Pubblichiamo il canovaccio della conferenza tenuta dal direttore di Eurasia il 7 Ottobre 2018 a Reggio Emilia presso il Centro Studi Italia.

 

In primo luogo ritengo opportuno riflettere sul profilo dello spazio geografico che il popolo ungherese occupa da undici secoli, perché lo spazio in questione ha influito e continua ancora oggi ad influire sull’esistenza di questo popolo e del suo Stato.

Si tratta dello spazio che viene chiamato Bacino Pannonico (dal nome del popolo illirico che lo abitava nell’antichità) o Bacino dei Carpazi (dal nome della catena montuosa che lo delimita a nord e ad est).

Racchiuso tra le Alpi, i Carpazi e i Balcani, il Bacino Pannonico è la più vasta e la più chiusa fra le unità territoriali attraversate dal Danubio; è una vasta pianura che configura un settore di cerchio delimitato da massicci montani. Sembra che tutto il suo peso, poggiando sulle coste adriatiche e sulla regione balcanica, protegga o minacci l’Europa ed il Mediterraneo.

Una minaccia, il Bacino Pannonico la rappresentò effettivamente tra la fine dell’età antica e la prima metà del Medioevo, nel periodo delle “invasioni barbariche” (che gli Ungheresi, come i Tedeschi, chiamano “migrazioni di popoli”). I Goti, i Gepidi, gli Unni, gli Avari e infine gli Ungari (o Magiari che dir si voglia) fecero di questa fortezza naturale, collocata fra l’Oriente e l’Occidente, il punto di partenza delle loro scorrerie. Anche i Longobardi si erano stanziati nel Bacino Pannonico prima di dirigersi verso l’Italia.

Non sto qui a rievocare la storia e le tappe della migrazione ungara che precedette l’arrivo degli Ungari nel Bacino Pannonico. Basti dire che oltre undici secoli fa, nell’anno di grazia 895, circa 200.000 cavalieri ungari accompagnati dalle loro famiglie, provenienti dalle pianure meridionali della Russia, valicarono il passo carpatico di Verecke.

(Che oggi si trova in Ucraina; in memoria del passaggio degli Ungari vi sorge un monumento che è stato vandalizzato dagli sciovinisti ucraini nei giorni del golpe di Maidan, fra il 2013 e il 2014).

Gli Ungari dilagarono nella pianura solcata dal Tibisco e dal Danubio, abitata da sparse tribù di varia appartenenza etnica.

Questo evento, che gli Ungheresi chiamano “occupazione della patria” (honfoglalás) o “conquista della patria” (honhodítás), diede inizio alla nuova fase della loro storia.

Nella prima metà del sec. X gli Ungari intrapresero decine di spedizioni in varie parti d’Europa. Da Bisanzio ai Pirenei, gli Ungari seminavano il terrore, devastavano le campagne, espugnavano le città meno difese, catturavano bottino e prigionieri. In Emilia si recitava una preghiera specifica a San Geminiano per ottenere la protezione contro le frecce dei cavalieri ungari: “Nunc te rogamus, licet servi pessimi, – ab Hungarorum nos defendas jaculis”. Identificati con gli Unni, gli Ungari erano visti come un secondo “flagello di Dio”; chi li diceva figli di diavoli e di streghe àvare, chi riconosceva in loro le genti di Gog e di Magog.

Con Enrico l’Uccellatore comincia però la riscossa dell’Europa cristiana contro le incursioni ungare. Il sovrano sassone, che in un primo tempo era stato costretto a versare il tributo agli Ungari per evitare i loro saccheggi, nel 933 li sconfigge in una battaglia campale. Nel 955 suo figlio Ottone I sbaraglia di nuovo nel Lechsfeld l’orda ungara che aveva assalito Augusta (Augsburg).

In seguito alla sconfitta, gli Ungari avvertono la necessità di cambiare registro, instaurando rapporti di buon vicinato con il Sacro Romano Impero, rinunciando definitivamente al seminomadismo ed alle incursioni e insediandosi in maniera stabile e definitiva nel bacino carpatico-danubiano.

