Il grande paese che denominazioni italiane differenti hanno indicato come Casachia o Cosacchia o Cazachistan o Cosacchistan viene oggi per lo più designato come Kazakistan, oppure, sulla falsariga della forma russa, Kazachstan o Kazakhstan.

Kazak (qazaq) è un termine turco di etimologia controversa, applicato in passato a individui che si separavano dalla tribù di appartenenza e conducevano una vita avventurosa (il verbo turco qaz significa infatti “vagare”). “Un khan che, poco fortunato nella lotta per il potere sul suo clan, si salvasse fuggendo con un pugno di fedeli, diveniva kazak. Kazak erano inoltre tutti quei malcontenti che partivano per evitare le soperchierie del loro khan, cercando a loro rischio e pericolo fortuna altrove. Certi avventurieri russi, che non volevano sottostare alla sovranità moscovita e abbandonavano la loro patria, si appropriarono dello stesso termine turco”1 e divennero “cosacchi”.

Una più suggestiva interpretazione dell’etnonimo2 ci rinvia al mito secondo cui il popolo kazako discenderebbe da una primordiale oca (qaz) bianca (aq), una donna-uccello d’origine celeste. Racconta tale mito che un uomo, avendo visto delle fanciulle nuotare nelle acque d’un lago (il Lago d’Aral o il Lago Balkhash), si impadronì delle vesti lasciate sulla riva da una di loro; quest’ultima, quando le sue compagne si trasformarono in oche e volarono via, rimase sulla riva e si unì a quell’uomo, cosicché diede alla luce il primo Kazako. Noto a tutti i popoli altaici, questo mito d’origine si trova diffuso su un’area più vasta in numerose varianti, che a volte parlano di oche, altre volte di cigni: è stato rintracciato presso i Samoiedi, i Lapponi, i Russi, i Polacchi e, secondo Uno Harva, sarebbe attestato anche in Cina3. “Questa estrema estensione e l’epoca relativamente tarda della sua apparizione nel folclore turco-mongolo potrebbero far pensare che si tratti di un prestito proveniente dagli Slavi. In realtà, il tema degli amori tra un cigno ed un essere umano è antico quanto il mondo”4 ed è presente in quasi tutta l’Eurasia: si pensi soltanto al mito greco degli amori di Leda col Cigno olimpico.

Le oche-principesse del mito d’origine kazako sono le stesse che, secondo le mitologie dei popoli di cultura affine, viaggiano lungo la Via Lattea, il luminoso percorso notturno degli uccelli migratori che viene chiamato “Sentiero degli Uccelli” o “Sentiero delle Oche Selvatiche”5. Per gli Ungheresi, che oggi rinsaldano col Kazakistan un antico vincolo di parentela, la Via Lattea è la “Via degli Eserciti”, perché fu essa a guidarli dall’Asia in Europa e perché su di essa cavalca il principe Csaba, il più giovane figlio di Attila.

Perciò il Kazakistan, il paese dei discendenti dell’Oca Bianca, alla luce del mito ci appare come una sorta di proiezione terrena del sentiero celeste battuto dagli uccelli migratori: per un migliaio d’anni, infatti, esso è stato percorso da ondate successive di popoli nomadi a cavallo, i quali con le loro incursioni hanno profondamente influito sugli eventi politici europei ed hanno anche contribuito alla configurazione dell’Europa così come fino ad oggi l’abbiamo conosciuta.

“Dal quinto al sedicesimo secolo, una cospicua serie di popolazioni nomadi turaniche – Unni, Avari, Bulgari, Magiari, Kazaki, Peceneghi, Cumani, Mongoli e Calmucchi -, provenienti dagli sconosciuti recessi dell’Asia, arrivò attraverso la steppa e il passaggio tra i Monti Urali e il Mar Caspio. Sotto la guida di Attila, gli Unni si insediarono al centro della Puszta, nell’isolato lembo danubiano della steppa, da dove attaccarono in ogni direzione le popolazioni stanziali dell’Europa. Gran parte della storia moderna potrebbe essere scritta come commento ai rivolgimenti causati, direttamente o indirettamente, da queste incursioni”6.

Così il 25 gennaio 1904 Sir Halford Mackinder (1861-1947), professore di geografia presso l’Università di Oxford e direttore della London School of Economics and Political Science, segnalava ai suoi ascoltatori della Royal Geographical Society l’importanza fondamentale di quest’area, in relazione alla quale aggiungeva: “Per quel che riguarda la steppa russa vera e propria, la più duratura ed efficace occupazione è stata forse quella dei Kazaki, contemporanei del grande movimento saraceno: i geografi arabi conoscevano il Caspio come Mare Kazako”7. Basandosi su questa retrospettiva storica e constatando altresì la persistenza dei rapporti geografici, Mackinder insegnava alla classe politica e militare britannica che la vasta area occupata prima dall’impero mongolo e poi da quello russo – area di cui il Kazakistan costituisce una parte essenziale – rappresenta il perno geografico della storia: “La regione-perno della politica mondiale non è proprio quella vasta area dell’Eurasia, inaccessibile alle navi ma percorsa nell’antichità da nomadi a cavallo, che oggi sta per essere ricoperta da una fitta rete di ferrovie?”8.

