Fonte: http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2568p036-038.xml0/france-afrique-usa-soudansecurity-business.html
Gerusalemme 05/04/2010

Vendita di armi, supporto logistico, addestramento… L’interesse dello Stato ebraico per i paesi a sud del Sahara non si può negare.
Gennaio 2009. La scena si svolge in un sontuoso ristorante sul mare di Tel Aviv.
Seduto nervosamente in un angolo del tavolo, Sternfeld Samuel consiglia la sua squadra per l’ultima volta. In poche ore, l’abile imprenditore israeliano trasformatosi in un trafficante d’armi, deve ricevere una delegazione ufficiale del
Centro Africa. Anche se lo stato ebraico non ha alcun rapporto diplomatico con Bangui, tutto è stato organizzato come una visita di stato: i ministri accolti all’aeroporto Ben-Gurion, autista, incontro con gli ufficiali dello Stato Maggiore delle IDF e ispezione dei principali siti bellici israeliani. Ogni tappa del viaggio è stata meticolosamente pianificata. A un tratto squillò il telefono di Sternfeld. Dei ribelli hanno appena attaccato un distaccamento di forze centrafricane nella regione di Ndele, al confine con il Sudan. Ci sono morti, la visita viene annullata. Duro colpo per l’uomo d’affari nominato dal Ministero della Difesa israeliano, e che aveva finanziato di sua tasca il viaggio della delegazione inviata dal Presidente François Bozizé. Per perfezionare la sua “Operazione seduzione”, Samuel Sternfeld aveva anche sollecitato il generale Amos Gilad, poi negoziatore israeliano nei colloqui con Hamas. Gilad era incaricato di inviare l’approvazione formale del suo governo e di ottenere la fiducia della delegazione dell’Africa centrale.

Fine dell’Eldorado sahariano?
Complesso da realizzare senza il sostegno di Francia, che ha sempre sostenuto militarmente le truppe di Francois Bozizé, l’accordo con Israele potrà finalmente vedere la luce del giorno. La sfida era importate per il presidente centrafricano. Di fronte alle diverse ribellioni ai confini settentrionali e orientali, il generale era stato convinto da Samuel Sternfeld della necessità di
costruire un esercito più grande della sua guardia presidenziale, composta da qualche migliaio di uomini. Bozizé vi ha visto anche l’occasione per rompere con l’oppressiva tutela francese. Per fare questo, l’industria militare israeliana era pronta a lavorare a pieno regime: droni, carri armati, armi leggere e pattugliatori della Marina erano stati proposti al regime di Bangui, così come le attrezzature audio e l’intelligence. Senza notevoli risorse finanziarie, il governo centrale aveva in programma di ricambiare lo stato ebraico con legno e diamanti.
Finora sconosciuto, questo episodio illustra la natura delle relazioni attuali tra Israele e i paesi dell’Africa sub-sahariana, almeno sul fronte della sicurezza. Informale, casuale, seguendo la priorità logica degli interessi politici ed economici. Come in molte altre regioni instabili, gli israeliani sono stati in grado di far valere la
loro esperienza militare. “Oggi, decine di aziende della sicurezza lavorano in questo continente, tutte dirette da ex ufficiali dell’esercito israeliano, ha detto il giornalista investigativo Ronen Bergman (editorialista di Yediot Aharonot). La presenza israeliana è puramente privata, è un fenomeno che risale agli anni ’70.”
All’indomani della guerra dello Yom Kippur (1973), quando la maggior parte dei paesi africani ruppe i legami con Israele, il Mossad ha deciso di sostituire i diplomatici fungendo da interlocutore dei leader africani e dei movimenti di opposizione. Isolato sulla scena internazionale, Israele cerca prima di tutto di beneficiare del loro sostegno in seno all’ONU. “E’ stato in quel
momento che imprenditori e commercianti di armi israeliani hanno fatto irruzione in Africa”, ha detto l’ex-deputata Naomi Hazan. In Liberia, Zaire, Togo e Camerun, centinaia di istruttori israeliani stanno iniziando a fornire addestramento alle guardie presidenziali e alle unità di elite. Alla fine degli anni ’70, più di un terzo delle vendite di armi israeliane avveniva nel continente nero. Ma in alcuni paesi, l’interferenza a volte è gravida di implicazioni. In Sudafrica, lo Stato ebraico è accusato di aver apertamente accettato l’apartheid e contribuito a sviluppare le armi nucleari di Pretoria. Mentre di fronte alla ribellione eritrea in Etiopia, condizione il suo appoggio militare ad Addis Abeba all’emigrazione in Israele dei Falasha, gli ebrei etiopi.
“Il crollo dell’Unione Sovietica ha cambiato la situazione, ha detto Naomi Hazan. Altri mercati si sono aperti negli Stati Uniti, India e Cina. Apportano annualmente miliardi di dollari all’industria militare israeliana. Africa non è più una priorità.”

