Gli sviluppi della crisi siriana e il ruolo delle potenze regionali e internazionali nella vicenda devono tenere accesi i riflettori politici e storici sul quadrante mediorientale e in particolare su quello dell’area convenzionalmente definita Mezzaluna fertile. Il Libano, con la sua controversa storia, ne è parte integrante, sia come regione storica siriana, sia come Paese attualmente sovrano. La guerra civile che ha insanguinato il Libano dal 1975 al 1990 è stata sempre illustrata in questa maniera, con poche lodevolissime eccezioni: da una parte, i falangisti cristiano-maroniti (militanti dei Kataeb), appoggiati da Israele e dall’Occidente, e dall’altra il movimento progressista, i Palestinesi e i Drusi, sostenuti dai Paesi arabi baathisti, nazionalisti e antimperialisti. Questa è la sintesi, brutale, con la quale si è cercato da sempre di spiegare uno dei conflitti più complessi e articolati della storia del Vicino Oriente e del mondo intero. Un mosaico di culture, religioni, comunità etniche ha composto, da sempre, il quadro libanese, un quadro refrattario ad ogni semplificazione e ad ogni “rasoio” argomentativo. Ecco perché la reductio di cui sopra è assai inadeguata a spiegare la realtà del conflitto libanese, che per un quindicennio ha insanguinato tanta parte della Mezzaluna fertile, seminando di strascichi anche gli anni ’90 e i primi anni 2000, col ruolo destabilizzante di Israele, proteso ad ampliare i suoi confini secondo i piani sionisti messi a punto da decenni. La Siria, bastione di punta del socialismo arabo e del nazionalismo baathista, non sempre ha appoggiato le spinte più radicali presenti nel panorama politico libanese: prova ne sia l’intervento militare del 1976, alla base del quale c’era la preoccupazione di non frammentare e balcanizzare il Paese, offrendo il destro alle forze reazionarie e sioniste. Non sempre i falangisti (cristiano-maroniti, ma anche sciiti, sunniti e armeni…) hanno fiancheggiato, nella loro totalità, la strategia destabilizzante dell’Occidente e di Israele.

Karim Pakradouni è, in questo senso, una figura simbolo, che vale la pena di togliere dagli abissi del dimenticatoio. Falangista cristiano-maronita, è stato, certamente, un patriota arabo di indiscusso prestigio e valore, schierandosi con la Siria e con i Paesi arabi antimperialisti contro Israele e contro coloro i quali, nel suo Partito, carezzavano disegni secessionisti volti alla distruzione del Libano e alla creazione di uno staterello cristiano-maronita, di sapore “fenicio”, isolato dal mondo arabo e anzi ad esso ostile. Padre Sherbel Chassis, superiore dell’Ordine Maronita, era uno degli esponenti di punta di questa tendenza, foraggiata ampiamente dal sionismo e dall’imperialismo. Il Partito della Falange (Kataeb), era invece saldamente nelle mani della famiglia Gemayel , il cui capostipite, Pierre, aveva posto la prima pietra della formazione politica in questione. I Gemayel, diversamente da Padre Qassis, respingevano ogni piano di divisione del Libano, ma, pervasi da un profondo odio verso Palestinesi e nazionalisti arabi, perseguivano l’idea di un Paese legato al carro dell’imperialismo e del sionismo.

Questo brodo di coltura rappresentò la scintilla che dette fuoco alle polveri nel 1975, quando la guerra civile ebbe il suo inizio. Nel carnaio che si sviluppò, ogni fazione teneva le sue posizioni su basi settarie e confessionali, quelle divulgate dalla storiografia e dalla stampa di mezzo mondo, nella maniera schematica ed approssimativa che abbiamo prima descritto. Lo storico Kamal Salibi e, con accenti diversi, il sociologo Samir Khalaf sono, di certo, i rappresentanti più emblematici di questo approccio “narrativo” nel mondo arabo, così come Sandra Mackey e Rosemary Sayigh lo sono in Occidente.

Karim Pakradouni è la figura che, meglio di altre, smentisce questo modo di raccontare e interpretare il conflitto libanese, così denso di implicazioni e conseguenze anche al giorno d’oggi. Nato il 18 agosto 1944 da una famiglia cristiana della comunità armena (comunità assai prospera e rispettata in Libano, con insediamenti fin dal tempo dei massacri turchi del XIX e XX secolo), Karim Pakradouni cresce nel microcosmo di Bourj Hammoud, “repubblica” armena nel territorio di Beirut. Suo padre, Minas, era giunto ad Aleppo, in Siria, nel 1920 e da lì si era spostato poi nel Paese dei Cedri. Karim ricevette l’istruzione superiore presso il Collegio di Notre Dame di Jamour ed iniziò a militare, verso la fine degli anni ’50, giovanissimo, nel Kataeb, il Partito falangista dei Gemayel, fondato a imitazione della Gioventù Htleriana nel 1936, dopo che Pierre Gemayel aveva assistito alle Olimpiadi di Berlino. Erano dunque ben presenti le componenti filofasciste (i sudditi coloniali del blocco anglo-francese vedevano nella Germania una forza liberatrice), ma anche quelle nazionalpatriottiche che rifuggivano da ogni commistione con l’esperienza europea e guardavano esclusivamente al Vicino Oriente.

