Conservatore ed originale allo stesso tempo, il pensiero di Konstantin Leont’ev, alla pari dello stile architettonico propriamente russo, miscela la policefalia orientale con i principi bizantini. Inviso e quasi ignorato dai suoi contemporanei nella seconda metà del XIX secolo, il pensiero del diplomatico, filosofo ed infine monaco russo, attraverso la sua rielaborazione dell’ideale imperiale bizantino, rappresenta la miglior prospettiva filosofica dalla quale partire per affrontare la sazietà volgare imposta dal cargo-cultismo nordamericano. 

 

La Russia non ha mai avuto un impero ma è essa stessa un impero. Questa è l’intrinseca differenza che la separa dalle forme imperialistiche più propriamente occidentali e manifestatesi tanto nell’imperialismo britannico e francese quanto nell’attuale ulteriore volgarizzazione nordamericana del suddetto principio. La Russia ha rappresentato un sistema imperiale nel senso genuino del termine, fondato su un’ideologia dominante ma recettiva nei confronti degli elementi eterogenei presenti all’interno della sua dimensione geografico – spaziale. Come afferma lo storico svizzero Andreas Kappeler: “la semplicistica trasposizione dei concetti di colonialismo ed imperialismo nella realtà russa e sovietica, tendenza diffusa soprattutto nella ricerca anglosassone, occulta più di quanto cerchi di spiegare”[1].

L’espansione imperiale che la Russia ha conosciuto nel corso della sua evoluzione storica deve essere letta in modo diverso rispetto al colonialismo occidentale basato sul mero obiettivo profano dell’interesse e del profitto economico. L’espansione imperiale russa, e soprattutto la sua espansione orientale, “l’avanzata incontro al sole”[2], deve essere letta in primo luogo come un atto di fede volto alla consacrazione mistica dell’unità imperiale eurasiatica. Mosca è la Terza Roma e lo Stato russo possiede una connaturata  dimensione sacrale ed universale. “Tutti gli imperi cristiani sono confluiti nell’unico tuo impero” recitava la lettera dello starec Filofej a Vasilij III, figlio di Ivan III e Sofia Paleologa, e padre di Ivan IV il Terribile. Mito politico sotterraneo, l’idea di Mosca come Terza Roma ha influenzato enormemente l’autocoscienza russa creando un sostrato ideologico-culturale che neanche  l’occidentalizzazione forzata dell’era pietrina fu capace di cancellare.

Mosca è dunque erede di Bisanzio, della sua tradizione culturale, ideologica e teologica. Ma, allo stesso tempo, la Russia, più che dalla stessa Bisanzio, è dalla plurisecolare dominazione dei tatari che ha ereditato le sue precipue funzioni imperiali. Di fatto, i khanati tatari fornirono alla nascente entità imperiale russa una rigida ed efficiente centralizzazione del potere, mentre l’eredità bizantina fornì l’indispensabile sostrato ideologico e teologico sul quale costruire l’incarnazione autocratica del potere monarchico.

Konstantin Leont’ev è stato il massimo teorico dell’intrinseco patrimonio orientale della cultura russa. Leont’ev, pensatore autenticamente russo ma dagli evidenti lineamenti fenotipici tatari, tra i primi, riconobbe la presenza di tratti più propriamente orientali e non esclusivamente slavi nel carattere intrinseco del popolo russo. Ma soprattutto riconobbe il profondo valore ideologico che il bizantinismo ricoprì nell’evoluzione storica della civiltà russa.

Il concetto di bizantinismo si articola in due sfere distinte ma perfettamente combacianti: quella politica e quella religiosa. “In ambito politico bizantinismo significa Autocrazia. Nella sfera religiosa ad esso corrisponde invece un Cristianesimo che si differenzia per diversi aspetti dalla chiese occidentali, dalle eresie e dagli scismi”[3].

