Vasile Lovinescu, Rex absconditus, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012

Ben pochi conoscono l’opera di Vasile Lovinescu (Falticeni 17 dicembre 1905 – Falticeni 14 luglio 1984). Semisconosciuto in patria, paradossalmente, le sue opere risultano più facilmente reperibili in Italia grazie all’attento lavoro svolto da Claudio Mutti e dalla casa editrice Edizioni all’insegna del Veltro, che ha voluto inserire tra le sue pubblicazioni questo breve saggio. Qui Lovinescu porta all’attenzione del lettore la versione romena di un mito comune a diverse tradizioni dell’Eurasia: quello dell’eroe o del sovrano che, ritenuto morto, sarebbe invece occultato in qualche luogo recondito, in attesa di una sua nuova manifestazione al termine di questo ciclo d’umanità.

Profondamente innamorato della sua patria, Lovinescu spese tutta la sua vita nello studio delle sue tradizioni e del suo folklore, nella piena consapevolezza che in questi ambiti un ricercatore deve essere allo stesso tempo, secondo quanto sostenuto da Ananda K. Coomaraswamy, un teologo ed un metafisico.

Nacque da ciò la sua attiva adesione (di cui mai si pentì) al Movimento Legionario, da lui sempre considerato come l’espressione più profonda dell’anima romena e come l’unico reale sostegno per un’azione di restaurazione tradizionale in una Romania in cui iniziavano a germinare ideologie politiche democratiche e liberali, per le quali il tradizionalista di Falticeni nutriva una profonda repulsione.

Dopo tutto, tra gli anni Trenta e Quaranta del XX secolo il Paese carpatico conobbe una sorta di variante della Konservative Revolution tedesca, i cui esponenti, desiderosi di arrivare ad una vera e propria “trasfigurazione della Romania”, aderirono in larga parte al movimento legionario. E, di fatto, l’opera di questo “contemplatore solitario” fu sempre rivolta al tentativo di restituire alla Romania la sua dimensione sacra, recuperandone il ruolo e la collocazione nella dimensione eurasiatica di raccordo tra Oriente ed Occidente[1].

Proprio nella seconda metà degli anni Trenta, Lovinescu pubblicò sui guenoniani “Ètudes Traditionnelles” una serie di articoli dal titolo La Dacia iperborea (anch’essi pubblicati col medesimo titolo dalle Edizioni all’insegna del Veltro) sotto lo pseudonimo di Geticus. Attraverso quest’opera di ierostoria e geografia sacra romena, Lovinescu individuò nel territorio dacico una stazione cruciale della primordiale migrazione iperborea.

Il ben più famoso connazionale Mircea Eliade a tal proposito riconobbe come “i miti ed i simboli del folklore romeno affondassero le radici in un universo di valori spirituali che esisteva ben prima l’apparizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente e del Mediterraneo”[2]. Lo stesso René Guénon, (vero e proprio ispiratore del lavoro di Lovinescu, che entrò pure lui in Islam col nome di Abd al-Qader Isa sotto l’egida di Titus Burckhardt e Frithjof Schuon) confermò che “quando una forma tradizionale è sul punto di estinguersi, i suoi ultimi rappresentanti possono benissimo affidare volontariamente alla memoria collettiva ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto”[3].

Un altro scrittore romeno, Mircea Tamas, ritrovare nella regione carpatica, ed in particolar modo in quella Transilvania alla quale le forme controiniziatiche occidentali attribuirono una diffamatoria immagine tenebrosa, i segni della presenza di un centro spirituale. proiezione secondaria di Agarttha.

Lungo l’arco orientale dei Carpazi si insediò il popolo di lingua ungherese dei Székely (Siculi, Ciculi o Secleri) che fa risalire le proprie origini alla migrazione degli Unni verso Occidente. Questa piccola frazione del popolo nomade rimasta sul suolo europeo ha continuato per secoli a nutrire la speranza in un futuro ritorno del principe Csaba, il più giovane dei figli di Attila, il re unno protagonista del mito del Gladius Dei (la Spada di Dio, il cui ritrovamento e possesso è auspicio di vittoria e sovranità universali)[4]. “Su un’aspra via, per una notte oscura, – chissà il destino dove ci porterà. – Guida ancora la tua gente alla vittoria, – principe Csaba sul sentier celeste”[5]. Così cantano i primi versi del Székely Himmusz (l’Inno Székely). Così Csaba entra nel novero di quelle figure eroiche il cui occultamento, preludio al ritorno futuro ed alla redenzione finale, rappresenta non solo un sottrarsi al destino di un mondo pervaso dal male, ma anche il passaggio ad una condizione di immortalità; alla sfera dell’intangibilità che, in quanto sovramondo, è principio e vita vera.

“Dicono le tradizioni che, in un periodo di oscuramento ciclico, certe funzioni spirituali centrali, la cui durata perpetua nel corso dei secoli, non fanno altro che rispecchiare l’eternità dei principi che esse rappresentano […] Queste si occultano senza estinguersi conciliando così simbolicamente il mistero e l’atto di presenza”[6].

