Analizzare e comprendere le rivolte arabe oggi è diventato molto difficile. Questa difficoltà è in parte dovuta ai mass media che spesso trascurano la specificità di tali rivolte. “Istanze democratiche e richiesta di diritti” è la tesi più diffusa per giustificare la Primavera Araba. Ma c’è di più: i movimenti di protesta non sono tutti uguali e soprattutto non lo sono gli interessi geopolitici delle potenze in gioco. Il caso della Siria è emblematico in questo senso e ancora di più lo è notare come gli USA, ancora una volta, siano riusciti a muovere le proprie pedine in un Paese per loro strategicamente importante.

 

“If you are not confused you are not paying attention”

Per descrivere la situazione nel Vicino Oriente Wael Ghonim, figura emblematica della rivolta egiziana, sulla sua pagina Twitter riprende una significativa affermazione di Tom Peters : “If you are not confused you are not paying attention”. Infatti, per comprendere la Primavera Araba è necessario analizzare innanzitutto il frame narrativo all’interno del quale i media l’hanno inserita. Diverse sono le teorie che si stanno diffondendo soprattutto negli USA riguardo le probabili cause dello scoppio. Molti sostengono che tutto sarebbe nato con l’11 settembre come risposta all’invasione dell’Iraq, causando una sorta di effetto domino tra i Paesi arabi. Altri invece ritengono cruciale il ruolo del discorso di Obama al Cairo. Ma in realtà quello che succede nelle piazze arabe è ben lontano da decisioni prese a Washington e il diffuso nazionalismo arabo ne è la testimonianza. L’età media della popolazione in molti Paesi arabi è sotto i 30 anni, dato significativo soprattutto perché spesso si sostiene che le rivolte arabe hanno semplicemente rappresentato le istanze di questa nuova generazione. Ventenni e trentenni che, paragonandosi ai loro coetanei europei o statunitensi (grazie quindi anche alla diffusione di internet), hanno acquisito maggiore consapevolezza dei propri diritti e della propria condizione. Tuttavia questo è stato solo uno dei probabili fattori caratterizzanti; ogni rivolta è diversa dall’altra e va inscritta all’interno di un Paese con la propria tradizione politica e religiosa. La confusione che oggi ne è derivata è dovuta, sostanzialmente, ad un’errata percezione che i mezzi di comunicazione spesso ci veicolano. Già dalla prima guerra del Golfo si è assistito ad un progressivo “embedding” dei media rispetto alla politica, sino ad arrivare ai nostri giorni in cui i giornalisti spesso non fanno altro che riportare notizie ascoltate dai Tg in una camera d’albergo, dando vita a quel fenomeno spesso definito dai massmediologi come “giornalismo da piscina”.

Il caso della Siria è un caso a se stante, non classificabile, come tutte le altre rivolte d’altronde, dietro il semplicistico slogan “richiesta di diritti e democrazia”. La Siria è guidata da quarant’anni dalla famiglia degli al-Assad. Questa famiglia degli appartiene al clan alawita, una minoranza riconducibile ad una branca dello sciismo, in un Paese in cui la maggioranza della popolazione è sunnita. Bashir al-Assad ha sempre goduto di forte legittimità grazie ai continui compromessi fatti con le élite siriane sunnite, riuscendo ad inserire ai vertici del potere membri fedeli o appartenenti al clan alawita. Emblematico è infatti il ruolo di assoluta fedeltà che l’esercito gioca oggi in Siria, a differenza invece di quanto si è visto in Egitto. Le rivolte siriane sono iniziate questa primavera ma a differenza dei rivoltosi egiziani quelli siriani sono stati identificati dal regime come terroristi. La tesi sostenuta del governo, infatti, è che dietro i rivoltosi ci siano gruppi di terroristi islamici supportati da Paesi esterni e solo una piccola parte di questi rivoltosi sia composta dalla popolazione siriana.