Per compiere questa svolta decisiva, gli Ungari devono legittimarsi di fronte all’Europa cristiana, abbandonando la religione dei padri (una forma di sciamanesimo simile a quello dei popoli turchi) e adottando il cristianesimo: non quello bizantino e ortodosso, ma quello romano-germanico e cattolico.

Il principe Taksony chiede alla Santa Sede di inviare un vescovo tra gli Ungari; il suo successore Géza si fa battezzare; il figlio di Géza, Vajk, assume il nome cristiano di Stefano (István), nell’anno 1000 riceve la corona d’Ungheria da papa Silvestro II e prosegue decisamente nell’opera di conversione delle tribù ungare.

Così i barbari predatori diventano le sentinelle dell’Europa sul confine orientale. Se il limes dell’Impero Romano era segnato ad est dal corso del Danubio, dopo il 1000 il limes orientale dell’Europa cristiana è rappresentato dal regno d’Ungheria, che diventa un antemurale Christianitatis contro gli attacchi provenienti da oriente.

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In seguito, tre imperi si sarebbero affrontati per controllare lo spazio solcato dal Danubio: l’impero absburgico, l’impero ottomano e quello russo, ciascuno seguendo una diversa direzione di marcia. Gli Austriaci scesero lungo il corso del fiume, i Turchi lo risalirono, l’Armata Rossa lo attraversò.

Nell’impero absburgico, che dopo la ritirata degli Ottomani dall’Ungheria controllò buona parte dello spazio danubiano fino alla prima guerra mondiale, il centro di gravità non era occupato dai Tedeschi, ma dalla massa compatta degli Ungheresi. Era l’Ungheria a costituire il nerbo dell’impero: nel centro geometrico della Monarchia absburgica, al centro del bacino danubiano, c’erano Buda e Pest, mentre Vienna si trovava alla periferia, vicino al confine occidentale. Periferici erano anche gli altri territori: Transilvania, Bosnia, Carinzia, Stiria, Slovacchia, Boemia, Galizia. Sulla carta geografica, la Monarchia absburgica appariva come un’Ungheria prolungata verso il nord e verso l’ovest.

È questo lo sfondo geopolitico del cosiddetto “Compromesso” (Ausgleich, Kiegyezés), la riforma costituzionale del 1867, che Vienna si vide costretta ad adottare in seguito alla sconfitta subita nella guerra austro-prussiana dell’anno precedente.

In virtù del Compromesso, che riconosceva al blocco compatto degli Ungheresi il loro peso decisivo, l’Impero d’Austria diventava una “monarchia austro-ungarica”: una monarchia che, sotto un unico e medesimo sovrano (Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria) si articolava in due regni distinti. Se i ministeri competenti per la politica estera, la politica economica e quella militare erano in comune, accanto all’imperial-regio esercito esistevano anche un esercito nazionale austriaco (Landwehr) e un esercito nazionale ungherese (Honvéd), mentre le questioni finanziarie e commerciali erano regolate da accordi decennali rinnovabili.

Gli Ungheresi non erano soltanto il popolo centrale del bacino danubiano, ma erano anche l’unico che apparteneva esclusivamente ad esso, l’unico la cui lingua non era parlata da nessun’altra parte. La patria degli Ungheresi (come d’altronde quella dei Cechi, degli Slovacchi, degli Sloveni e dei Croati) si trovava tutta quanta entro i confini della Monarchia absburgica, mentre altri popoli (i Tedeschi, i Serbi, i Romeni, gli Ucraini, i Polacchi, gl’Italiani) erano insediati in parte entro i confini absburgici e in parte fuori.

Non è corretto formulare delle ipotesi circa sviluppi storici che non si sono verificati; tuttavia viene spontaneo pensare che l’Austria-Ungheria sarebbe diventata una Grande Ungheria, se la prima guerra mondiale non avesse posto fine all’esistenza dell’impero e non avesse ridotto l’Ungheria ai minimi termini.