Questo è il tema alla base dell’opera di Lovinescu che riconosce in Stefano il Grande (1433-1504), Voivoda di Moldavia, una di queste figure partecipi al contempo dell’umano e del divino alla pari di Alessandro Magno, Artù, Carlo Magno, Federico I e Federico II Hohenstaufen o Muhammad al-Mahdi nella tradizione islamica della Scia duodecimana.

Lovinescu, che fu anche un attento studioso della funzione imperiale come sintesi tra autorità spirituale e potere politico, era ben conscio del fatto che il mito dell’occultamento dell’eroe-sovrano  impregna per intero l’Esser-ci di un particolare ethnos. “Nella vita e nella continuità di un popolo, l’elemento più positivo, più benefico, più risanatore è dato dalla presenza – nel suo centro occulto e mitico, ma altrettanto reale – di un personaggio archetipico del quale si dice che non è morto e che, nascosto, soffre e prospera insieme col popolo, ne riunisce in un fuoco quintessenziale tutte le possibilità latenti, ne sublima le sofferenze e ne melancolizza le gioie trovando tra sole e luna il luogo dell’astro del mattino”[7].

Di fatto, afferma Lovinescu, il mito del monarca nascosto “è il germe, il bocciolo prototipico che sta nel profondo del cuore e attende di fiorire […] E attualizzare il re nascosto dentro di noi significa avvicinare la sua rivelazione, sigillo di un ciclo storico, e con essa la liberazione del mondo”[8].

A tal proposito occorre fare una breve precisazione sull’occultamento dell’Imam Muhammad al-Mahdi: il Signore del Tempo (Sahib al-Zaman), che tanta importanza ricopre nella tradizione islamica sciita duodecimana. Il grande iranista Henry Corbin ha spesso interpretato siffatto occultamento come uno stato intermedio tra questo mondo e l’altro. Un’interpretazione che appartiene solo ad alcune scuole minoritarie dell’Islam sciita (in particolar modo la scuola Shaykhi ed al suo ramo detto di “Kerman”). La maggior parte dei fedeli sciiti ritiene invece che l’Imam viva come hanno vissuto prima di lui i suoi padri ed il Profeta Muhammad, con la sola differenza che   egli rimane in incognito. Tuttavia, rimane possibile incontrarlo in carne ed ossa e comunicare con Lui in modo da prepararne la Parusia[9]. Questa è l’essenza del concetto di Mahdaviat che rimane a fondamento della Rivoluzione islamica, guidata in Iran dall’Imam Khomeini[10].

Per usare un’espressione di Lovinescu, nel caso sciita l’Imam occulto rappresenta “il Principio che permette la relativizzazione degli elementi eterni in una collettività tradizionale e nazionale a condizione però che quest’ultima – come è stato possibile in Iran attraverso l’evento rivoluzionario – riconosca l’universalità metafisica che si nasconde dietro a tale relativizzazione”[11].

Appare evidente che nel mondo occidentale, in cui l’uomo si è comodamente installato su un “cimitero di concetti”, una simile operazione risulta irta di ostacoli e necessita di un radicale sovvertimento dei paradigmi filosofici posti a fondamento della società. Per questo il tradizionalista romeno agì nel corso di tutta la sua vita, dirigendo circoli esoterici anche nel periodo comunista.

Per Lovinescu il monarca nascosto e con esso la figura tradizionale del Re del mondo rappresentano l’archetipo dell’uomo considerato specificamente come essere pensante. Esistono taluni archetipi particolari e Stefano il Grande, in questo senso, incarna specificamente l’archetipo romeno.

L’opera di ricerca di Lovinescu inizia dall’analisi di una icona del 1651 (forse eseguita su precisa indicazione di alcuni membri di un’organizzazione iniziatica) ritraente l’Arcangelo Michele e attualmente custodita nel museo del monastero di Varatec.

L’Arcangelo, “divino custode del paese” come recita l’iscrizione sulla parte alta dell’icona, è raffigurato con la spada sguainata sulla mano destra, mentre la sinistra, rivolta in basso, tiene il fodero vuoto “facendo il gesto dell’androgine ermetico”.

Il Corpus Hermeticum a tal proposito recita: “L’intelletto divino, cioè il sommo Dio, essendo di natura maschile e femminile, vita e luce al tempo stesso, generò mediante il Logos un intelletto demiurgo che essendo Dio del fuoco e dell’etere, creò sette ministri i quali racchiudono in cerchi il mondo sensibile”[12].

La concezione di Dio come dotato di doppia natura è connessa all’idea secondo la quale la natura propria e peculiare della divinità è il generare. I sette ministri sono invece i sette pianeti il cui dominio è il Fato. Questi, a loro volta, come ricorda Julius Evola, si ricollegano alle sette sfere ruotanti rette dalle figlie della necessità della Ruota del Fato[13].

