L’Isis colpisce con efferati attacchi terroristici la Francia e minaccia l’Occidente intero alla vigilia del Giubileo. La Turchia abbatte un caccia russo al confine con la Siria e, pochi giorni dopo, un accordo tra Ankara e Bruxelles prevede il versamento di 3 miliardi di euro al governo turco per la gestione dei profughi siriani ed iracheni. Parte dell’accordo è la velocizzazione del processo di ingresso della Turchia nell’Unione Europea, mentre le tensioni tra Ankara e Mosca sono ormai entrate nel vortice di un crescendo. A fare da sfondo allo scenario di tensione, una sempre più fitta massa di migranti: il prodotto malato di una situazione causata dagli interessi economici, egemonici e territoriali delle Potenze occidentali e delle loro multinazionali.

Un epilogo globale
Stragi perpetrate dai terroristi dell’Isis a Parigi, rapporti tra Ankara e Mosca in un vortice ascensionale di tensione; l’equilibrio della bilancia internazionale, da un approccio euroasiatico ormai ritenuto consolidato, verso un cambio di rotta rappresentato, piuttosto, dal bisogno di stringere i rapporti con la Turchia. Che agli Stati Uniti la situazione sia sfuggita di mano è ormai una certezza. Quando negli ormai lontani anni Settanta finanziavano Al-Qaida in chiave antisovietica, “per liberare l’Afghanistan”, chi mai avrebbe pensato che quel movimento sarebbe diventato il gruppo terroristico autore del disastro delle Due Torri? Sicuramente molto tempo è passato da allora e nessuno avrebbe mai immaginato che il terrorismo sarebbe giunto alla creazione di un suo Stato. “In natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Oggi Al-Qaida non esiste più, ma abbiamo il sedicente e cosiddetto “Stato Islamico”, che, sebbene non riconosciuto e legittimato a livello internazionale, è pur sempre uno Stato territoriale, situato tra Siria ed Iraq, con le sue leggi, il suo esercito ed un proprio sistema organizzativo. Su questo sfondo drammatico emergono nuovi colpi di scena che lasciano intendere uno spostamento del fulcro di interesse dalla Russia verso attori fino ad oggi rimasti ai margini dello scacchiere geopolitico.

Prospettive future del disegno presidenzialista di Erdogan
Il 1 Novembre scorso l’AKP, il partito “Giustizia e Sviluppo” di Recep Tayyip Erdogan, ha raggiunto la maggioranza assoluta attestandosi alla guida della Turchia. In quanto capo della Repubblica turca, Erdogan sarebbe dovuto restare al di sopra dei giochi politici governativi, ma risulta essere, de facto, il reale decisore nel partito “Giustizia e Sviluppo”. Le mire interne di Erdogan riguardano, da sempre, una svolta in senso presidenzialista, con l’aumento di potere personale che da questo evento deriverebbe. Già da tempo, tuttavia, c’è chi ha parlato di Erdogan come di un sultano, per le derive autoritarie che il suo modus operandi presenta. Alle precedenti elezioni, quelle di Giugno, gli oppositori appartenenti all’Hdp, guidati da Demirtaş, si erano presentati come una vera e propria forza intenzionata contrastare il partito “Giustizia e Sviluppo”. Sebbene guardi alla politica estera col preciso intento di entrare nell’Unione Europea, per rafforzarsi internamente e sbaragliare la concorrenza politica, Erdogan ha ricercato l’appoggio dei nazionalisti turchi accentuando le sue derive anticurde. Questo approccio tattico, unito alla soppressione della stampa, ai sospetti brogli elettorali e ad una sospettata collusione con l’Isis, hanno permesso al capo effettivo dell’Akp di recuperare terreno, presentandosi come l’unico antidoto in grado di guarire e stabilizzare il Paese.

Già ad agosto Demirtaş, prima del presidente russo Vladimir Putin, aveva accusato Erdogan di collaborare in segreto con i terroristi dell’Isis. Quanto ciò sia vero, benché i sospetti siano numerosi, è da dimostrare. Sta di fatto che Erdogan si è presentato al popolo come l’unica cura possibile al virus dilagante del caos sociale e della conseguente arretratezza economica. La mossa si è rivelata vincente. La strategia dell’autore dell’Arte della guerra, Sun Tzu, è divenuta una costante dell’approccio politico di Erdogan. “Tieniti gli amici vicini e i tuoi nemici ancora più vicini” (…) “Ogni guerra si fonda sull’inganno”. Erdogan si è infatti assicurato, al contempo, sia la simpatia dei nazionalisti, osteggiando i Curdi, sia una tregua tattica attraverso un accordo con il partito dei separatisti del Kurdistan, il Pkk. Il baratto è stato da subito chiaro: presidenzialismo in cambio di autonomie territoriali.