Un secolo dopo la lezione di Mackinder, il Kazakistan, che già dispone di una rete ferroviaria di 14.460 km. (senza contare le linee industriali), costruisce nuove linee ferrate, espandendo i trasporti verso la Cina e verso il Golfo Persico. Nel 1992 viene completato l’ultimo tratto ferroviario della Via della Seta con l’inaugurazione del segmento che unisce Almaty con Urumqi, da dove si può raggiungere ogni zona della Cina. In occasione del VII Forum Islamico Economico Mondiale, tenutosi ad Astana nel giugno 2011, il Presidente Nazarbaev esorta la Banca Islamica di Sviluppo ad incrementare i finanziamenti per la costruzione della linea “Kazakistan-Turkmenistan-Iran”, che si estende su un percorso di un migliaio di chilometri.

Mackinder aveva dunque capito che la Gran Bretagna, se voleva conservare l’egemonia oceanica, doveva vigilare contro l’eventualità che lo Stato-perno espandesse la propria potenza sulle terre periferiche dell’Eurasia coinvolgendo la Germania in un blocco eurasiatico.

Come scongiurare una tale minaccia? La risposta geopolitica della potenza oceanica statunitense, subentrata nel Grande Gioco a quella britannica, è esplicita: occorre frazionare la regione-perno, puntando sull’effetto disgregante insito in quelle linee di faglia che corrono all’interno dei cosiddetti “paesi divisi”, cioè di quei paesi in cui consistenti gruppi di popolazione appartengono a culture diverse. È così che si è disgregata l’Unione Sovietica; ma, come scrive nel 1996 Samuel P. Huntington, anche adesso “molte ex repubbliche comprendono civiltà diverse, in parte perché le autorità sovietiche stabilirono i vari confini nell’esplicito intento di creare repubbliche divise, assegnando la Crimea (russa) all’Ucraina e il Nagornyj-Karabach (armeno) all’Azerbaigian”9. E qui, tra i “paesi divisi”, il teorico dello “scontro delle civiltà” cita anche il Kazakistan: “Estonia, Lettonia e Kazakistan presentano sostanziose minoranze russe, anch’esse in gran parte frutto del calcolo politico delle autorità russe”10. I dati che nel 1995 Huntington poteva attingere dal volume CIA-The World Factbook indicavano infatti le minoranze slave come le più consistenti, addirittura maggioritarie nelle aree settentrionali del Paese: a fronte della maggioranza relativa kazaka (41,9%), i Russi costituivano il 37,0% e gli Ucraini il 5,2% della popolazione totale. Le speranze statunitensi di assistere ad un’ulteriore frantumazione dello spazio centroasiatico a causa di scompensi etnici dovevano però sfumare in breve tempo, poiché i dati degli anni immediatamente successivi mostravano un considerevole riequilibrio nei rapporti numerici tra le nazionalità del Kazakistan. Infatti nel 1996 i Kazaki erano saliti al 46%, mentre i Russi erano scesi al 34,7% e gli Ucraini al 4,9%; nel 2008 i Kazaki erano al 65% e i Russi al 25%.

Nello stesso periodo in cui Huntington preconizzava lo scontro delle civiltà, Zbigniew Brzezinski riprendeva nella Grande Scacchiera11 i concetti di Mackinder sulla regione-perno dell’Eurasia. Certo, osserva Andrea Fais, “tra l’Heartland descritto dal geografo britannico ed i Balcani eurasiatici individuati dall’analista polacco-statunitense vi è una certa differenza, proprio in virtù della posizione entro la quale viene tracciata la massa strategica ritenuta essenziale ai fini del controllo geopolitico della regione e dell’intero continente eurasiatico: il pivot dell’Eurasia per Mackinder era stanziato nel territorio subcontinentale centro-settentrionale (dalle regioni settentrionali dell’Iran sino alla steppa centrasiatica e all’intero territorio siberiano), mentre per Brzezinski è nettamente più spostato verso sud, fino a comprendere quasi l’intero Medio Oriente e ad escludere quasi del tutto il territorio dell’attuale Federazione Russa. In entrambe le teorie, però, rientra come un perno ineludibile l’area occupata dal Kazakistan”12: un’area-perno di 2.717.300 chilometri quadrati, pari a quella dell’Europa occidentale, che fa di questo Paese il terzo per estensione di tutto il Continente eurasiatico, dopo la Russia e la Cina.

