Nel cuore di Istanbul, nel quartiere/distretto di Şişli, Donald Trump ha eretto i due grandi grattacieli a tutti noti come le Trump Towers.

Completati nel 2012 – e collegati con una galleria commerciale – gli edifici gemelli sono alti 155 metri e ospitano l’uno uffici e l’altro abitazioni di lusso; vi sono compresi 35 fra ristoranti e caffetteria, un cinema multisala e l’enoteca più grande della Turchia, con oltre 16.000 bottiglie a disposizione. Proprietario degli immobili non è Trump – anche se è ben visibile la scritta dominante Trump Towers – ma il colosso economico facente capo ad Aydın Doğan, che paga profumatamente l’utilizzazione del nome del magnate americano.

I grattacieli – da alcuni avvertiti come espressione di una spiacevole ingerenza occidentale nella Città delle Città – hanno rappresentato una significativa prima fase di confronto fra il nuovo Presidente statunitense e la Turchia.

Infatti, all’indomani delle pesanti esternazioni antiislamiche di Trump rilasciate in campagna elettorale, la reazione turca fu decisa: il direttore del centro commerciale presente nel complesso, Bülent Kural, condannava “i commenti discriminatori di Trump. Tali dichiarazioni non hanno alcun valore e sono il prodotto di una mente che non capisce l’Islam, una religione di pace». Kural aggiungeva di voler riconsiderare gli obblighi legali della proprietà nei confronti di Trump.

Si era nel dicembre 2015; sei mesi dopo lo stesso Erdoğan sottolineava che «Trump non ha alcuna tolleranza per i musulmani che vivono negli Stati Uniti. Quelli che hanno messo il suo marchio dovrebbero rimuoverlo immediatamente». L’attacco del Presidente turco comprendeva, oltre evidentemente il candidato repubblicano, il gruppo Doğan, potente nemico storico del governo a guida AKP.

Le successive (al tentato colpo di Stato del 15 luglio) dichiarazioni di Donald Trump trasformavano lo scenario da negativo in positivo: in un’intervista al New York Times egli affermava con franchezza che gli Stati Uniti non avevano il diritto di dare lezioni agli altri Paesi. “Se sarò eletto presidente – aggiungeva – non farò pressioni sulla Turchia o su altri alleati autoritari che conducono purghe sui loro avversari politici o riducono le libertà civili. Gli Stati Uniti devono risolvere i loro problemi prima di cercare di cambiare il comportamento di altri Paesi“.

Quanto a Erdoğan, “gli do grande credito per essere stato capace di ribaltare la situazione dopo il tentativo di golpe (…) Alcuni dicono che il tentativo di colpo di stato sia stato provocato ad arte, ma io non lo credo“. Soprattutto, Trump riconosceva esplicitamente in Fetullah Gülen “il capo di un’organizzazione terrorista, che da gran tempo intrattiene  rapporti finanziari e morali con la famiglia Clinton”.

Da quanto abbiamo riportato risultano gli elementi di novità ma anche la complessità e la contraddittorietà delle relazioni turco-statunitensi “in epoca Trump”.

La Turchia, respinta dall’Unione Europea anche in occasione del mortificante voto del Parlamento europeo di fine novembre – con cui veniva richiesto il congelamento delle trattative per l’ingresso di Ankara nella UE – guarda ostentatamente altrove e lontano da Bruxelles. Nel corso della settima edizione del “vertice del Bosforo” – piattaforma mirante a favorire l’intrapresa produttiva e commerciale turca nel mondo – Erdoğan ha replicato che “l’Unione Europea non rappresenta nulla di raro o introvabile (…) Non abbiamo ancora chiuso questa opzione, ma la fotografia che abbiamo di fronte non è affatto rassicurante- tutti devono sapere che disponiamo di diverse alternative, che valuteremo nel corso del nostro cammino”.

Una di queste alternative consiste in un rapporto migliore con gli Stati Uniti in seguito all’elezione di Trump. Al nuovo Presidente sono giunte le congratulazioni e l’invito a visitare la Turchia di Erdoğan, e già il figlio Eric – come riporta Hürriyet – è stato per alcuni giorni ospite ad Antalya di un uomo d’affari turco.

Rispetto all’alternativa-Clinton, con Trump è effettivamente evidente il cambio di direzione nei confronti della Turchia: la pesante ipoteca di Gülen – con tutto ciò che questa implica in termini di ingerenza “occidentale” – viene seriamente messa in discussione; il vice presidente Mike Pence ha subito auspicato un netto miglioramento delle relazioni statunitensi con Ankara, “il nostro più importante alleato dell’area”: “proprio come ai vecchi tempi” ha aggiunto; e la presenza di Michael Flynn, Consigliere per la Sicurezza nazionale scelto da Trump, sembra garantire il cambio di rotta.

Flynn, generale in pensione ed ex direttore della Defence Intelligence Agency, è un aperto sostenitore di Erdoğan e del governo turco, e si è già dichiarato favorevole all’estradizione di Gülen.

Ma proprio la sua ascesa dimostra la permanente e letale insidia rappresentata dagli Stati Uniti d’America, anche in presenza di un Presidente meno “inquadrato” come Donald Trump: si tratta infatti di un acceso e irriducibile esponente neocon (coautore con Michael Ledeen di The Field of Fight), un estremista antiislamico che definisce l’Islam come un’”ideologia politica” e un tumore da asportare. Flynn è uno dei principali, se non il principale animatore della politica violentemente antiiraniana preannunciata dallo stesso Trump, ed è sostenitore esplicito dell’opzione “cambio di regime” a Tehran.

Indipendentemente da Trump, insomma, va considerato che può cambiare la strategia delle lobbies statunitensi – lo è certamente cambiata già nel passaggio da Bush a Obama, può cambiare da Obama a Trump – ma ben difficilmente mutano gli obiettivi e i piani di egemonia globalizzata. Potremmo anche dire, sul piano dei principii fondamentali, che difficilmente verrà meno la caratterizzazione antitradizionale e antieuroasiatica connaturata al “Nuovo Mondo” americano.

La Turchia deve chiarirsi le idee e, ancora una volta, il banco di prova siriano sarà fondamentale. Qui, proprio prendendo spunto dalle positive affermazioni di Trump circa l’asserito disimpegno dalle precedenti politiche guerrafondaie promosse da Washington, il governo turco dovrà finalmente lavorare per il ristabilimento delle sovranità nazionali, contro ogni forma di terrorismo e di ingerenza fin qui sostenuta; l’accordo con i Paesi vicini – Siria, ma anche Iraq, Iran e Russia – diventa imprescindibile, e sarebbe garanzia di stabilità per l’intera area, Turchia compresa.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Aldo Braccio ha collaborato con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” fin dal primo numero ed ha pubblicato diversi articoli sul relativo sito informatico. Le sue analisi riguardano prevalentemente la Turchia ed il mondo turcofono, temi sui quali ha tenuto relazioni al Master Mattei presso l'Università di Teramo e altrove. È autore dei saggi "La norma magica" (sui rapporti fra concezione del sacro, diritto e politica nell'antica Roma) e "Turchia ponte d’Eurasia" (sul ritorno del Paese della Mezzaluna sulla scena internazionale). Ha scritto diverse prefazioni ed ha pubblicato numerosi articoli su testate italiane ed estere. Ha preso parte all’VIII Forum italo-turco di Istanbul ed è stato più volte intervistato dalla radiotelevisione iraniana.