Nonostante questo progetto abbia dovuto fare i conti con le nuove tensioni, che hanno ancora una volta polarizzato gli equilibri di Ankara, la sorte sembra stare dalla parte di Erdogan e del suo partito. L’assassinio di due militari turchi ad opera di membri del Pkk ha fatto saltare l’accordo chiave della svolta verso il sultanato democratico di stampo presidenzialista propugnato da Erdogan.

Tuttavia la ripresa della lira turca, a ritmi mai registrati nella storia del Paese, è coincisa proprio con il giorno della vittoria dell’Akp, attestandosi a 2,7 sul dollaro americano. Questo segnale di decisa ripresa sta soddisfacendo il bisogno di stabilità interna della Turchia e viene confermato dalla perentoria inclinazione europeista di Erdogan.

Gl’interessi di Erdogan in Siria
Quell’intesa che si è vista sfumare, nell’orbita della politica interna, è stata perseguita da una geniale strategia in politica estera. Nell’approccio tattico di Erdogan, infatti, rientra anche la cautela nei confronti dello “Stato islamico”, nella quale molti attori dello scenario internazionale hanno visto l’indizio di un’alleanza. Ancora una volta entra in gioco una chiara applicazione dei principi di Sun-Tzu, dal momento che, pur rappresentando lo “Stato Islamico” una minaccia reale anche per Ankara, per questa non si è ancora presentato il momento opportuno per combatterlo.

L’agenzia di intelligence Stratfor ha opinato che l’atteggiamento cauto del governo turco nei confronti dell’Isis sarebbe da attribuirsi ad una primaria esigenza di stabilità geopolitica nel Vicino Oriente, onde evitare che le fratture politiche, etniche e religiose si aggravino nel futuro. La geopolitica del Vicino Oriente vede la Turchia coinvolta nel confronto perenne tra interessi socio-culturali contrapposti di Curdi, Arabi, Assiri, Turkmeni.
Il pericolo di un imminente crescendo conflittuale tra Iran ed Arabia Saudita rischia di risucchiare la Turchia nel vortice della guerra. Ankara intende inserire la guerra allo “Stato Islamico” nell’ampiezza di un contesto di securizzazione e di avvedute politiche regionali. Secondo le recenti analisi del Washington Institute la Turchia di Erdogan ha tre obiettivi chiave in Siria: la caduta del regime di Al-Assad, ragion per cui la Turchia sostiene i ribelli siriani; il contenimento dell’influenza curda, per gestire da una posizione di forza le trattative di tregua con il partito indipendentista Pkk; infine, limitare il flusso di profughi in Turchia. Aspetto cruciale da tenere in conto è che molti dei profughi diretti in Turchia sono proprio di etnia curda e alimentano le tensioni con il governo di Ankara destabilizzando ancor di più il Paese. Fare in modo che l’influenza di questi migranti curdi sia ridotta al minimo significherebbe limitare per il Pkk un vantaggio ed un sostegno notevoli.

L’aspetto fondamentale e complesso da analizzare resta quindi quello legato alle motivazioni che hanno spinto Ankara ad agevolare il passaggio dei Peshmerga curdo-iracheni sul territorio turco, in difesa di Kobane. Quest’ultima è una città a nord della Siria, appartenente al Kurdistan siriano e agognata da mesi dalle forze dell’Isis. Essendo i Curdi sparsi per il Vicino Oriente, quelli dell’ala irachena intendono andare in soccorso delle forze curde siriane per contrastare l’Isis. Per fare ciò converrebbe loro passare attraverso la Turchia per poi scendere direttamente su Kobane. Agevolare questa traversata significherebbe per Erdogan evitare che a nord della Siria si formi un solido governo antiturco capeggiato dal Pkk e dall’altro partito curdo antiturco Pyd (Partito Siriano dei Lavoratori Curdi). Il partito del Kurdistan iracheno, il Pdk (Partito Democratico del Kurdistan in Iraq), è alleato della Turchia e ha trovato un intesa con il Pkk e il Pyd solo in chiave anti Isis, dato il comune interesse della causa curda nella regione di Kobane. Sostenere la difesa di Kobane, permettendo ai Curdi iracheni di passare per la Turchia, rappresenta per Erdogan la chiave di volta per la tregua con i Curdi del Pkk, che in questo caso si vedrebbero destabilizzati dal favore del Pdk per Ankara. Essere il motivo della vittoria della causa curda in Siria, tramite il sostegno ai Peshmerga iracheni, metterebbe Erdogan in una posizione di favore nel rapporto di forza con Pkk, che si troverebbe costretto all’intesa con il Presidente turco e in una posizione di debolezza all’interno della Turchia stessa.