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Tutti sappiamo quali effetti devastanti sono stati prodotti – con conseguenze che durano fino ai giorni nostri, soprattutto nel Vicino Oriente – dai trattati di pace che vennero imposti agli sconfitti della prima guerra mondiale.

Per quanto riguarda in particolare l’Ungheria, essa pagò a carissimo prezzo la distruzione dell’Impero asburgico.

I confini dello Stato ungherese, fissati dal Trattato del Trianon il 4 giugno 1920, privavano l’Ungheria di circa due terzi del suo territorio e della sua popolazione.

Nelle regioni che l’Ungheria dovette cedere ad altri Stati la popolazione apparteneva per lo più ad etnie non ungheresi (Slavi e Romeni soprattutto); in certi casi, però, la popolazione includeva significative minoranze ungheresi, mentre in alcuni territori c’era addirittura una maggioranza ungherese.

Per effetto del Trattato del Trianon la popolazione ungherese diminuì in tutte le regioni cedute; tuttavia notevoli minoranze ungheresi vi risiedono ancora oggi, specialmente in Romania, in Slovacchia, in Serbia ed in Ucraina.

Come si disse all’epoca con amaro umorismo, l’Ungheria era diventata l’unico paese al mondo che confinasse con se stesso da ogni lato.

A questa boutade se ne aggiungeva un’altra: l’Ungheria, oltre ad essere una monarchia senza re, era un paese senza mare guidato da un ammiraglio senza flotta (il Reggente Horthy). Infatti il nuovo staterello ungherese non ebbe più nessun accesso al mare, mentre per oltre 800 anni il Regno d’Ungheria si era affacciato sull’Adriatico.

Nacque allora un neologismo che oggi è passato a indicare tutt’altra cosa: revisionismo. Tale termine indicava la richiesta ungherese di sottoporre a revisione il Trattato del Trianon, richiesta che venne appoggiata da quegli Stati che i trattati di pace avevano in diverso modo penalizzati: in primis la Germania e l’Italia.

Dell’avvicinamento a Roma e a Berlino l’Ungheria raccolse i frutti il 30 agosto 1940, quando i ministri degli esteri del Reich e dell’Italia, Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano, emisero a Vienna una decisione arbitrale che restituiva a Budapest una parte dei territori assegnati alla Romania (la Transilvania del nord).

Il più convinto sostenitore della necessità che l’Ungheria desse il proprio attivo contributo alla lotta dell’Asse fu Ferenc Szálasi, capo del movimento crocefrecciato e, dall’Ottobre 1944 fino al termine della guerra, Nemzetvezető, “Guida della Nazione”.

In un discorso pronunciato nel giugno 1943 nella sede del movimento crocefrecciato, la Casa della Fedeltà (trasformata da Orbán nella “Casa del Terrore”, una sorta di museo del totalitarismo), Szálasi indicò il posto dell’Ungheria nel nuovo ordine europeo, facendo ricorso ai concetti geopolitici di “grande spazio” e “spazio vitale”.

Nel grande spazio europeo, che si articola in cinque spazi vitali (slavo, germanico, latino, carpato-danubiano e islamico), è lo spazio vitale carpato-danubiano ad occupare la posizione geograficamente centrale. La sua missione, dice Szálasi, “consiste nell’assicurare e nell’organizzare la vita politica, economica e sociale dell’Europa sudorientale, nonché nel creare ed assicurare verso sudest, insieme con lo spazio vitale islamico, la relazione vitale del grande spazio europeo col grande spazio asiatico”.

Secondo il progetto esposto da Szálasi, nel nuovo ordine europeo i popoli tedesco, italiano ed ungherese avrebbero organizzato e diretto, ciascuno nel proprio spazio vitale, una comunità di popoli.

Gli Ungheresi, dunque, sarebbero stati il popolo guida della comunità dei popoli del Bacino carpato-danubiano.

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Invece l’Ungheria uscì dal secondo conflitto mondiale con gli stessi confini stabiliti dal Trattato del Trianon e per quarant’anni fece parte dello spazio geopolitico egemonizzato dall’URSS.