Di fatto, Autocrazia e Ortodossia rappresentavano i pilastri portanti della narodnost (carattere nazionale) secondo l’ideologia ufficiale dello Stato russo ben enunciata negli anni Trenta del XIX secolo dal ministro dell’istruzione Sergej Uvarov. Proprio a questo duplice portato ideologico dell’eredità bizantina, la Russia, deve, nell’elaborazione teorica di Leont’ev, la sua forza, la sua cultura e la sua storia. E tradire questo bizantinismo significherebbe causare inevitabilmente il crollo della Russia.

Nella sfera politica, come afferma il pensatore russo, il concetto di bizantinismo è inscindibile da quello di Autocrazia. Questa Autocrazia si identifica in primo luogo in un potere monarchico assoluto che trae le sue origini tanto dall’antico cesarismo romano quanto dalla mistica imperiale persiano – sasanide che suggestionò in modo determinante la stessa evoluzione politica dell’Impero bizantino nei secoli in cui esso incarnava ancora lo spirito universalistico dell’Impero romano. Una mistica ben raccontata nello Shāh-Nāmeh (Il Libro dei Re) del poeta epico persiano Ferdowsi: testo imprescindibile dell’istoriosofia eurasiatica che contribuì all’identificazione del Turan (la terra dei Tur) con l’area dell’Asia Centrale, e dunque dei turanici con le popolazioni parlanti lingue ugriche e lingue uraliche.

Tale Autocrazia è inscindibile dalla sua diretta derivazione e benedizione divina. L’imperatore è il rappresentante del sovrano celeste ed in quanto tale garante dell’ordine e della giustizia terrena.

Questo inedito sincretismo culturale tra Oriente ed Occidente è alla base dell’idea imperiale di Konstantin Leont’ev che supera l’approccio prettamente pagano secondo il quale l’ispirazione monoteistica vada a minare le basi immanentiste dell’impero. Infatti, bizantinismo, nella sfera religiosa, significa essenzialmente Ortodossia: ovvero un cristianesimo solennemente legato alle sue origini evangeliche, consapevole della vanità del mondo e che questo non sia altro che un riflesso epifanico, seppur mirabile e provvidenziale, dell’eterno[4].

L’elaborazione teorica di Leont’ev, di fatto, cerca di superare la prospettiva eurocentrica senza abbandonare il cristocentrismo. Il cristianesimo, diffuso nel mondo grazie a Bisanzio, rappresenta la più perfetta delle religioni. Un’idea non dissimile dalla prospettiva hegeliana, dalla quale però Leont’ev si discosta, riconoscendo l’intrinseca dignità spirituale di tradizioni più propriamente orientali come buddismo ed Islam.

Dunque la prospettiva filosofica leonteviana nega il principio secondo il quale il monoteismo sia contrario all’idea di impero. E tale negazione deriva in primo luogo dalla consapevolezza dell’intrinseco carattere sacrale dello sviluppo imperiale della Russia: l’indistinto Nord in cui, secondo il poeta tedesco Rainer Maria Rilke, persiste il primo giorno della creazione.

Proprio sulla tensione dicotomica creazione/manifestazione si basa l’assunto secondo il quale monoteismo non possa essere consustanziale all’idea imperiale. Tale assunto deriva dalla constatazione che l’idea monoteistica, giustamente, non possa prescindere dal concetto di creazione: dunque dalla separazione di una parte speciale del Non-Essere che automaticamente viene portata a rivolgersi alla propria origine come ad un qualcosa diverso da se stesso. Al contrario il paganesimo è associato all’idea di manifestazione e dunque alla monosostanzialità del manifesto e della sua origine non manifesta[5]. Corollario della metafisica pagana è dunque il Soggetto Divino e non il Soggetto Esule frutto di una visione del mondo del “paradiso perduto” retaggio della tradizione monoteistica. Questo Soggetto Divino, figura che costituisce il centro della concezione imperiale del mondo, è portatore di una cosmovisione paradisiaco-polare che si orienta storicamente in senso monarchico ed è volta a sublimare la figura dello statista (capo supremo) unico ed angelizzato[6].