La tensione tra Ankara e Mosca, le posizioni dell’Occidente e il futuro dell’Unione Eurasiatica
Il 24 Novembre 2015 un caccia russo Sukhoi-24 viene abbattuto da due F-16 turchi di Ankara. La motivazione ufficiale turca è stata la violazione dello spazio aereo da parte dei russi e la mancata risposta del loro pilota agli avvertimenti che intimavano il cambio di rotta. Putin ha parlato di “grave pugnalata alle spalle” e, di quella che era una proficua alleanza commerciale e politica, non resta ormai che un ricordo.
Sembrerebbe una coincidenza ma, nei fatti, la posizione russa cozza pesantemente con gli interessi di Erdogan in Siria. Prima di tutto Putin appoggia il governo di Assad, per cui la determinazione di neutralizzare la minaccia dell’Isis ha rappresentato un’occasione per bombardare anche i siti dei ribelli “moderati”. Anche se esiste una coalizione anti Isis, Mosca ha voluto agire per conto suo, concentrando i bombardamenti non solo sugli avamposti Isis, quanto piuttosto sulle regioni dove i ribelli anti Assad erano concentrati.

Il passaggio del caccia russo sulla Siria era una chiara minaccia ai disegni strategici di Erdogan. Il governo russo ha accusato Ankara di fare affari con i terroristi dell’Isis, ma quello che va sottolineato è l’interesse della Turchia nel controllare direttamente gli equilibri in Siria. Il pericolo che il continuo invio di caccia russi in Siria fosse rivolto a dare sostegno ai ribelli anti Assad e potesse, in qualche modo, interferire con il tacito accordo tra Erdogan e i Peshmerga curdi iracheni, è stato tale da giustificare il rischio derivante da un incidente diplomatico tra i due Paesi. Non sembra casuale, dunque l’abbattimento del caccia russo in un momento in cui un’imposizione degli interessi contrastanti russi avrebbe potuto mandare a monte il gioco di equilibri architettato da Ankara.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, non hanno perso l’occasione per appoggiare la causa turca: “il Governo turco ha pieno diritto di difendere i propri confini”, ha detto Obama. In questo senso gli interessi Usa coincidono perfettamente con gli interessi della Turchia in chiave antisiriana e antirussa. Questo scenario, unito al bisogno europeo di arginare l’immigrazione, fenomeno ormai fuori controllo, ha dato alla Turchia un enorme vantaggio in termini negoziali, rappresentato dall’appoggio statunitense e dall’accelerazione della svolta europeista.

Cosa ci guadagna l’Europa. Il ruolo di Mosca e Washington ed il potere contrattuale di Ankara.
Se internamente Erdogan ha giocato d’astuzia, oltre che sporco, attestandosi alla guida del Paese, in politica estera sta cercando di mercanteggiare con una moneta ugualmente molto preziosa: la sicurezza. Quello che chiede il popolo turco è una stabilità a 360 gradi, che sia economica e sociale; quello che chiede l’Europa intera è di fatto un controllo sull’immigrazione. Le frotte di migranti, unite alla minaccia del terrorismo, stanno di fatto diventando un mezzo di scambio vero e proprio per la causa europeista turca.

L’enorme potere che Erdogan esercita sull’Unione Europea è testimoniato da un accordo storico siglato il 29 Novembre 2015: un vertice a Bruxelles di 3 miliardi di euro tra Ue e Turchia con lo scopo di “bloccare il flusso dei rifugiati verso l’Europa”. Oltre ai 3 miliardi, da versare ad Ankara perché investa nell’ammodernamento del Paese, l’accordo prevede la liberalizzazione di migliaia di visti d’ingresso per i cittadini turchi verso l’Europa. Il fenomeno è stato di enorme impatto, soprattutto per il futuro di quello che è stato, fino ad oggi, il tanto discusso progetto di Unione Eurasiatica. La tensione tra Russia e Turchia pone i due Paesi agli antipodi; il bisogno europeo di arginare la minaccia terroristica e controllare l’immigrazione selvaggia trascinano il Vecchio Continente nelle braccia di Ankara, allontanandolo automaticamente dalla propria sfera di interessi della nella strategia internazionale.