Occupata dall’Armata Rossa, nel 1955 entrò a far parte del Patto di Varsavia. Ma già prima il blocco occidentale aveva intrapreso, nei confronti dell’area di influenza sovietica e della stessa Ungheria, una serie di azioni provocatorie e di attività ostili.

Per quanto riguarda l’Ungheria, gli USA elaborarono un piano chiamato “Operazione Focus”, la cui prima fase ebbe inizio il 1 ottobre 1954, quando dal quartier generale di Free Europe, situato nei pressi di Monaco di Baviera, partì uno stuolo di palloni aerei che lasciò cadere sul territorio ungherese centinaia di migliaia di volantini, redatti secondo i criteri della guerra psicologica e vario materiale di propaganda.

Le provocazioni dirette dagli USA culminarono nel 1956. Nel primo trimestre di quell’anno si verificarono 191 violazioni di frontiera a danno dell’Ungheria; da aprile a giugno ve ne furono 320; in agosto, 438. Gli USA d’altronde non nascondevano di essere implicati in tali operazioni: in una nota del 3 febbraio 1956, successiva all’arresto di alcuni cittadini ungheresi che agivano per conto dello spionaggio statunitense, il governo americano elencava una serie di misure di rappresaglia che sarebbero state adottate qualora le spie non fossero state rilasciate.

Nel frattempo venivano aumentati i fondi destinati alle attività di sabotaggio in Ungheria e in altri paesi dell’Est europeo: “È un fatto – dirà Togliatti un anno dopo – che alla vigilia degli avvenimenti [ungheresi] lo stanziamento nel bilancio americano per l’organizzazione del sovvertimento nei paesi socialisti venne aumentato di 20 milioni di dollari e ora sembra sia stato portato a 500 milioni” .

Tuttavia, i progetti statunitensi non miravano ad abbattere i regimi socialisti, ma solo a mantenere l’URSS sotto pressione. In questo contesto strategico, i popoli dell’Est europeo venivano mandati allo sbaraglio e utilizzati come carne da macello per la politica del cosiddetto containment.

Usando i termini di valutazione odierni, qualcuno potrebbe essere tentato di dire che nell’Ungheria del 1956 ebbe luogo una “rivoluzione colorata” ante litteram. Non lo fu, anche se esistono elementi comuni tra la rivolta del ’56 e le odierne rivoluzioni colorate.

In ogni caso, la rivolta ungherese finì come sappiano, anche perché i tempi non erano ancora maturi per la perestrojka e per la liquidazione del “socialismo reale”. 

Ma fu proprio in Ungheria, trent’anni più tardi (a partire dal 23 agosto 1989), che cominciò a sgretolarsi la Cortina di Ferro, quando il governo di Budapest favorì l’esodo di migliaia di Tedeschi dalla RDT. Con la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro, con lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’URSS e il rovesciamento del sistema comunista, l’Ungheria, adottò i modelli economici e politici dell’Europa occidentale, cosicché nel 1989 la Repubblica Popolare Ungherese (Magyar Népköztársaság) cessò di esistere.

Qualche anno più tardi, nel maggio 1995, dopo la vittoria elettorale dei socialisti e la loro alleanza coi liberaldemocratici, si tenne a Budapest l’assemblea parlamentare della NATO. L’Ungheria non era ancora un paese membro dell’Alleanza Atlantica, però aveva aderito al “Partenariato per la Pace” creato dalla NATO nel 1994 ed aveva dato l’assenso all’allestimento di una base militare statunitense a Taszár, nelle vicinanze della frontiera bosniaca.

Fu solo nel marzo 1999, all’epoca del primo governo di Viktor Orbán, che l’Ungheria entrò ufficialmente a far parte dell’Alleanza Atlantica.

(Si noti il controsenso, dovuto alla manipolazione della geografia ad usum delphini: un paese senza alcuno sbocco sul mare, se mai più vicino al Mar Nero che non all’Atlantico, diventa… un “paese atlantico”).

