La dinamicità e la pericolosità del Daesh era stata inizialmente sottovalutata, cosicché esso ha avuto l’opportunità di svilupparsi e tramutarsi nel nuovo nemico. L’Occidente, da principio, ha tentato di arginare la minaccia con iniziative dei singoli Stati, ma la proliferazione degli attacchi terroristici ha convinto i vertici NATO sulla necessità di intervenire in modo più fattivo. Il primo ostacolo è, però, nella struttura stessa dell’Alleanza Atlantica, la cui missione era quella di difendere il territorio, gli spazi aerei e marittimi della coalizione contro una ipotetica invasione sovietica. La necessità di contrastare gli atti eversivi si traduce in una ristrutturazione che concerne non solo i compiti e gli organici, ma soprattutto la dottrina stessa della NATO. Attualmente, infatti, l’Alleanza è inadatta a far fronte al nuovo nemico, cosicché i vertici militari e politici, per raccogliere la sfida, dovranno recuperare attualità ed efficacia e prepararsi a contrastare un avversario asimmetrico, dotato di future capacità batteriologiche, chimiche e nucleari. Le attuali attività militari ibride finalizzate a destrutturare lo “Stato Islamico” sono tecnologicamente imperniate sulle capacità occidentali, in particolare con operazioni di controspionaggio, Elint, e con l’ausilio di velivoli di ultima generazione. Sul campo, ad eccezione dell’addestramento operato dai militari italiani e dei centri di monitoraggio francesi e del SAS britannico, operano forze esclusivamente locali.

 L’implementazione della NATO passerà attraverso la ripartizione delle spese che, su richiesta statunitense, si dovrebbero attestare al 2% del PIL. In Italia le spese per la Difesa, desunte dal Documento programmatico per il biennio 2016-2018, sono in costante aumento, con investimenti pari al 1,3% in più del 2016, senza sommare i proventi erogati dai Ministeri dell’Economia e delle Finanze per le missioni all’estero e quelli del Ministero per lo Sviluppo Economico, che destinerà ai programmi di riarmo l’86% dei propri investimenti. Le somme ripartite per il 2017 sono per i cacciabombardieri Typhoon, i caccia F-35 ed M-346, la nave Trieste, i sommergibili U-212, le Fregate Fremm, i Ppa, i velivoli ad ala rotante NH-90 e Ch-47F ed i nuovi MBT Freccia. Inoltre è ancora attiva la digitalizzazione NEC dell’Esercito.  L’esborso economico dovrebbe ammontare a circa 4,6 miliardi di euro. La difesa ha in programma anche altri costosi progetti, come l’implementazione dei blindati Centauro, la sostituzione degli elicotteri d’attacco Mangusta, il drone europeo MALE2035, ed anche nuove soluzioni per la protezione dei militari italiani in prima linea in aree ad alta densità di combattimento. Non solo armamenti, ma sulla Difesa incide molto la spesa per il personale, aumentata nel 2016 del 2,7% rispetto all’anno precedente, con 10 miliardi di euro. A questi devono essere sommate le pensioni ausiliarie, approvate nel periodo della Guerra Fredda, che valgono 400 milioni ogni anno ed i 20 milioni, tra stipendi e pensioni, per i 200 preti-generali e preti-colonnelli. Ma al prodotto finale è necessario aggiungere curiose spese come per il velivolo A340 della Presidenza del Consiglio, il cui costo è stimato 15 milioni di euro l’anno, per il rifornimento idrico delle isole minori, ed ancora per il soccorso ed il supporto aereo ad attività civili.