Pakradouni faceva parte di quest’ultima tendenza, dalla quale mai defletterà. Eletto Presidente dell’organizzazione giovanile del Kataeb, si impegnerà per far valere il punto di vista arabo e antimperialista nel Movimento, qualificandosi come elemento cardine della fazione denominata “arabista”, fino al punto di organizzare, nel 1969, un incontro di studenti falangisti con Arafat in Giordania. La lotta dei Palestinesi per l’autodeterminazione era per Pakradouni, e lo sarà sempre, un punto irrinunciabile del proprio programma politico. Cooptato nel 1970 nell’Ufficio Politico del Kataeb, Pakradouni fu scelto come consigliere nell’entourage del Presidente libanese Elias Sarkis e seppe farsi ascoltare e valere negli indirizzi generali di politica interna ed estera. Il suo punto di vista era irriducibilmente nemico di ogni esclusivismo e settarismo su base confessionale, cosicché arrivò a confliggere sia con gli ambienti maroniti più oltranzisti sia con quelli più moderati che intendevano addivenire ad una soluzione pacifica con Israele. Questo punto di vista lo allontanava dal milieu tradizionale della destra libanese e lo avvicinava agli ambienti più maturi e avanzati del progressismo. Non sarà inutile ricordare che, fin dagli anni ‘30, le formazioni militari e terroristiche sioniste avevano intessuto relazioni con influenti personalità maronite, quali il Patriarca Antoine Pierre Arida, e che nel 1946-’47 lo stesso Arida, insieme ad altri esponenti maroniti, aveva caldeggiato la formazione dell’entità sionista davanti al Comitato speciale dell’Onu sulla Palestina.

Con lo scoppio della Guerra civile libanese nell’aprile del 1975, Pakradouni ebbe molto più chiara di altri la trappola che si tendeva a tutti i patrioti libanesi, a prescindere dalla confessione religiosa: sotto attacco erano tutti, dai maroniti ai musulmani sunniti e sciiti, perché tutti nel mirino del sionismo; quindi la guerra fratricida era, oltre che un crimine, un imperdonabile errore. Il reazionarismo e l’atteggiamento antipalestinese e antisiriano di vasti settori del Kataeb costituivano pericoli mortali per l’unità e l’integrità del Libano, in quanto offrivano il destro a chi il Paese voleva smembrarlo e assoggettarlo a Tel Aviv e Washington. Attivo nelle Forze libanesi guidate dai Gemayel, Pakradouni cercò di ricostruire e rinsaldare in ogni modo i rapporti con i Paesi arabi, in special modo con la Siria di Assad. L’irresistibile ascesa di Bashir Gemayel, figlio di Pierre, alla guida del Libano, trovò in Pakradouni un alleato onesto e sincero, mai succube né gregario. Se da un lato biasimava e combatteva l’espandersi dell’influenza israeliana (divenuta clamorosa nel 1982, allorché i sionisti misero a disposizione persino dei velivoli per portare a votare in Parlamento, a favore di Gemayel, i deputati libanesi recalcitranti), dall’altro sapeva che lo stesso Gemayel nutriva in cuor suo genuini sentimenti filoarabi, ostili ad ogni spartizione settaria del Libano e intendeva far leva su di essi per allontanare il capo dagli ambienti imperialisti e reazionari. L’ambizioso Bashir, che teneva volentieri i piedi in due staffe, da un lato non disdegnò di proseguire gli abboccamenti con i sionisti, ma dall’altro rifiutò ogni collaborazione con loro allorché nel 1982 invasero il Libano (Operazione “Pace in Galilea”) e scelse Pakradouni come consigliere per i rapporti con i Paesi arabi, dando un chiaro segnale di non totale sudditanza. Un abile gioco diplomatico, degno di quell’animale politico che era Bashir Gemayel!