In quanto “paese atlantico” prese parte alla missione della NATO in Afghanistan (l’ISAF) ed alla guerra in Iraq, stanziandovi 300 militari ufficialmente non impegnati in operazioni di combattimento.

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Chi era il Primo Ministro Viktor Orbán?

Nato nel 1963 da una famiglia d’origine transilvana di confessione calvinista, Viktor Mihály Orbán aveva fondato nel 1988 l’Alleanza dei Giovani Democratici, in ungherese Fiatal Demokraták Szövetsége, da cui l’acronimo Fidesz (che suona all’orecchio come l’omofona parola latina). Si trattava di una formazione liberale e progressista, impegnata sul tema dei diritti civili.

Nel 1989, Orbán ricevette una borsa di studio dalla Fondazione Soros per studiare scienze politiche al Pembroke College di Oxford.

Nel 1990, quando Orbán entra in Parlamento, il Fidesz è schierato all’opposizione, contro il governo di centrodestra presieduto da József Antall, esponente del Forum Democratico Ungherese (Magyar Demokrata Fórum), formazione affiliata al Partito Popolare Europeo.

Nel 1994, allorché i socialisti vincono le elezioni e si alleano coi liberaldemocratici, Orbán si schiera di nuovo all’opposizione, con un Fidesz che dal campo liberale e progressista si è spostato nel campo del centrodestra. Alcuni membri del Fidesz non hanno accettato la svolta e hanno dato le dimissioni dal partito, ma la maggioranza ha seguito Orbán, che negli anni trascorsi all’opposizione consolida il suo nuovo profilo politico.

Dopo aver presieduto il suo primo governo (fra il 1998 e il 2002), Orbán dovette cedere il passo ad una coalizione di centrosinistra guidata da un banchiere, Péter Medgyessy. Si parlò allora di una vendetta dei “poteri forti” contro il governo di Orbán, che aveva concesso prestiti a fondo perduto ai cittadini bisognosi di costruirsi una casa. La stampa ungherese, controllata da Soros e da Murdoch, aveva scatenato una campagna contro Orbán, accusandolo tra l’altro di essersi alleato con il Partito Ungherese della Giustizia e della Vita (Magyar Igazság és Élet Pártja), fondato dal drammaturgo István Csurka e bollato come “antisemita”.

Al governo di Medgyessy seguirono quello di Ferenc Gyurcsány, “il socialista in limousine”, travolto poi da uno squallido scandalo, e poi quello di Gordon Bajnai, anche quest’ultimo fortemente impopolare, poiché, per accedere al prestito del Fondo Monetario Internazionale, ridusse ai minimi termini le spese di carattere sociale. 

Nel 2010, Orbán va al governo una seconda volta, con la maggioranza parlamentare più solida affermatasi in Ungheria dopo la caduta del regime comunista (263 seggi su 386).

Durante questo mandato, che dura fino al 2014, entra in vigore (il 1 gennaio 2012) la nuova Costituzione, che, come si ricorderà, ha suscitato critiche e polemiche sia in Europa sia negli USA, dove gli attacchi più violenti sono provenuti da Hillary Clinton.

Per quanto riguarda la nuova carta costituzionale, ci sarebbe parecchio da dire; ma qui mi limito ad osservare che in un punto del Preambolo è presente il motivo dello smembramento dell’Ungheria avvenuto col Trattato del Trianon: (“Promettiamo di custodire l’unità spirituale e morale della nostra Nazione, andata in pezzi nelle tempeste del secolo scorso”).

Su questo punto della Costituzione si fonda l’estensione della cittadinanza ungherese, col relativo diritto di voto, ai connazionali che sono cittadini dei paesi confinanti.

