di  Riccardo Vecellio Segate

 

Inutile negarlo: componente essenziale della proiezione geostrategica di uno Stato, ancor prima della sua potenza economica, ancor prima della sua capacità bellica, è la sua posizione geografica. Vi sono Paesi – come gli Stati rentier africani (si pensi alla Libia) – che, benché attraversati da conflitti tribali endemici ed estremo disordine socio-istituzionale, sono capaci di resistere non per straordinari meriti o attitudini della popolazione, ma grazie ad un territorio particolarmente ricco di risorse naturali, dove l’energia abbonda e la bilancia commerciale è perennemente in attivo. Ebbene, in altri casi, ad essere rilevante non è la conformazione o la composizione del territorio in sé, quanto la sua localizzazione: vi sono in questo pianeta isolotti che, per la propria posizione, sono contesi da diversi eserciti più di quanto lo sarebbe una nazione intera.

Speciale menzione merita in questo scenario la questione dei passaggi marittimi dotati di un incredibile peso strategico, a maggior ragione quando essi risultino punti di passaggio obbligato per merci e contingenti militari; ecco allora che un corridoio di mare può divenire la fortuna del fazzoletto di terra che vi si affaccia, per ragioni economico-commerciali ma pure, non secondariamente, di sicurezza. I più celebri tra questi “corridoi” sono il canale di Panama (America Centrale), quello di Suez (realizzato in Egitto da mente italiana, per collegare Mar Mediterraneo e Mar Rosso), quello della Manica (tra Francia e Inghilterra), lo stretto di Malacca (nell’Oceano Indiano, fra Malesia e Indonesia, al centro dell’attenzione per la situazione di “guerra fredda” nel Mar Cinese Meridionale), di Gibilterra (forse il più celebre nella storia dei popoli mediterranei), di Bāb el-Mandeb (parzialmente conteso da Eritrea, Yemen e Gibuti), del Bosforo e dei Dardanelli (questi ultimi due segnanti il confine fra i due continenti della placca eurasiatica). In aggiunta, vanno ricordati i tre stretti danesi, snodo del commercio globale del petrolio anche se la massima sicurezza di cui si sono sempre fatti paladini è ormai posta in discussione dalle frizioni tra il Cremlino e i governi europei.

Ma lo stretto più importante del mondo (almeno in campo energetico), quello che davvero fa la differenza e che si dimostra suscettibile alla pur minima degradazione dei rapporti politico-diplomatici, è quello di Hormuz, situato tra Oman e Iran, a connessione fra il Golfo Persico e quello dell’Oman. 17 milioni di barili al giorno transitano da Hormuz: una cifra impressionante, che ne fa, secondo l’International Energy Agency , la maggiore giuntura via mare al mondo, in quanto serve il porto iracheno di Bassora, quello di Minah al Ahmadi in Kuwait e quelli iraniani di Bandar-e Shapur, Busher e Bandar Abba. Impossibile non menzionare inoltre l’impianto GNL di Das Island, costruito da ADGAS e proprietà del piccolo emirato di Abu Dhabi. Per quanto vi siano marine militari – come quella statunitense o più estensivamente NATO – capaci di “pattugliare” letteralmente tutto il pianeta, con basi presenti ovunque e navi in ricognizione pressoché in ogni dove, il bilanciamento fra rilevanza del sito e presenza militare non sempre segue i dettami del senso complessivo, quanto piuttosto quelli della convenienza estemporanea in politica estera.

Giusto a mero titolo esemplificativo, è noto che le forze di Washington si concentrano sempre più nel Pacifico abbandonando l’Atlantico non meno del Mediterraneo, ritenuti dalla Casa Bianca progressivamente meno vitali per gli interessi nordamericani nei foreign affairs.  E se nello stretto di Malacca l’attenzione resta sempre vigile, in quello di Hormuz non si ritiene lo sia abbastanza: situato nella “zona calda” più instabile del panorama contemporaneo, e condiviso con uno dei Paesi – quello persiano – più a lungo ostracizzato dalle dinamiche internazionali, potrebbe rapidamente risultare compromesso in caso di tensioni tra l’Iran e l’Arabia Saudita, entrambi ora più che mai determinati a proporsi come riferimenti del mondo islamico, a maggior ragione con una Siria distrutta, un Iraq liquefatto e un Egitto al collasso. È questo il più notevole tra i motivi che inducono Mascate a tentare un’incessante mediazione tra le due maggiori potenze musulmane, facendosi quasi ponte politico e spirituale più che imprescindibile passaggio fisico, e ottemperando a una condizione di “umiltà silente” che la porta a operare in maniera sotterranea, delicata, quasi invisibile, ma non per questo inefficace. Anzi. Estraneo ai grandi giochi, l’Oman è tuttavia protagonista indiretto di ogni singolo passaggio degli stessi. Prima però di analizzare in dettaglio alcuni orientamenti del governo omaniano, è bene rammentare che la fragilità dei passaggi marittimi è dovuta a differenti fattori, alcuni per così dire statali, altri afferenti ad una criminalità diffusa e generalista.