Il rapporto sulle spese italiane nel 2017 si attesterà, di fatto, a 23,4 miliardi di euro, circa 64 milioni di euro al giorno, il 2,3% in più rispetto al 2016 con un rapporto spesa/Pil che salirà all’1,4%. Peseranno notevolmente l’Operazione Strade Sicure, il cui costo salirà a 120 milioni, ed il concetto del “doppio uso” militare-civile per mezzi quali la nave Trieste che sarà impiegata sia come unità per il soccorso profughi e tutela ambientale, quanto per portaeromobili. Appartiene alla classe LHD, ossia Landing Helicopter Deck, ed è classificata come una unità anfibia multiruolo. Dovrebbe essere principalmente impiegata in operazioni di evacuazione ed assistenza umanitaria a seguito di calamità naturali ed in missioni di ricerca e soccorso. Il suo ponte è stato progettato, però, per ospitare aeromobili ad ala rotante e benché ufficialmente non sia riportato dai progettisti, potrebbe imbarcare gli F-35 in quanto le sue dimensioni sono di poco inferiori alla Cavour. Ma per far questo sarà necessario rivestire il ponte di volo con materiali atti a sopportare il calore dei propulsori del caccia. Il costo iniziale della Trieste è pari a 854 milioni, cui devono essere sommati altri 273 per l’elettronica di bordo ed i sistemi di difesa dell’unità stessa. Questi ultimi sono proprio l’oggetto del contendere: la dotazione dei missili superficie-aria Aster, con un raggio di intercettazione di 120 chilometri, di due cannoni a tiro super rapido Oto Melara ed apparecchiature per ingaggiare bersagli come siluri e missili, la rendono una piattaforma atta al comando e controllo di forze navali e terrestri, che eventualmente sarà anche in grado di proteggere con lo scudo antimissile, antiaereo e con la proiezione di forza degli elicotteri d’attacco. La nave Trieste ospiterà un ospedale completo di sale chirurgiche e radiologiche, 28 posti letto sono riservati per la rianimazione, potrà rifornire di acqua potabile ed energia elettrica le zone costiere colpite da calamità naturali e consegnare beni di prima necessità alle aree più interne con l’ausilio degli elicotteri da trasporto. Naturalmente, l’investimento iniziale sarà destinato ad accrescersi in particolare con la dotazione degli Aster che valgono quasi 2 milioni ad esemplare. A supporto delle operazioni umanitarie come il controllo dei flussi migratori, il soccorso in mare e la tutela ambientale, la Difesa ha destinato circa 437 milioni per costruire i pattugliatori polivalenti d’altura, PPA, i cui dati tecnici sembrano però suggerire che saranno simili a cacciatorpedinieri. Alle spese iniziali, devono poi essere sommati i costi di gestione: il caccia F-35 vale poco più di 42.000 dollari per ogni ora di volo, non esiste ancora una valutazione per la nave Trieste, ma se per dimensioni è simile alla Cavour, si può ipotizzare che la spesa per il suo mantenimento in servizio possa avvicinarsi ai 200.000 euro al giorno. A questi vanno aggiunti i costi di attracco durante le missioni all’estero e l’esborso per le unità di scorta. La nave Cavour, durante la missione in Kuwait e Qatar, è costata 33 milioni, con i suoi 1.200 marinai e 3 navi di scorta.

Il riferimento del 2% per le spese militari indicato dall’Amministrazione statunitense, non fornisce una immagine della capacità di difesa di un singolo paese appartenente alla NATO: innanzi tutto non specifica la ripartizione delle spese, non valuta la qualità degli investimenti e sottintende la prontezza operativa dei militari, la capacità di dispiegamento e la sostenibilità delle Forze Armate. Ma soprattutto, il 2%, non tiene conto di quanto una nazione dovrebbe investire. Infatti più è alto il PIL e maggiori saranno gli investimenti che diverranno meno sostenibili nel medio e lungo termine. La Germania dovrebbe investire oltre 70 miliardi per accondiscendere alle richieste NATO. Il quadro di riferimento europeo mostra che solo Estonia, Polonia e Grecia si attestano al 2%. Gli altri se ne discostano, benché prevedano un aumento delle spese per la Difesa, tranne la Romania, la Finlandia e la stessa Grecia che vedono al ribasso le stime di investimento. Francia e Germania, le due potenze di riferimento nell’ Europa post Brexit, spenderanno nel 2017 rispettivamente l’1,8% e 1,2% del PIL.

La prima, ed inevitabile, reazione dei governi europei alla proposta statunitense, è stata quella di pensare a ristrutturare la Difesa Europea al fine di rendersi indipendenti dalla NATO.

I modelli di difesa continentali per l’intervento in aree di crisi sono strutturati in tre settori: la forza di reazione, creata per contrastare un avversario con una componente militare rilevante, pertanto è abilitata ad operare in scenari di combattimento ad alta intensità; la forza di stabilizzazione, è incaricata per operazioni di bassa o media conflittualità e per il mantenimento e controllo del teatro di crisi nel lungo periodo; la forza di supporto che ha compiti di sostenere, assistere e coadiuvare le attività di comando e controllo delle due precedenti. Non ultima, è la componente dell’intelligence per la prevenzione di attacchi terroristici. La centralità delle forze armate nei confini nazionali è assunta a basilare da quando i Governi ne agevolano la prontezza operativa in situazioni di crisi quali il supporto alle autorità civili in caso di calamità naturali ed alla lotta alla criminalità.