In questo modo, oltre un milione di persone, soprattutto in Romania e in Serbia, hanno ottenuto la cittadinanza ungherese fra il 2010 e il 2017. Solo gli Ungheresi di Slovacchia sono rimasti esclusi da questo processo, perché il Parlamento di Bratislava ha votato d’urgenza una legge che toglie la cittadinanza slovacca a chi ottiene la cittadinanza di un altro Stato. Quanto all’Ucraina, nonostante il divieto teorico della doppia cittadinanza, le autorità di Kiev hanno approfittato del provvedimento ungherese per favorire l’emigrazione degli appartenenti alla minoranza magiara, che si è notevolmente ridotta.

Alle elezioni politiche dell’aprile 2014 il Fidesz ottiene il 44,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi, cosicché Orbán riceve per la terza volta l’incarico di formare il governo.

Per quanto riguarda le relazioni dell’Ungheria con gli altri paesi europei, Orbán rilancia il cosiddetto “gruppo di Visegrád”, che si era costituito nel 1991 in seguito ad un vertice dei capi di Stato e di governo di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia.

(Nella città ungherese di Visegrád, 650 anni prima, Carlo I d’Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni I di Boemia avevano concordato sulla necessità di creare nuove vie commerciali che, evitando il centro di Vienna, ottenessero accessi più veloci ai diversi mercati europei).

Il 1 gennaio 1993, con la divisione della Cecoslovacchia, i Paesi del “gruppo di Visegrád” diventano quattro; il 1 maggio 2004 entrano nell’Unione Europea. Adesso l’Ungheria, insieme con la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, forma un’alleanza che intende rafforzare la politica degli Stati nazionali all’interno dell’Unione Europea.

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Per quanto concerne le relazioni internazionali di Budapest, è significativo il fatto che nel discorso inaugurale della sua attuale presidenza Orbán ha citato tre Paesi coi quali l’Ungheria intende avere ottimi rapporti: la Germania, la Turchia e la Russia.

Per quanto riguarda in particolare la Russia, l’Ungheria ha siglato con la società russa Rosatom un accordo da 10.000 milioni di dollari per la costruzione di un reattore atomico di 2000 megawatt. Si capisce così perché tre anni fa il “Washington Post” paventò il rischio che l’Ungheria potesse diventare un avamposto di Mosca e perché il senatore statunitense John Mc Cain criticò pesantemente le relazioni dell’Ungheria con la Russia, gratificando il Primo Ministro ungherese col titolo di “dittatore neofascista” e provocando una crisi diplomatica tra Washington e Budapest. McCain aveva detto testualmente: “L’Ungheria si trova sul punto di cedere la sua sovranità ad un dittatore neofascista che va a letto con Vladimir Putin”.

A quanto pare, a tranquillizzare gli Stati Uniti non è bastato il fatto che Orbán abbia fatto erigere una statua di Reagan nel centro di Budapest.

Orbán liquidò le parole di McCain come “manifestazione di estremismo”, dichiarando testualmente: “In questo momento l’indipendenza nazionale dell’Ungheria si trova sotto attacco. (…) L’indipendenza dell’Ungheria in termini di energia, di finanze e di relazioni commerciali dà fastidio a coloro che prima del 2010 hanno tratto vantaggio dalla dipendenza del nostro Paese”.

Gli USA hanno visto come una mossa in favore del Cremlino anche l’opposizione di Budapest al processo di integrazione dell’Ucraina nella NATO. Tale opposizione è stata decisa dall’Ungheria dopo che il governo di Kiev, nel 2017, ha emanato una legge che assegna alla lingua ucraina lo statuto di unica lingua ammessa per l’istruzione scolastica. La legge era rivolta contro la minoranza russa che vive in Ucraina, ma colpiva anche le altre minoranze etniche alloglotte: quella bielorussa, quella bulgara, quella ungherese per l’appunto, quella polacca ecc.

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Come è noto, durante la cosiddetta “crisi migratoria” del 2015 Orbán ha intrapreso numerose azioni per combattere l’immigrazione clandestina e ridurre il numero dei rifugiati, opponendosi inoltre a qualsiasi quota obbligatoria relativa alla ridistribuzione dei migranti.