Gli attriti fra Paesi sovrani (instabilità politica, ma anche vere e proprie dispute territoriali da risolvere tramite arbitrato presso la Corte dell’Aia) sono certo più pericolosi, ma anche assai meno frequenti degli episodi di pirateria, quasi sempre correlati a dinamiche mafiose di più ampia portata (nelle quali le mafie tentacolari italiane giocano un ruolo di prim’ordine). Le bande di mercenari che attraversano la penisola del Sinai, parte di un Egitto governato col pugno di ferro da al-Sisi senza che questo comporti ricadute particolarmente positive sul contrasto al terrorismo (si pensi ai disastri aerei del 31 ottobre 2015 e del 19 maggio 2016, al caso Regeni, alla proliferazione del takfirismo ecc.) incarnano il modello più pregnante di queste situazioni, col Canale di Suez perennemente a rischio di predazioni. In quello di Hormuz si pratica il contrabbando, ma almeno per ora gli attacchi riconducibili alla pirateria organizzata non destano preoccupazione tra gli attori del commercio via mare. E se altri piccolissimi emirati o monarchie costituzionali quali il Kuwait o il Bahrein possono reclamare un qualche peso dovuto non solamente ai giacimenti di greggio, ma anche ad un legame speciale con l’esercito a stelle e strisce (basi, supporto strategico e logistico), gli stessi non possono che passare dalle acque territoriali di Muscat per dare sfogo alle proprie ambizioni commerciali.

Una prerogativa talmente unica da suscitare interesse nelle maggiori potenze coloniali europee a partire dagli albori del XVIII secolo, con un’Inghilterra uscita vittoriosa dal contenzioso con la rivale Parigi e ancor prima col Portogallo per il controllo del territorio omaniano; una dominazione dai tratti piuttosto inconsueti, all’insegna dell’amicizia e della tutela della popolazione. Benché l’arabo sia lingua ufficiale, anche ai giorni nostri chiunque in Oman è capace di esprimersi fluentemente in inglese, con la sola eccezione – forse – di alcune zone estremamente periferiche. Nonostante questo, ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1971, l’Oman è stato tra le poche ex colonie a decidere di non entrare a far parte del Commonwealth (fatto comunque relativamente prevedibile, considerando che la maggior parte degli ex protettorati e mandati britannici in area MENA aveva già seguito la medesima linea). In definitiva: filobritannico sì, ma con un certo orgoglio indipendentista. Si potrebbero spendere interi volumi sulle complesse relazioni tra Londra e Mascate; una lettura assolutamente consigliata in merito è l’analisi redatta da James Worrall, Lecturer in International Relations alla University of Leeds: Statebuilding and Counterinsurgency in Oman: Political, Military and Diplomatic Relations at the End of Empire (I.B.Tauris, London, 2014). Con una superficie leggermente superiore a quella del Bel paese, l’Oman potrebbe ancor oggi aspirare ad essere una media potenza se la concentrazione demografica non fosse così bassa: la popolazione, età media 27 anni e alta aspettativa di vita, detiene un buon livello di istruzione (almeno superiore); il sultanato sponsorizza regolarmente gli studenti migliori elargendo consistenti borse di studio, per fare in modo che possano proseguire gli studi universitari negli atenei inglesi e americani.

Al di là dello stretto di Hormuz in sé, altro elemento importante per la proiezione geostrategica dell’Oman è il suo possesso di due exclavi, situate a un centinaio di chilometri di distanza: Madha, enclave degli Emirati Arabi Uniti e la penisola del Musandam. Quest’ultima, pressoché disabitata in proporzione al territorio, è tra le exclavi maggiori al mondo e consente al Paese arabo di proiettarsi con eguale efficacia sul Mar Arabico e nei due Golfi (Persico e dell’Oman). Quella di Masirah, lunga 95 km e larga mediamente 13, è l’unica isola omaniana degna di nota, attualmente centro di pesca, ma in passato avamposto strategico e centro d’addestramento delle maggiori marine militari occidentali.

Una certa coesione sociale e soprattutto religiosa, la presenza di manodopera straniera qualificata e di una popolazione giovane e ben istruita, la proiezione su due dimensioni marittime di assoluta rilevanza, il fil rouge con UK e USA, sono tutte componenti che rendono in definitiva l’Oman un Paese che fa del “basso profilo” e della diplomazia sotterranea una scelta strategica. In un contesto in cui da almeno una ventina d’anni tutti i vicini (Iraq, Iran, Yemen, Siria, Corno d’Africa ecc.) sono in rotta di collisione fra loro non meno che con la comunità internazionale, la stabilità e la mediazione sottaciuta del sultano Qābūs bin Saʿīd Āl Saʿīd rendono l’Oman essenziale in ogni dinamica locale e regionale.

 


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