Risorse come i Battle Groups, benché formalmente istituite da tempo, non sono mai state utilizzate e ciò limita la rapidità di intervento in teatri dove l’interesse europeo è primario, in particolare nel Mediterraneo. Il motivo di tale condizione è nell’evidente duplicazione del comando integrato NATO, ma potrebbe diventare la struttura portante della Difesa Europea.

In Europa, i modelli di difesa e sicurezza sono tra loro sovrapponibili. La Germania, con la Bundeswehr, dispone di corpo di spedizione impiegabile in teatri di crisi di interesse per la nazione, in aree geografiche lontane, le cui peculiarità sono nella rapidità di dispiegamento, nell’interconnessione integrata per velocizzare il controspionaggio al fine di favorire la conoscenza dell’ambiente in cui opererà ed una più rapida catena di comando. La Francia ha una strategia di piena autosufficienza, una condizione a garanzia dell’indipendenza atomica, dunque una prerogativa sulla produzione di tutti i componenti per la deterrenza nucleare nazionale. L’obiettivo francese è quello di una limitata ristrutturazione della capacità atomica, in particolare il decremento dei missili da crociera trasportati da velivoli e l’aumento del numero dei sommergibili strategici. La sfida francese è nel creare entro il 2020, in concerto con l’Industria Europea della Difesa, un sistema di allerta rapido in grado di rilevare un attacco nucleare con i missili balistici.

Ulteriori potenziamenti per l’UE sono imperniati sul rifornimento aereo, sull’acquisizione di velivoli a pilotaggio remoto, i cosiddetti droni, e sulla messa a punto dei collegamenti satellitari, indispensabili per monitorare le frontiere e lo sviluppo delle operazioni nei teatri dove si sta svolgendo un conflitto.

Il quadro strategico europeo è imperniato nell’agevolare la sicurezza del confinante, sia con azioni autonome che in cooperazione con altri, creando un’organizzazione bilaterale e regionale, un concetto definibile come multilateralismo delle forze armate, estendibile anche nello spazio virtuale con azioni mirate di cibernetica, un dominio fondamentale per la sicurezza e l’economia europea. Nell’Europa post Brexit, apparentemente sembra diminuito l’arsenale nucleare, ma l’Unione non esercita alcuna autorità sulle capacità atomiche dei paesi membri, pertanto l’uscita del Regno Unito non ha un peso specifico sull’offesa nucleare della Ue.

Gli equilibri geopolitici sono cambiati e benchè l’Unione Europea non avrà mai le capacità di difesa e deterrenza della NATO, potrebbe assurgere ad attore globale con una politica tesa alla stabilizzazione delle aree limitrofe ed alla risoluzione dei conflitti mondiali. I governi continentali dovranno definire i rischi dei processi di globalizzazione e della crisi finanziaria, perseguendo sia gli interessi nazionali che comunitari, avallando strategie sinergiche nell’elaborazione di schemi interpretativi sulle trasformazioni strutturali sociali, economiche e politiche internazionali, aumentando la capacità di definizione degli scenari geopolitici globali, dove i futuri equilibri potrebbero dipendere proprio dalle capacità militari e dalla centralità del controspionaggio. L’analisi e l’interpretazione dei dati sulle dinamiche delle organizzazioni terroristiche o più in generale degli antagonisti, costituiranno il vantaggio sul quale potrebbe reggersi il sistema Europa.

Francia, Germania ed Italia, sottolineano la crescente importanza strategica della funzione di intelligence, non solo per la prevenzione ma per la condotta stessa delle operazioni.

 

Laddove il progetto di un esercito europeo non trovi la realizzazione nel breve e medio termine, esiste un solo valido motivo per il quale l’Italia trarrebbe un vantaggio nell’avvicinarsi e poi raggiungere il 2%, ossia quello di fermare i tagli a settori nevralgici per la nazione quali la sicurezza interna, evitare gli sprechi e razionalizzare le risorse.


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