Per sua iniziativa, il 2 ottobre 2016 si è tenuto un referendum sulla ripartizione dei migranti voluta dall’Unione Europea. L’affluenza però si è fermata al 43,23%, cosicché la consultazione non è risultata valida per mancato raggiungimento del quorum. (Il 98% dei votanti si è espresso contro le quote).

Grazie alla posizione tenuta da Orbán su questo tema e grazie alla dichiarazione di guerra nei confronti di Soros e delle sue ong, alle elezioni del 2018 il Fidesz ha ricevuto il 49,27% dei voti, ottenendo 133 seggi su 199 nell’Assemblea Nazionale. In tal modo Orbán è diventato, per la quarta volta, capo del governo ungherese.                  

Il rapporto conflittuale con l’Unione Europea è esploso in seguito all’opposizione del governo di Budapest alla politica di Bruxelles riguardo alla questione migratoria.

Bisogna però osservare che già qualche anno fa, all’epoca delle polemiche sulla nuova Costituzione, Orbán si lasciò sfuggire questa frase: “C’è vita anche fuori dall’Unione Europea”. E qualche giorno dopo compì una visita ufficiale in Kazakistan, nel corso della quale concluse una serie di vantaggiosi trattati economici.

Non si tratta solo del Kazakistan. Da diversi anni l’Ungheria intrattiene rapporti politici ed economici particolarmente stretti con la Cina. Tali relazioni hanno indotto l’UE ad esprimere la propria preoccupazione, in particolare, nei confronti dei piani per la costruzione, affidata alla Cina, di una linea ferroviaria che dovrebbe collegare Budapest al porto del Pireo attraverso Belgrado.

La televisione ungherese di Stato trasmette quotidianamente un notiziario in lingua cinese, dedicato alle decine di migliaia di Cinesi che vivono e lavorano in Ungheria. Il telegiornale in cinese va in onda subito dopo quello in russo.

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A caldeggiare un più stretto rapporto dell’Ungheria con l’Oriente, in particolare con quelli che i Magiari considerano “popoli affini”, cioè i popoli turchi (o “turanici”), non sono soltanto il governo di Orbán e la coalizione che lo sostiene.

L’opposizione di destra, rappresentata fino a poco tempo fa dal “Movimento per un’Ungheria migliore” (Mozgalom egy jobbik Magyarországért, detto correntemente Jobbik), ha espresso posizioni sostanzialmente analoghe, ma formulate in termini più radicali.

Alcuni anni fa apparve su “Barikád” un articolo di Gábor Vona, presidente di Jobbik, che recava un titolo esplicito ed eloquente: “Eurasiatismo, anziché euroatlantismo!” (Euroatlantizmus helyett eurázsianizmust!).

“Al mondo – scriveva Vona – ci sono 300 milioni di uomini che si identificano come appartenenti a popoli turanici. Questi popoli si domandano con stupore come mai noi Ungheresi non coltiviamo come dovremmo questa nostra eredità. È un fatto sostanziale che questa fascia turanica, che dall’Ungheria si estende fino alla Cina, oggi costituisce uno degli scacchieri più importanti, se non il più importante, della politica mondiale. Essa possiede gran parte delle riserve di gas naturale e di petrolio della terra, per cui la sua rilevanza geopolitica non può essere esagerata. Se stabilisse un’alleanza con questa compagine, l’Ungheria potrebbe uscire dalla sua attuale condizione coloniale ed acquisire un ruolo nella politica mondiale”.

Vona sosteneva che solo una “svolta ad Oriente” o una “apertura ad oriente” potrebbe far uscire l’Ungheria dalla situazione attuale, dovuta ad un asimmetrico rapporto con l’Occidente. L’Ungheria non può affidarsi all’Unione Europea, se vuole rimettere in piedi l’agricoltura, l’industria alimentare e quella manifatturiera, ma deve puntare sull’apertura di prospettive eurasiatiche (eurázsiai távlatok).

