al braccio di mare compreso tra Vietnam e Filippine, passando per Taiwan.

Pechino rischia così un blocco navale praticamente invalicabile. Gli Stati Uniti, il più importante concorrente nella zona, avallerebbero una proposta del genere, essendo interessati a preservare il controllo degli spazi comuni (marittimi e aerei) funzionale alla loro supremazia. In un recente tesissimo episodio dell’ottobre scorso la Marina statunitense ha sfidato Pechino inviando un cacciatorpediniere nelle 12 miglia nautiche che la Cina considera acque territoriali intorno alle isole artificiali Spratley, un gruppo di scogli recentemente attrezzati per consentire l’approdo alle forze armate cinesi, ma rivendicati da altri cinque paesi della zona: Vietnam, Malesia, Brunei, Taiwan e Filippine. La soluzione cinese ad un simile scenario risiede naturalmente in primo luogo nella risposta militare.

Negli ultimi anni, se non nell’ultimo decennio, si è infatti registrato un salto qualitativo e quantitativo nella modernizzazione ed espansione delle Forze armate cinesi. In particolar modo il progresso ha riguardato la marina. Oltre allo sviluppo di una notevole flotta di sottomarini, destinata a contrastare la libertà di movimento americana nell’area, la Cina starebbe costruendo due nuove portaerei (attualmente ne ha una di fabbricazione sovietica). Il valore strategico delle portaerei consiste nella loro capacità di aumentare la proiezione della forza oltre le frontiere, elemento indispensabile se Pechino vuole difendere le proprie linee di comunicazione marittime anche in contesti lontani come l’Oceano Indiano. La modernizzazione ha riguardato anche l’arsenale missilistico, cioè missili balistici a medio raggio indirizzati contro le basi americane in Giappone e Corea e missili balistici antiportaerei.

Per il momento la RPC però non rappresenterebbe un concorrente in termini assoluti: nonostante sia la seconda potenza nell’elenco dei bilanci militari più cospicui, il bilancio della difesa cinese è 4 volte inferiore a quello americano, che da solo assorbe le cifre sommate degli otto paesi a seguire. Gli Stati Uniti godono del vantaggio di poter utilizzare basi fuori dalla portata del nemico ma relativamente vicine al teatro di conflitto, come la base di Okinawa o la base di Darwin, riattivata e potenziata proprio nel quadro della strategia del contenimento dell’aggressività cinese enunciata dall’amministrazione Obama nel 2009, il cosiddetto “Pivot to Asia”. Si aggiunga la schiacciante superiorità nel possesso di portaerei che consente alla potenza militare yankee una capacità di proiezione a copertura dell’intero globo. Un deterrente in grado di guadagnare il supporto degli alleati della regione in funzione anticinese, da utilizzare per un valido “southern tier”.

D’altra parte, riconoscendo la superiorità tecnologica dell’avversario, la strategia cinese è tutta orientata ad evitare lo scontro in campo aperto, mirando invece ad interrompere la catena di comando e danneggiando la struttura logistica del nemico preventivamente, praticamente negandogli lo spazio per la battaglia. Oltre a proporsi di raggiungere la superiorità nel cyberspazio, con attacchi all’infrastruttura informativa americana e ai sistemi di controllo satellitare, Pechino si affida all’unico modo che ha di sfidare gli Stati Uniti: sviluppare un’egemonia regionale, a contrasto di quella americana. Il tentativo di ostacolare il predominio americano nella regione, ha prodotto infatti negli ultimi anni un miglioramento delle relazioni sia economiche che politiche con i paesi limitrofi – tra questi Taiwan, per cui la Cina è il primo partner economico – attraverso negoziati commerciali, grandi investimenti e la creazione di una nuova istituzione finanziaria tutta asiatica.

Una distensione economica che ha dato vita al Free trade area of the Asia Pacific (Ftaap), un’area di libero scambio che copre metà del commercio e dell’economia globale, la risposta cinese cioè alla Trans-Pacific partnership (Tpp), la componente economica del “Pivot to Asia”. La versione cinese della politica di buon vicinato trova attuazione però prevalentemente in ambito economico, mentre a livello politico le dispute territoriali permangono a incrinare i rapporti con “l’estero vicino” e l’escalation militare rimane uno scenario contemplato.
Il processo di ricongiungimento di Taiwan alla madrepatria rimane uno degli assi principali della politica estera cinese. Dato il quadro generale e i molteplici interessi coinvolti nell’area, è difficile immaginare un cambiamento nei rapporti tra le due Cine senza che esso coinvolga prevedibilmente la reazione statunitense, motivo per il quale, nonostante storici eventi come quello del sabato scorso, la questione rimarrà per molti decenni a venire sostanzialmente insoluta. Da incontri di questo tipo sono volutamente esclusi temi di carattere politico: l’interesse è da una parte agitare lo spettro di Pechino per mantenere il potere sull’isola, dall’altra preservare l’attuale status quo in maniera da guadagnare tempo e riassorbire nella maniera più pacifica possibile l’isola.


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