Nigeria, Kenya, Etiopia…
Eppure nel settembre 2009, Avigdor Lieberman arrivò a confutare questa affermazione, facendo un tour dell’Africa. Ufficialmente, la visita del capo della diplomazia israeliana mirava a rafforzare la cooperazione nel settore agricolo e a proporre soluzioni relative alla depurazione delle acque. “Non c’è dubbio che più importante per l’Africa è la lotta contro la povertà e la siccità, non le armi”, ha dichiarato Haim Dibon, vicino di Lieberman. Questa visita ufficiale nascondeva, tuttavia, altre ambizioni meno confessabili. All’interno della delegazione israeliana vi era una squadra del Mossad, dei funzionari del Sibat, l’agenzia d’Israele per le esportazioni delle armi, nonché diversi funzionari delle industrie della difesa, quali le società Elbit, Soltam, Silver Shadow e Israel Aerospace Industries (IAI).
I paesi visitati da Avigdor Lieberman, dal canto loro hanno un interesse maggiore nella sicurezza. In Nigeria, il maggiore produttore di petrolio in Africa, di fronte alla ribellione nel Delta e ai conflitti tra comunità nello Stato di Plateau, la vendita di armi hanno portato 500 milioni di dollari a Israele, negli ultimi anni. In Kenya, bersaglio di diversi attentati, in passato, la cooperazione anti-terrorismo è stata a lungo evocata. Infine, in Etiopia, partner strategico dello Stato ebraico, posizionato nel Corno d’Africa al crocevia del Mar Rosso, nei pressi del Sudan e dell’Egitto, un asse in cui transitano regolarmente i carichi di armi dell’Iran per Hamas e Hezbollah.

Le attività illegali in Guinea
L’editorialista di Haaretz Yossi Melman, tuttavia, si rifiuta di credere che Israele abbia firmato il suo ritorno nel continente nero. Sostiene una dottrina più pragmatica: “In Africa, dove ci sono i soldi, ci sono armi israeliane”, esclama. L’esperto in materia di difesa, ha recentemente rivelato l’attività della ditta di sicurezza privata Global
CST in Guinea.
Nel dicembre 2008, quando il capitano Camara si auto-proclama successore del defunto presidente Lansana Conte, sapeva della diffidenza verso di lui di una parte della popolazione. Non concedendo maggiore fiducia all’esercito della Guinea, da cui proveniva, il leader della giunta decise di ricorrere ai servizi di un esperto di sicurezza che garantisse l’inquadramento della sua guardia pretoriana, i Berretti Rossi. Tramite il commerciante di diamanti israeliano Beny Steinmetz, che possiede una miniera in Guinea, Camara riceve Israel Ziv, capo della società privata Global CST. Ex comandante delle forze speciali, Ziv ha un profilo impressionante. Noto per aver addestrato l’esercito colombiano
durante la liberazione di Ingrid Betancourt, ha anche lavorato come consulente militare in Georgia nel 2008, poco prima dello scoppio della guerra in Ossezia del sud. Questi e Israel Ziv concludono un accordo che ammontava a 10 milioni. Ma l’operazione è illegale: “Ziv ha probabilmente agito senza l’approvazione del Ministero della Difesa israeliano e ha violato le regole sulle esportazioni di armi”, spiega Yossi Melman. Se il governo israeliano ha deciso di aprire un’inchiesta, il caso è ancora più imbarazzante per la Global CST, che non ha messo in discussione la sua cooperazione con Camara, dopo la sanguinosa repressione delle opposizioni, il 28 settembre 2009. “La società Global impiega ancora in Guinea esperti militari, agricoli, consulenti politici e ogni
sorta di ingegneri civili”, ha detto Yossi Melman.

Strategia d’infiltrazione
Non riuscendo a determinare una politica chiara, gli israeliani, a quanto pare, hanno optato per una strategia d’infiltrazione in Africa. Pertanto, l’aiuto militare proposto da imprese private o pubbliche è spesso solo un primo passo. Nel settembre del 2002, questa logica era al lavoro, quando il presidente ivoriano, Laurent Gbagbo, fece fronte a una offensiva dei ribelli. Deluso dal sostegno francese e alla ricerca di aiuto militare, il capo di stato ivoriano si rivolse alla sua fedele avvocatessa parigina Sylvia Maier, che lo mise in contatto con alcuni esperti israeliani. In poche settimane, Laurent Gbagbo ottenne
elicotteri, UAV tattici e materiale per la sorveglianza. Una cinquanta di esperti israeliani d’intelligence operarono poi ad Abidjan, per spiare le comunicazioni dei ribelli.
Il 6 novembre 2004, questo coinvolgimento è diventato pubblico, quando l’aviazione pro-governo ha bombardato una posizione francese a Bouake, uccidendo nove soldati dell’Operazione “Licorne”. Parigi scopre che aerei israeliani senza pilota hanno sorvolato la zona poco prima dell’attacco. La Francia ha chiesto, quindi, conto allo Stato ebraico e gli chiese di cessare la sua assistenza militare a Laurent Gbagbo. Nel frattempo, l’uomo d’affari Moshe Rothschild, il protagonista della vendita di armi alla Costa d’Avorio, ha già creato sul posto diverse aziende e avvia i progetti relativi
allo sviluppo delle infrastrutture civili. Alla fine del luglio scorso, Ehud Olmert, aveva visitato Yamoussoukro, per una visita che è rimasta più che discreta. Organizzato dall’ex ambasciatore israeliano in Costa d’Avorio, Daniel Kedem, il viaggio dell’ex primo ministro era legato a questioni di sicurezza, come ad esempio l’istituzione di uno Shin Bet ivoriano per rafforzare la sicurezza attorno Gbagbo e monitorare alcuni elementi ostili dell’esercito ivoriano. Infatti, gli israeliani, tramite la società privata Omega, addestra e fornisce sostegno alla Costa d’Avorio, cosi come alla guardia presidenziale.
“Gli israeliani sono dietro tutti i conflitti in Africa”, esclamò nell’agosto 2009 il colonnello Gheddafi, a margine di un vertice dell’Unione africana a Tripoli. La realtà è molto più sottile. Molto reattive, abituate alle crisi, le aziende israeliane sono spesso le primi ad offrire i loro servizi verso i paesi in guerra: assistenza militare, supporto logistico e armi. Con solo nove ambasciate in Africa, lo Stato ebraico è costretto a ricorrere al settore privato per esistere in questo continente.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/


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