Angela Merkel, nell’ultimo anno, ha rappresentato una posizione cuscinetto nella questione delle sanzioni alla Russia. Gli interessi commerciali ed energetici di Berlino hanno lasciato sperare, fino all’ultimo, che le sanzioni ai danni di Mosca potessero trovare una rapida soluzione. Oggi la stessa Merkel saluta il vertice di Bruxelles tra UE e Turchia come una “svolta storica”. La merce di scambio di Ankara è dunque stata più decisiva, stando a quanto i fatti dimostrano, rispetto a quella del gas russo.

In questo scenario gli Stati Uniti vedono comunque ridimensionato il loro ruolo di egemone mondiale e si trovano costretti, di volta in volta, ad assecondare quel Paese che, più di un altro, può favorire il mantenimento della loro influenza nel Vecchio Continente. Fino a poco fa si erano visti costretti ad assecondare, loro malgrado, la posizione tedesca favorevole ad una linea più morbida nei confronti della Russia. L’impopolarità delle sanzioni rischiava di relegare la potenza statunitense ai margini della politica internazionale e ad una loro significativa perdita di legittimità. L’effetto delle sanzioni alla Russia, in occasione della crisi ucraina, ha penalizzato infatti gli Stati europei, prima che la Russia. In questi giorni si è assistito ad un cambio di rotta dell’Europa intera, questa volta per interessi più legati alla sicurezza, con il risultato che a condurre il gioco non è stata Washington, ma Ankara.

Conclusioni
Negli anni Novanta, sulle macerie del muro di Berlino e sui resti della smembrata Unione Sovietica, due teorie geopolitiche si contrapponevano nei talk show e sulle testate giornalistiche di tutto il mondo. Francis Fukuyama, con la “Fine della Storia”, aveva profilato un futuro nel quale l’unico attore globale sarebbe stato rappresentato dal ruolo egemone degli Stati Uniti, trainato dalla cultura e dall’economia liberale d’Occidente. L’anno dopo, Samuel Philip Huntington scrisse un articolo sul Foreign Affairs per confutare tale tesi. Huntington prevedeva l’esplosione di contrapposti interessi sociali, culturali ed economici come conseguenza del crollo dei due blocchi. Là dove uno aveva visto prevalere definitivamente una visione ideologica sull’altra, l’altro vedeva la fine di entrambe le realtà a vantaggio di un confronto tra civiltà, contrapposte ed incompatibili, come risultato del vuoto lasciato dai due colossi americano e sovietico.

Quello che la Storia ha decretato è stato sì un ridimensionamento del potere degli Usa, ma anche un emergere di nuovi attori dalle grammatiche nettamente differenti rispetto alle logiche degli Stati moderni. Fukuyama aveva previsto che l’ordine mondiale si sarebbe polarizzato attorno ad entità parastatali, facenti capo a multinazionali e gruppi terroristici. Dinnanzi a questa situazione si sta come un pianeta nell’orbita gravitazionale di molteplici, multiformi e variegati satelliti. L’agire degli Stati, a livello internazionale, è conseguenza diretta degli interessi che tali gruppi di pressione muovono sugli equilibri mondiali. Nel nome di ideologie confessionali esasperate, i gruppi terroristici perseguono interessi economici ed egemonici ben precisi a vantaggio ora di uno Stato, ora di un altro. Le multinazionali, nell’inseguimento sconsiderato del profitto, hanno creato negli anni sacche di povertà presso vari popoli del mondo, che ora si stanno riversando oltre i confini degli Stati più ricchi per chiedere parte di quel benessere che finora è stato loro negato.

In questo contesto l’unica certezza risiede nel caos, mentre la Russia ha colto l’occasione di Jevromaidan per riproporsi sullo scenario geopolitico con una rinnovata energia di grande potenza.
La recente posizione favorevole nella quale versa la Turchia, unita agli interessi che legano Ankara all’Europa, dividendola al contempo da Mosca, potrebbe porre in discussione, ancora una volta, quelli che saranno gli sviluppi futuri in merito al ruolo geopolitico della Russia. Se nell’ultimo anno sembrava ormai consolidata la ripresa di Mosca, e certa la sua guida alla testa di un ordine eurasiatico, oggi il vertice UE-Turchia ha rimesso tutto in discussione.


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