Smart power made in USA

L’approccio dell’attuale amministrazione Obama in politica estera ed in particolare nel Vicino Oriente riprende in parte quello dell’amministrazione Clinton. Un approccio, quindi, che si vorrebbe multilaterale basato su una democrazia collaborativa che permette agli USA di evitare i costi dell’agire da soli e che si discosta nettamente dall’unilateralismo della precedente amministrazione Bush. La NATO sembra perciò rappresentare oggi le istanze geopolitiche di questo multilateralismo. Invece, per fornire supporto e aiuto ai Paesi del Vicino Oriente, da anni sottoposti a duri regimi autocratici, sarebbe necessaria una capacità istituzionale staccata dalle priorità geopolitiche dei loro mentori. Ma la politica, si sa, è ben distante da considerazioni morali ed è piuttosto la raison d’état che spesso le fa da guida. L’impossibilità della NATO di intervenire militarmente in Siria, così come è avvenuto in Libia, è legata a diversi fattori. Innanzitutto l’esercito siriano è fedele alla famiglia al-Assad e, in secondo luogo, la Siria a differenza della Libia è dotata di un potente arsenale militare. Quarant’anni di regime inoltre non lasciano molte alternative nel Paese: il monopartitismo, l’assenza totale di associazioni sindacali o di una magistratura non permettono alternative valide al regime.

Lo scorso 18 agosto Obama, sulla scia delle dichiarazioni di altri leader europei, ha affermato: “The future of Syria must be determined by its own people…Bashar-al-Assad is standing in their way…the time has come for President Assad to step aside”. Le conseguenti sanzioni imposte alla Siria e le restrizioni riguardanti le importazioni di energia, armi e relazioni commerciali decise dai Paesi del Patto Atlantico sono state giustificate come il legittimo provvedimento contro il comportamento violento e le atrocità commesse dal regime sui ribelli. Lo smart power statunitente caratterizzato da hard e soft power, oggi intriso di multilateralismo, giustifica la propria esistenza attraverso la promozione di valori come le libertà universali, i diritti umani e la democrazia. Ma per capire meglio ciò che accade in Siria occorre interrogarsi su chi siano davvero gli insorti. Secondo l’ex comandante generale NATO Wesley Clark, la Siria è parte di un vecchio progetto statunitense che vorrebbe al posto del regime degli al-Assad un governo fantoccio. Non trascurabile è anche il ruolo di potenze regionali vicine al Paese che mantengono aspirazioni e aspettative nell’area, come ad esempio Israele e Turchia. Tutto ciò ha favorito il finanziamento di movimenti terroristi islamici che si sono trasformati nel nuovo braccio armato delle potenze atlantiste in Siria, offrendo una pericolosa alternativa laddove la NATO ha difficoltà ad agire. Il tutto è stato poi legittimato attraverso un lavoro di demonizzazione del regime di al-Assad, accusato di dure repressioni, difficilmente verificabili, e di non rispettare la legittima aspirazione democratica del suo popolo.

La contemporaneizzazione del colonialismo old style

Buona parte della scuola realista si è spesso interrogata sul ruolo che la morale dovrebbe ricoprire nella politica. Il primo fu Machiavelli a riconoscere che una buona politica non corrisponde necessariamente al perseguimento di una morale, ma al contrario le due sfere dovevano essere nettamente separate. La particolarità dell’imperialismo messianico statunitense risulta essere proprio il fattore moralità che, purtroppo, in politica estera viene spesso e volentieri strumentalizzato e usato come copertura di una più cruda realpolitik. Il caso della Siria è in questo senso emblematico ma, comunque, non unico nel suo genere. La necessità di ritornare ad agire multilateralmente sottolinea come gli Stati Uniti abbiano dovuto rivedere la propria posizione rispetto alla passata rigidità delle categorie binarie della retorica bushiana. L’unilateralismo ha contribuito ad evidenziare tutti i limiti della leadership statunitense. In un sistema unipolare resta sempre la necessità di autolegittimare la propria superiorità attraverso il consenso degli altri membri. Alla luce dei fatti sembra proprio che oggi l’attuale approccio degli USA nel Vicino Oriente rifletta questa nuova consapevolezza.

 

*Di Lorenzo Fabrizia laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna

 


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