Ieri notte, in casa mia, improvvisamente è scomparsa la connessione internet. Chiang Rai non è al confine con la Cambogia, e quel rimbombo lontano erano i tuoni, siamo nella stagione delle piogge. Quindi tutto tranquillo. Almeno qui.

Più a sud-est non sono tuoni. Oggi, sabato, la bandiera nazionale thailandese sventola di nuovo su Phu Makua nella provincia di Si Sa Ket e i soldati alzandola cantano l’inno nazionale. L’esercito thai ha respinto con successo un attacco cambogiano contro questa collina che si trova in posizione strategica sul confine: hanno tentato più tardi di riprenderla, ma senza successo. Sembra quasi la cronaca di una battaglia della guerra del Vietnam: per Hamburger hill ci hanno fatto anche un film.

Alle 8.45 di stamani, il portavoce dell’esercito thai ha ribadito che “la sovranità thailandese non sarà calpestata”. È probabile che dall’altra parte del confine il portavoce khmer abbia detto la medesima cosa.

È il terzo giorno di combattimenti tra reparti thailandesi e cambogiani in una vasta area delimitata da un confine di 817 chilometri. I primi morti civili sono stati quelli del minimarket di Kanthralak, nella provincia di Si Sa Ket, nella regione di I-san, la più colpita nei suoi centri di Buri Ram, Surin e Ubon Ratchathani.

Ho un ricordo personale di quella cittadina e di quella campagna, dignitosamente povera, con i bufali nella strada principale del villaggio, ma con una scuola efficientissima dove i bambini scorrazzavano durante la ricreazione, ed ora in un video li vedo correre, molti piangendo, verso un rifugio improvvisato.

Ieri, venerdì 25 luglio, Il primo ministro thailandese incaricato, Phumtham Wechayachai, ha dichiarato che gli scontri potrebbero degenerare in un conflitto vero e proprio e che la Cambogia si era resa colpevole di crimini di guerra bombardando siti civili anche se posti a oltre venti chilometri dal confine. La Thailandia di conseguenza, ha concluso, ha deciso di procedere alla difesa del proprio territorio, in accordo con il diritto internazionale.

Se nel corso degli anni questi scontri erano stati limitati a uno scambio di fucileria intensificatisi a partire dal 14 febbraio, ora sono comparse le artiglierie e i lanciarazzi che sparano colpendo anche obiettivi non militari.

Un’altra guerra. Il mondo sembra avere oggi una particolare propensione per le lotte armate. L’Ucraina viene imbottita di armi per farla continuare a combattere, Israele continua a bombardare chi a Gaza cerca cibo e da poco si è conclusa la battaglia del Kashmir tra India e Pakistan.

Ne suo libro The Rise and Fall of British Naval Mastery, Paul Kennedy sostiene la teoria che ogni guerra è provocata da ragioni economiche. Ha certamente ragione, ma questi conflitti asiatici, aggiungo anche quello in corso in Myanmar, non hanno una motivazione economica, anche se, certo, la terra, le risaie, le foreste che vengono contese hanno un loro valore economico. È una guerra di altri tempi, di quelle che nella vecchia Asia ricorrevano regolarmente. Una guerra di dominio, anche se si tratta, nel caso specifico di cui stiamo parlando, di una manciata di chilometri quadrati di foresta, e di prestigio. L’area contesa nella regione di I-san non ha particolare valore strategico, né vi sono attriti razziali, o giacimenti di terre più o meno rare da sfruttare. È l’antica lotta di espansione, oppure di difesa, di quanto conquistato, una lotta che ricorre come costante nella storia dell’Indocina, della Thailandia e di Burma. È, soprattutto, l’eredità che ha lasciato il colonialismo, in questo caso francese, e più a nord, nella vecchia Birmania, britannico. Questa frontiera di  818 chilometri da tempo è stata all’origine di tensioni, in quanto ambedue i regni hanno contestato le demarcazioni tracciate nel 1907 dalla Francia. La fascia di confine non era fatta solo di foreste, ma qui si trovavano luoghi di culto vecchi di secoli, alcuni dei quali oggi rivendicati dai due Paesi, che non hanno mai realizzato una zona demilitarizzata.

Confini che venivano tracciati senza tenere conto delle realtà geografiche ed etniche, che non risolvevano i problemi, ma ne creavano di nuovi. E l’area dove si sta ora combattendo è l’esempio lampante di questa ignoranza coloniale delle realtà locali, che non sono solo risaie, o villaggi, ma anche templi e luoghi di culto ancestrali. Del resto tutto è iniziato intorno agli antichi templi di Ta Moan Thom e di Preah Vihear (qui nel 2011 erano già avvenuti scontri armati), che i Thai vogliono far rientrare nel proprio territorio, ma che i Cambogiani ritengono essere parte del loro. Preah Vihear era stato riconosciuto come cambogiano  dalla Corte Internazionale di giustizia  nel 1963, ma la tensione era aumentata nel 2008 quando la Cambogia cercò di farlo inserire come un sito di valore storico-culturale da parte dell’UNESCO. Nel 2011 la Cambogia aveva nuovamente fatto appello alla CIG in relazione al tempio di  Preah Vihear, la quale deliberò a favore della Cambogia  affidandole nel 2013 il controllo dell’area adiacente al tempio. La Thailandia  non aveva accettato le conclusioni dell’arbitrato della CIG. Iniziarono le schermaglie e i primi caduti tra i militari. La Corte di giustizia non aveva però deliberato in merito alla sovranità nel cosiddetto “Triangolo di smeraldo” una regione comune di confine tra la Cambogia, la Thailandia e il Laos, dove i militari spesso si sono scontrati, ed oggi il Laos ha comunicato che proiettili thailandesi sono caduti sul suo territorio, facendo temere un ulteriore allargamento della crisi.