Situato a cavaliere tra le due parti dell’Eurasia e ricomprendendo entro il proprio territorio il corso inferiore del fiume Ural, che viene generalmente indicato come un segmento del confine, del tutto teorico, tra l’Europa e l’Asia, il Kazakistan è sia asiatico sia europeo; come la Russia e come la Turchia, anch’esso evidenzia la continuità e l’indissolubile unità del Continente eurasiatico. Questo Paese, che dalle frontiere nordoccidentali della Cina e dalla prossimità della Mongolia conduce all’ampio passaggio tra il Caspio e gli Urali, costituisce il punto d’incontro delle linee d’influenza provenienti dal mondo slavo, dall’Iran e dal Turan, sicché il suo vasto territorio ha visto avvicendarsi e convivere forme tradizionali e dottrine religiose diverse, dal primordiale monoteismo uranico al buddhismo, allo zoroastrismo, al cristianesimo nestoriano, all’Islam.

L’Islam sviluppatosi sul suolo del Kazakistan ha dato al mondo i grandi nomi del filosofo Abû Nasr Mohammad al-Fârâbî (256/870-339/950), nato a Wâsij, presso Fârâb in Transoxiana e del maestro sufi Ahmed Yassawi (499/1106-562/1166), nato a Sayrâm. Mentre Al-Fârâbî, “secondo maestro” dopo Aristotele, “tracciò quelle linee argomentative che (…) contribuirono a erigere il castello metafisico e cosmologico del Medio Evo occidentale come disegnato, ad esempio, da Dante nel Convivio e nella Commedia13, Ahmed Yassawi è il capostipite di una tradizione spirituale che non solo “svolse un ruolo nell’islamizzazione delle tribù turche, nell’adattamento dell’Islam ad un ambiente nomade turco e nella riconciliazione linguistica attraverso le poesie di Ahmad e dei dervisci suoi successori come Yûnus Emre”14, ma diede anche origine ad una diramazione, la Bektashiyya, che, associandosi al corpo dei giannizzeri, ebbe un peso considerevole nei territori europei dell’Impero ottomano.

È dunque a buon diritto che il Presidente Nazarbaev può rivendicare al Kazakistan, con legittimo orgoglio, tanto l’appartenenza al mondo islamico quanto la specifica funzione di tramite fra le culture del Continente eurasiatico: “Il popolo del Kazakistan è stato per secoli una parte del mondo islamico. L’Islam è arrivato nelle nostre terre più di mille anni fa. Il Signore Creatore e la geografia hanno fatto del Kazakistan un luogo unico per lo sviluppo del dialogo tra la civiltà islamica e la civiltà europea”. E ancora: “Sulla terra kazaka si sono avvicendate tutte le religioni del mondo e pertanto ci sono estranei sia l’intolleranza sia il fanatismo religioso. Questa tradizione spirituale, questa apertura alla parola di Dio in ogni sua forma costituisce una delle basi più importanti della sintonia interreligiosa e interetnica vigente in Kazakistan”.


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  1. Gianroberto Scarcia, Storia della letteratura turca, Milano 1971.
  2. Shirin Akiner, The Formation of the Kazakh Identity. From Tribe to Nation-State, London 1995, p. 11.
  3. Uno Harva, Les représentations religieuses des peuples altaiques, Paris 1959, p. 319.
  4. Jean-Paul Roux, Faune et flore sacrées dans les sociétés altaiques, Paris 1966, pp. 352-353.
  5. “Nelle lingue turco-tatare, il nome più corrente è “cammino degli uccelli” (presso i Turcomanni, i Kirghisi ecc.) o “cammino delle oche selvatiche” (presso i Tatari della Volga e i Ciuvasci). Quest’ultimo termine si trova anche presso le popolazioni finniche della Volga.Presso i Finni e gli Estoni, il termine corrispondente è “strada degli uccelli” e presso i Lapponi “sentiero degli uccelli” (lodderaiddaras)” (U. Harva, op. cit., p. 143).
  6. Halford John Mackinder, The Geographical Pivot of History, “The Geographical Journal”, vol. xxiii, n. 4, aprile 1904, pp. 134-135.
  7. H. J. Mackinder, op. cit., p. 136.
  8. H. J. Mackinder, op. cit., p. 146.
  9. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 2000, p. 197.
  10. S. P. Huntington, op. cit., ibidem.
  11. Z. Brzezinski, The Great Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997.
  12. Andrea Fais, L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, p. 28.
  13. Massimo Campanini, Introduzione a: Al-Farabi, La città virtuosa, Milano 1996, p. 5.
  14. J. Spencer Trimingham, The Sufi Orders in Islam, Oxford 1971, pp. 58-59.
Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).