Il pensiero di Leont’ev, ben conscio del peculiare sviluppo storico dell’Autocrazia russa, supera questa concezione riconoscendo come l’idea di sovranità alla base di Essa sia ben diversa da quella propriamente occidentale. Nell’Autocrazia russa, prettamente cristocentrica ma pesantemente influenzata dall’eredità sacrale gengiskhanide e tatara della “promessa bianca” di restaurazione dell’Impero solare, i concetti di imperium e dominium si fondono nell’autorità assoluta dello Zar: Soggeto umano ma divinizzato in quanto, come dichiarò Josif Volokolanskj, possessore di un’autorità divina per mezzo della benedizione celeste. Lo Spirito Santo, ipostasi più immanente della divinità, ha benedetto e concentrato nella stirpe imperiale un potere assoluto ed illimitato che ha come precisa conseguenza politica una forte limitazione dei diritti della popolazione; siano essi servi o nobili. I nobili ed i proprietari terrieri sono de facto legittimati nel loro possesso non da un diritto privato e personale ma dalla sola volontà del sovrano.

Su questa idea imperiale connaturata allo Spirito russo, Konstantin Leont’ev ha costruito la sua utopia neo-bizantina. Un’utopia che non può essere intesa nel senso retrospettivo di mitizzazione del passato imperiale bizantino in quanto lo stesso Leont’ev era ben consapevole della fine di quel determinato ciclo storico e del fatto che l’Autocrazia russa avesse sotto diversi aspetti apportato addirittura delle migliorie all’originale nucleo ideologico del bizantinismo. Allo stesso tempo questo progetto utopico di rivalutazione del bizantinismo nasce dalla consapevolezza leonteviana che il rilassamento del rigore dogmatico dell’Ortodossia bizantina e la progressiva laicizzazione dello Stato iniziata sotto Pietro il Grande avrebbero snaturato i peculiari caratteri della comunità politico – spirituale russa distogliendola dalla sua naturale evoluzione storica e dalla sua missione universale. Dando vita, allo stesso tempo, a quel processo di semplificazione secondaria (terza ed ultima fase, preceduta dalla semplificazione primaria e dalla fiorente complessità, del processo morfologico di evoluzione storica delle civiltà umane) che avrebbe inevitabilmente condotto l’impero alla decadenza morale e spirituale ed alla sua volgare omologazione con l’Occidente liberal – borghese. Solo la riscoperta delle radici bizantine, che hanno dato forza e carattere allo Spirito russo, insieme ad un processo di etnogenesi culturale perfetta sintesi tra Occidente ed Oriente, può dunque ridare vigore alla Grande Madre Russia e capacità di resistenza nei confronti della corruzione europea e delle sue leggi sulla “miserabile felicità umana e sul radicale involgarimento universale”[7].

Leont’ev riconobbe che tre principi erano capaci di tenere unità la comunità russa: l’Ortodossia bizantina, la connaturata e sconfinata Autocrazia e la comunità rurale. L’Ortodossia ha di fatto unificato i russi. Il Racconto dei tempi passati (cronaca della Rus’ di Kiev attribuita al monaco Nestor di Pecerska) narra di come i russi si convertirono al cristianesimo ortodosso intorno al X secolo: “E dai greci andammo, e vedemmo dove officiavano in onore del loro Dio, e non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure in terra; non v’è sulla terra uno spettacolo di tale bellezza: e non riusciamo a descriverlo; solo questo sappiamo: che lì Dio con l’uomo coesiste e che il rito loro è migliore di quello di tutti i paesi”[8].

La fascinazione estetica per la bellezza, caratterizzata dalla concentrazione sull’aspetto liturgico e sul relativo disinteresse per le questioni più prettamente storico-sociali, è uno degli elementi peculiari che ha contraddistinto l’evoluzione storica della Russia. La Chiesa ortodossa che insegna la disciplina e la sottomissione al potere rimane essa stessa sottoposta al potere politico incarnato dallo Zar: Soggetto non divino ma divinizzato in quanto insignito della benedizione celeste per tramite dell’ipostasi divina dello Spirito Santo. L’ideale cristiano bizantino non possiede l’elevato concetto della personalità terrena dell’uomo introdotto nella storia dal feudalesimo germanico. Esso ha una naturale propensione alla disillusione nei confronti di tutto ciò che è terreno, della felicità e della saldezza della purezza personale.