C’è tutta una serie di argomenti, concludeva l’esponente di Jobbik, che impone all’Ungheria una “svolta ad Oriente” o una “apertura ad oriente”: una scelta di campo geopolitica che punti sull’apertura di prospettive eurasiatiche (eurázsiai távlatok), riassumibile nella parola d’ordine di Pál Teleki, che fu due volte primo ministro fra le due guerre: “A oriente, Ungherese!” (Keletre, magyar!).  

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In tutta la sua storia, dalla “conquista della patria” fino ad oggi, la nazione ungherese si è trovata a metà strada fra l’Oriente, da cui essa era provenuta, e l’Occidente europeo, nel quale si era venuta ad inserire.

Oriente e Occidente hanno rappresentato i due corni del dilemma davanti al quale la nazione ungherese si è trovata più volte nel corso della sua storia.

Inizialmente i Magiari dovettero scegliere tra il nomadismo nelle steppe della Russia meridionale e un’esistenza stabile nella pianura carpato-danubiana.

Poi dovettero scegliere tra la forma di sciamanesimo ereditata dagli antenati e il cristianesimo dell’Europa, nella quale erano venuti ad insediarsi.

L’adozione della religione cristiana comportò, a sua volta, un’altra scelta: tra Bisanzio e Roma.

Come se non bastasse, qualche secolo dopo gli Ungheresi si trovarono a dover scegliere tra il cattolicesimo e la Riforma protestante. Fu una scelta che divise gli Ungheresi, perché una parte di loro aderì alle confessioni luterana e calvinista. Oggi i protestanti sono circa un terzo della popolazione ungherese.

Un’altra divisione ebbe luogo nella prima metà del XVI secolo. Per effetto dell’avanzata ottomana nei Balcani, l’Ungheria si trovò stretta fra l’Austria e l’Impero ottomano, cosicché per un secolo e mezzo una parte del territorio ungherese andò a far parte dell’Impero ottomano, mentre un’altra parte, la cosiddetta “Ungheria regia”, fu inglobata entro i confini austriaci.

Il principato di Transilvania salvaguardò la sua autonomia come Stato cuscinetto fra i due Imperi, però conobbe la lotta intestina fra kuruc e labanc, cioè tra la fazione filoottomana e quella filoaustriaca.

Nella prima metà del Novecento la contrapposizione fra le idee conservatrici e tradizionaliste e quelle liberali e progressiste fu vissuta, nuovamente, come un contrasto fra l’Oriente e l’Occidente. È significativo che a rappresentare tale contrasto furono due importanti riviste culturali intitolate rispettivamente “Napkelet” (Oriente) e “Nyugat” (Occidente).

Sul piano politico, si contrapponevano correnti nazionaliste e correnti occidentaliste.

Le prime idealizzavano spesso l’epoca leggendaria della vita nomade e seminomade vissuta dai Magiari nelle steppe orientali.

Le correnti occidentaliste, se erano conservatrici, guardavano all’Inghilterra monarchica; se erano liberali, guardavano alla Francia repubblicana.

Una “terza via” fu rappresentata dal nazionalsocialismo crocefrecciato, che propose una visione geopolitica basata sull’idea del grande spazio europeo, all’interno del quale gli Ungheresi sarebbero stati il popolo guida dello spazio vitale centrale, nel carpato-danubiano.

Nella seconda metà del Novecento, per effetto della spartizione dell’Europa l’Ungheria diventò un “Paese dell’Est”, in quanto entrò a far parte del blocco eurasiatico compreso fra Berlino Est e Vladivostok.

Nel 1989, entrando nell’area egemonizzata dagli Stati Uniti d’America, adottando un ordinamento democratico parlamentare e un sistema capitalista, l’Ungheria è diventata un paese occidentale, anzi, è diventata addirittura un paese atlantico, nonostante si tratti di un paese privo di ogni sbocco sul mare.

Oggi questo Paese occidentale ed “atlantico” vive una profonda tensione nei confronti dell’Unione Europea.

Ecco allora che, se da una parte torna a farsi sentire il richiamo dell’Oriente, dall’altra l’Ungheria è tentata di schierarsi con l’Estremo Occidente, sostenendo la politica antieuropea dell’Amministrazione statunitense.


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