Andrea Foffano

 

La Libia è il quarto paese dell’Africa per estensione di superficie, il diciassettesimo al mondo. Sotto il pugno di ferro del Colonnello Gheddafi poteva vantare una popolazione di 6.120.585 abitanti (2008) e un PIL di 81 miliardi di dollari. Tutto questo prima dell’instaurarsi di una sanguinosa guerra civile che ha portato il PIL libico a dimezzarsi in breve tempo. La tragica guerra civile libica e il caos che ne è derivato non possono essere compresi se non si analizza brevemente la storia recente di questa ex colonia italiana. La Libia è sempre stata storicamente divisa in tre grandi regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. La Tripolitania è quella regione che ha sempre ricoperto un ruolo strategico a livello geopolitico. Sin dal 1927 fu quasi sempre considerata dal governo italiano come una colonia a sé stante (la cosiddetta “Tripolitania Italiana”) e le cose non cambiarono molto neanche con l’avvento nel secondo dopoguerra dell’amministrazione inglese. La Cirenaica, con le sue due “perle sul Mediterraneo” (Tobruk e Bengasi), pur essendo doppia per estensione geografica rispetto alla Tripolitania, è però abitata dalla metà degli individui.

Dopo l’assassinio del Colonnello Gheddafi, avvenuto il 20 Ottobre 2011, la spaccatura tra le due regioni dominanti si è approfondita e, complice il coinvolgimento di solamente il 18% dei Libici durante le elezioni del 26 Giugno 2014, il governo risultante dalle elezioni fu osteggiato da gran parte della popolazione della Tripolitania, in quanto palesemente di matrice liberale e federalista. Per questo motivo il nuovo apparato amministrativo, che godeva e gode tutt’oggi del riconoscimento internazionale da parte dell’ONU, si trasferì a Tobruk sotto la protezione del Generale Haftar, ufficiale di alto rango dell’allora esercito di Gheddafi, nonché anima militare della rivolta popolare durante la Primavera Araba libica.

In opposizione al governo di Tobruk, si formò a Tripoli un fronte di opposizione di matrice islamista denominato “Alba Libica”, il quale poteva contare sull’appoggio militare delle temibili milizie di Misurata (il cosiddetto “Scudo Libico”). La situazione di stallo proseguì sino al 6 Aprile 2016, quando Fayez al-Sarraj, in accordo con la “comunità internazionale”, assunse la carica di Primo Ministro del nuovo governo libico di unità nazionale. Alba Libica e i suoi alleati abdicarono in favore del nuovo governo nazionale. Proprio quando pareva di essere arrivati alla svolta decisiva, qualcosa si inceppò: Haftar rifiutò di abdicare nei confronti dell’esecutivo di al-Sarraj. Il piano della “comunità internazionale”, che doveva portare passo dopo passo alla fusione delle due entità geopolitiche in un unico soggetto, fallì miseramente. Perché? I motivi sono molti. In primis, il fatto che al-Sarraj rifiutava categoricamente di concedere un posto al generale Haftar nel nuovo governo libico: infatti al generale fu negata la possibilità di diventare ministro della difesa del nuovo esecutivo nazionale. Successivamente non può non colpire il fatto che in Libia circa l’85% della popolazione appartenga a più di 160 tribù sparse per il territorio, ognuna delle quali con un’identità sociale definita e ben precisa. Se escludiamo l’ISIS, in Libia operano circa 230 milizie differenti armate di tutto punto e pronte a difendere i propri interessi, anche tramite l’insorgenza. Sullo sfondo rileviamo poi una minaccia terroristica specifica: al-Shari’a è un’organizzazione terroristica affiliatasi all’ISIS che controlla i territori compresi nell’area di Sirte e Derna. La visione geopolitica complessiva risultante non può quindi che essere la seguente: attualmente in Libia vi sono due amministrazioni governative, entrambe riconosciute dalla “comunità internazionale”, che non intendono fondersi l’una con l’altra per nessun motivo, mentre sullo sfondo compare minacciosa la bandiera dell’ISIS.