Su queste fondamenta si basa la religiosità “medievale e terroristica”[9] di Konstatin Leont’ev la cui enfasi sul concetto di “timore di Dio” risente in modo inequivocabile dell’idea che il male sia una forza reale che domina il mondo attraverso le sue lusinghe; identificate in questo caso con le aspirazioni borghesi all’universale soddisfazione terrena. Da qui nascono le feroci critiche che Leont’ev mosse alla visione pseudo-cristiana di molti intellettuali russi dell’Ottocento che tradendo l’Ortodossia, di fatto, incrinavano le fondamenta stesse della comunità russa.

Seppur intrinsecamente russo, il pensiero di Leont’ev non si lascio mai sedurre dagli istinti slavofili, panslavisti e nazionalisti tanto in voga per tutto il corso del XIX secolo tra l’intellighenzia russa in quanto rimaneva saldamente ancorato a quell’ideale imperiale che per sua natura non può che rifiutare ogni forma di nazionalismo particolare.

Leont’ev, al contrario di buona parte degli intellettuali della sua epoca, riconobbe il carattere prettamente eurasiatico della Russia: impero ortodosso ed autocratico ma al contempo multinazionale e multireligioso ed estraneo all’Europa per la sua natura bizantina e turanica. E riconobbe, altresì, come l’idea di nazionalità in senso puramente razziale fosse assolutamente antistatale, antireligiosa e pericolosamente distruttiva.

L’impossibilità di realizzare il suo sogno utopico neo-bizantino, la sostanziale indifferenza con la quale le sue idee vennero recepite dai suoi contemporanei, e la consapevolezza della decadenza dell’istituzione imperiale russa imposero al pensiero di Leont’ev una evoluzione in senso escatologico – messianica.

Fattosi monaco a seguito di un voto alla Vergine Maria che lo guarì da un violento attacco di colera mentre si trovava per motivi diplomatici a Salonicco, Leont’ev visse gli ultimi anni della sua vita girando tra i più importanti centri spirituali della geografia sacra russa e ortodossa, disilluso e quasi aprioristicamente conscio del motto heideggeriano “solo un Dio ci può salvare”.

Il suo pensiero mai del tutto estraneo agli istinti profetici della tradizione culturale russa si fece sempre più cupo e, certo dell’imminente palesarsi dell’Anticristo, fu capace di prevedere che  uno “zar russo” avrebbe assunto il ruolo di guida del movimento socialista mondiale. Tuttavia, non poté intuire che proprio questa forma eretica, oltremodo brutale ed a-religiosa di autocrazia avrebbe in qualche modo difeso la Sacra Terra di Russia dal suo totale inserimento ed asservimento all’interno del sistema capitalistico globalizzato, limitando così la deprecabile omologazione della sua popolazione ai valori utilitaristici, libertari ed ultra-laici della borghesia occidentale.


[1]    A. Kappeler, La Russia. Storia di un Impero Multietnico, Edizioni Lavoro, Roma 2006, p. 9.

[2]    A. Dugin, Russia Segreta, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012.

[3]    K. Leont’ev, Bizantinismo e Mondo Slavo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1987, p. 12.

[4]    A. Ferrari, La Terza Roma, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1986, p. 39.

[5]    A. Dugin, Russia Segreta, ivi cit.

[6]    A. Dugin, Continente Russia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1991, p. 82.

[7]    K. Leont’ev, Bizantinismo e Mondo Slavo, ivi cit., p. 41.

[8]    A. Ferrari (a cura di), La Russia degli Zar, Grandangolo Storia – Corriere della Sera, Milano 2015.

[9]    P. Manfredi, Cultura estetica e religiosità in Leont’ev in K. Leont’ev, I nostri nuovi cristiani. Discorsi contro Dostoevskij e Tolstoij. Greco e Greco Editori, Milano 2002.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).