Ora, ciò significa che Michele (il cui nome Mi-ka-el altro non significa che “colui che è come Dio”) rappresenta il Principio che ha in sé la coincidentia oppositorum. Egli rappresenta un centro spirituale tradizionale legato alla figura del Re del mondo e, toccando la terra con i suoi piedi, è al contempo Axis Mundi. Il punto in cui poggia con i piedi è necessariamente il centro del mondo: la sua specificazione su un punto geografico-spaziale. E non è un caso che tra le sue gambe divaricate e sotto i suoi piedi si trovi coricato ed avvolto in un mantello (simbolo dell’occultamento), all’interno di una cavità, un voivoda incoronato che morto e non morto allo stesso tempo mantiene gli occhi aperti pur non essendo vivo del tutto. Questa è l’immagine simbolica che rappresenta la funzione del principato moldavo che, come sottolineato da Nicolae Iorga, ricoprì un ruolo essenziale nella continuazione della tradizione bizantina. Questi stessi principi (tra i cui nomi sono da annoverare Vlad Tepes, Michele il Bravo e proprio Stefano il Grande) che amavano attribuirsi titoli propri del Basileus di Bisanzio, a seguito della conquista ottomana dei territori dell’Impero e della sua capitale, divennero i principali finanziatori della Chiesa e del monachesimo ortodossi. In particolar modo ebbero un ruolo di rilievo nel sostentamento dei monasteri del Monte Athos; il centro spirituale più importante dell’intera cristianità ortodossa[14].

L’identità del voivoda non è indicata in alcun modo nell’icona. Tuttavia, è chiaro che si tratti di Stefano il cui occultamento e valore escatologico è affermato con forza in tutte le tradizioni moldave[15]. Di fatto, nell’icona, Stefano si trova in posizione passiva rispetto a Michele (il Principio) che è totalmente attivo. “Chi è totalmente passivo (sottomesso come nella tradizione islamica) nei riguardi del Principio, è ipso facto necessariamente attivo nei riguardi del mondo e per il ristabilimento del suo equilibrio […] In questo senso Stefano è vero uomo. Ha reintegrato il centro del mondo e recuperato lo stato di Adamo prima della caduta”[16]. Afferma ancora lo studioso romeno: “Michele è il capo della gerarchia spirituale in divinis, mentre il suo rappresentante nel nostro mondo è capo della gerarchia terrena simbolicamente localizzata in un centro supremo: Agarttha”[17].

Lovinescu fa notare inoltre come non vi sia niente di particolarmente strano nel fatto che una presenza ignorata, periferica e relativamente poco importante per la storia del mondo eserciti la funzione di “cosmocrator”. Tale situazione è tipica dell’età del ferro ed appare quasi come una condizione necessaria se si considera l’infausto destino toccato in sorte alle più importanti figure imperiali della cristianità sia occidentale che orientale: dall’avvelenamento di Arrigo VII a Costantino XI Paleologo morto difendendo Costantinopoli dagli Ottomani e che secondo alcune tradizioni, occultatosi sotto la basilica di Santa Sofia, tornerà nel momento in cui la città verrà nuovamente strappata dalle mani dei turchi.

Il mito del monarca nascosto, che tornando dall’occultamento avrebbe condotto alla spazializzazione del tempo ed alla sua definitiva scomparsa per secoli, ha soddisfatto quel bisogno di assoluto dell’uomo che la modernità ha reso incomprensibile. Tuttavia, questo può e deve rimanere il faro per quel piccolo nucleo intellettuale che secondo René Guénon potrebbe costituire l’indispensabile mediatore per riportare la mentalità generale verso le fonti della vera intellettualità.


NOTE

[1] C. Mutti, Vasile Lovinescu: La dimensione eurasiatica della Romania, su www.eurasia-rivista.com.

[2] M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan, Astrolabio Ubaldini, Roma 1975, p.  7. Si veda anche C. Mutti, Agarttha Transilvana, www.centrostudilaruna.it.

[3] R. Guènon, Le Saint Graal, “Le Voile d’Isis”, n. 170, 1934, p.48.

[4] C. Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, cap. II Flagellum Dei, Servus Dei, Effepi, Genova 2005, pp. 49-52.

[5]Ibidem.

[6] V. Lovinescu, Rex Absconditus, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, Collana Elettrolibri.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Y. C. Bonaud, Uno gnostico sconosciuto del XX secolo. Formazione e opere dell’Imam Khomeini, Il Cerchio, Rimini 2010, p. 161.

[10] Si ricordi a tal proposito come Mahmud Ahmadinejad, quando era ancora sindaco di Teheran, avesse dato ordine di costruire un grande viale per accogliere il ritorno del Mahdi o come nel 2005, appena eletto presidente, avesse stanziato 17 milioni di dollari per la restaurazione del tempio di Jamkaran, luogo di un’epifania dell’Imam occulto.

[11] Rex Absconditus, op. cit.

[12] Corpus Hermeticum, I-9.

[13] J. Evola, La tradizione ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 2006, p. 72.

[14] N. Iorga, Bisanzio dopo Bisanzio, Argo, Lecce 2017, p.  51.

[15] Rex Absconditus, op. cit.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).