Se riflettiamo sull’aspetto sociale della situazione, non possiamo non soffermarci sulla reale necessità delle due fazioni in lotta (islamista e liberale) di tutelare la propria incolumità e di proteggere la propria identità. Su questo piano sono intervenute più di una volta le ingerenze esterne delle potenze estere: ad esempio è ben noto il sostegno logistico di cui gode Haftar tramite l’Egitto di al-Sissi o il sostegno militare chiesto recentemente da al-Sarraj alla “comunità internazionale”. In questo clima cercano di districarsi le grandi compagnie dell’oro nero: Eni, Mobil, Repsol, BP e Total solo per citarne alcune. La maggior parte delle concessioni petrolifere si localizzano in Cirenaica, dove British Petroleum ha più di 200 miglia di zona off-shore al largo di Bengasi. Seguono a ruota, nell’on-shore, Repsol (SPA), Shell/Royal Dutch (HOL/UK), Mobil (USA) e RWE (GER). Sotto questo aspetto la Tripolitania è invece strategica per due motivi: Eni e Greenstream. Eni è presente massicciamente nell’off-shore del Mar Mediterraneo di fronte a Tripoli. Inoltre è proprio da Tripoli che passa Greenstream, il gasdotto che porta il gas libico da Wafa (entroterra libico) sino in Sicilia. Se a tutto questo aggiungiamo che in Tripolitania l’unica altra compagnia che vanta consistenti interessi economici è Mobil (USA), si comprende molto chiaramente il motivo che anima la richiesta statunitense di un intervento internazionale in Libia geopoliticamente stabilizzante, ma a guida italiana. Per contro è del tutto evidente che il riacuirsi di un conflitto armato non gioverebbe a nessuno; anzi, comporterebbe la concreta possibilità della perdita delle concessioni petrolifere da parte delle grandi compagnie (come già successo anni addietro con Gheddafi); inoltre favorirebbe tra i due litiganti il terzo incomodo, cioè al-Shari’a (ISIS); infine, porterebbe ad un aggravamento dell’emergenza sociale connessa all’immigrazione incontrollata, fenomeno cui l’Europa non riuscirebbe più a fare fronte.

Una proposta che viene avanzata è quella della divisione della Libia in macroregioni. Tale divisione sarebbe possibile nel caso in cui un referendum popolare sancisse di fatto la nuova struttura federale della Libia, peraltro auspicata da più parti. Analizziamo la proposta sotto i suoi molteplici aspetti. Sostenendo due governi già riconosciuti dall’ONU, la “comunità internazionale” concederebbe ad entrambe le amministrazioni la possibilità di combattere e sradicare il fenomeno terroristico dell’ISIS dalla Libia, cosicché si instaurerebbe un clima politico di stabilità e di garanzie per il futuro. I due governi, previa la stipula di accordi internazionali, sarebbero in grado di mantenere sotto stretto controllo il fenomeno migratorio convergente nel Mediterraneo centrale, col risultato che verrebbe inflitto un duro colpo alle organizzazioni criminali che attualmente gestiscono il traffico di esseri umani dall’Africa all’Europa. Sotto il profilo economico la stabilità politico-sociale dell’area attirerebbe nuovi investimenti esteri; nuove imprese si impegnerebbero nella ricostruzione del paese, duramente provato dal conflitto civile.

L’Italia, essendo storicamente presente in tutta l’area libica con infrastrutture, uomini e mezzi, avrebbe solo da guadagnare da un’opera stabilizzatrice che si attuasse in tempi rapidi. Potrebbe infatti ripercorrere il solco tracciato dagli investimenti compiuti per la ricostruzione del paese. Inoltre il controllo e la vigilanza delle aree nautiche permetterebbe la riattivazione della rotta che collega i porti dell’Adriatico con la Libia, senza considerare poi il fatto che la risultante vigilanza del Mediterraneo centrale contribuirebbe alla regolamentazione dei flussi migratori.

 

 


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