Pakradouni restava dunque un punto di riferimento importante, per frenare le trame sioniste e imperialiste in Libano e in Siria. I due Paesi, infatti, sono sempre stati “vasi comunicanti”, inscindibili nelle dinamiche storiche e politiche della regione. Eletto il 23 agosto 1982 Presidente della Repubblica, Gemayel venne ucciso il 14 settembre in un sanguinoso attentato, culminato con la distruzione della sede della Falange a Beirut, nel quartiere di Ashrafiyyeh. Per questo gesto si è sempre incolpato il Partito Nazional Sociale Siriano, ma è evidente a chi era destinato il dividendo della destabilizzazione del Paese: ai sionisti, che infatti ne approfittarono per dividere ulteriormente il Paese e attizzare l’odio verso i Palestinesi e gli ambienti progressisti che li sostenevano, odio culminato con i ben noti massacri di Sabra e Chatila.

A proposito di queste vicende, Pakradouni ha raccontato una versione diversa da quella corrente, che ha sempre collocato i falangisti al centro, come responsabili: intervistato dalla LBC nel 2001, egli ha affermato che i Falangisti, in quei giorni, erano preoccupati solo dell’organizzazione delle esequie di Bashir Gemayel, per cui non avevano idea di cosa stesse avvenendo. Elie Hobeika, contiguo a Cia e Mossad, indicato come il massacratore numero uno di Sabra e Chatila, stava per rendere dichiarazioni analoghe e ancor più circostanziate di quelle di Pakradouni, con accuse dirette ad Ariel Sharon, quando venne ucciso, il 24 gennaio del 2002.

Gli anni ’80 furono difficili e al tempo stesso ricchi di successi per Pakradouni, che dagli sviluppi della situazione del Paese vedeva confermata la sua convinzione circa un ruolo positivo e costruttivo della Siria, potenza regionale sempre impegnata a garantire equilibrio politico e sociale in Libano, nell’interesse di tutte le comunità e, ovviamente, nel proprio interesse di attore geopolitico fondamentale. In ogni suo gesto, c’era la volontà di unificare il Vicino Oriente contro le influenze imperialiste, evitando guerre fratricide. Nel 1987, il leader falangista incontrò a Tunisi Arafat, siglando un importante accordo economico e politico, che, tra l’altro, consentiva alla Resistenza palestinese di rimettere piede nel Paese dei Cedri.

Nel 1989, dopo la sottoscrizione degli accordi di pacificazione di Taif, la stella di Pakradouni ha conosciuto alterne vicende: contrario in quel caso all’intervento siriano, dispiegato in forze nel 1990, ha tenuto una posizione equilibrata tra l’antisiriano generale Aoun, appoggiato dall’Irak di Saddam, e la Siria, dimostrando il suo ruolo non di burattino, ma di patriota devoto all’unità del Paese e preoccupato di evitare scontri fratricidi inutili. Questo atteggiamento gli è costato temporanee incomprensioni (finanche espulsioni dal Partito), risoltesi però sempre nella sua riammissione nei gruppi dirigenti politici e istituzionali, fino alla conquista e al consolidamento del ruolo di guida all’interno della Falange. Portatore di un’ampia visione geopolitica, ha rinnovato e ritessuto rapporti con tutti i principali attori libanesi, siriani e mediorientali ostili al sionismo e alla penetrazione imperialista nel Vicino Oriente, stabilendo relazioni anche con la Libia di Gheddafi. Un’azione, dunque, perfettamente coerente con la costruzione di un’Eurasia libera e sovrana. Ministro dello Sviluppo amministrativo nel governo di Rafiq Hariri, nel 2004, Pakradouni ha continuato a svolgere attività politica fino al 2007, rappresentando un importante punto di riferimento dopo l’assassinio dello stesso Hariri nel novembre del 2005, impegnandosi a fianco di Hezbollah e delle forze progressiste sincere e costruttive del Paese contro le trame israeliane, sempre vive e presenti contro l’unità e l’indipendenza del Libano e della Siria.

Di recente, a riprova di un indirizzo immutato nel tempo, ma rafforzato nella componente “eurasiatista”, ha espresso apprezzamento per il ruolo di Putin nella crisi siriana, da lui vissuta con ansia e preoccupazione e sempre con l’impegno di costruire ponti e canali di diplomazia, nella fedeltà sempre ribadita e osservata nei confronti di Damasco. Una fedeltà necessaria, su un piede di parità e non si asservimento, che, duole dirlo, molte forze sedicenti progressiste, in Libano e altrove, hanno gettato alle ortiche, sponsorizzando i gihadisti manovrati da Washington e Tel Aviv.

Riferimenti bibliografici utili
Benny Morris , Vittime, Rizzoli, 2002
Robert G. Rabil, Embattled neighbors : Syria, Israel and Lebanon, Lynne Rienner Publishers, 2003
Giancarlo Lannutti, Enciclopedia del Medio Oriente, Teti editore, 1979
Patrick Seale, Il leone di Damasco, Gamberetti Editrice, 1995
Robert Fisk, Il martirio di una Nazione, Il Saggiatore, 2010


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