Ma vale la pena ammazzarsi per tutto questo? Noi occidentali, pragmaticamente, diremmo di no, ma in Oriente, questo Oriente, esiste ancora un forte sentimento religioso che alimenta quello nazionale. Alle prime sparatorie, thailandesi e cambogiani si sono messi a sventolare le loro bandiere e a cantare i loro inni: non prevalebunt. L’inno nazionale thailandese, Phleng Chat Thai recita: “Il popolo thailandese ama la pace / ma non è codardo in guerra / Non permetterà a nessuno di derubarlo della sua indipendenza / né di farlo soffrire in tirannia / Ogni Thai è pronto a versare fino all’ultima goccia del suo sangue/per la sicurezza, la libertà e il progresso del proprio Paese”.

Ma si canta anche l’Inno Reale, Sansoen Phra Barami, che esalta il Sovrano che regge le sorti della nazione, oggi Re Vajiralongkorn (il sovrano cambogiano è Re Norodom Sihamoni). Una fedeltà monarchica rinsaldata dal legame del popolo con l’ultimo sovrano Bhumibol Adulyadej il Grande. Anche la Cambogia ha avuto un ultimo re di grande spessore politico, Sihanouk, ed è logico chiedersi: se questi due sovrani fossero ancora vivi, saremmo arrivati a questo punto?

Ed è un punto di non ritorno? È questo veramente il possibile inizio di una guerra che oltrepassi la fascia di confine?

Potrebbe esserlo, in quanto, come dicevamo, il motivo più profondo non sta in qualche chilometro quadrato di risaie e foreste, ma nella riaffermazione della propria integrità nazionale, come è del resto alla radice dello scontro sul Kashmir. È la stessa logica che muove il governo centrale burmese nella lotta disperata contro le etnie che vogliono crearsi uno stato indipendente (e di etnie ce ne sono in Myanmar più di ottanta…).

Sarebbe una guerra che nessuno, al di fuori dei due contendenti, vuole. Una volta tanto le grandi potenze non ci hanno messo lo zampino, anzi, sono decisamente seccate. La Cina, che ha una presenza economica condizionante non solo in Cambogia, ma anche nel resto dell’Indocina, non vuole vedere frane nelle diramazioni della via della seta che stra costruendo su strada e ferrovia; gli Stati Uniti hanno i loro grattacapi nel Mar della Cina che li tiene impegnati altrove.

La comunità del sud-est asiatico è politicamente troppo debole per imporre una soluzione, anche se Anwar Ibrahim, il primo ministro malese presidente di turno della Association of Southeast Asian Nations (ASEAN) sta facendo del suo meglio per calmare le acque. L’ONU, si sa, parla, ma non può mettere in atto le sue chiacchiere, come dimostra il caso della Palestina. La Thailandia ha del resto detto chiaramente che non accetterà mediazione; i suoi problemi, ha aggiunto il capo del governo, se li risolve da sola, e questo corrisponde alla tradizionale politica estera siamese, che ha saputo per decenni barcamenarsi tra due imperi coloniali conservando l’indipendenza del Paese.

Ed è questa una guerra che costa, e molto, ai due contendenti. Non in termini di proiettili sparati, magari a frammentazione come la Cambogia accusa la Thailandia, o di mine sparse sul territorio, come replicano i Thai che hanno avuto alcuni soldati finiti su mine cambogiane, ma in termini innanzitutto di rifugiati (140.000 thailandesi e 38.000 cambogiani, cui si aggiungono gli immigrati che ora vengono evacuati) e di turismo che facilmente si spaventa, fonte essenziale di guadagno per i due Paesi, che temono ora di vedersi svuotare Pukhet o Angkor Wat. E naturalmente le merci tra i due contendenti ora non viaggiano più. Inoltre i cambogiani non possono passare il confine per andare a lavorare nell’edilizia e nei servizi dei thailandesi, i quali da parte loro non possono più esportare combustibili, frutta ed altri beni.

Hun Sen, il padre dell’attuale primo ministro Hun Manet (nato nel 1977, eletto nel 2023, ultimo di cinque figli, generale dell’esercito educato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il che non fa promettere bene), che ha governato la Cambogia per anni, da molti giudicato avere ancora nelle mani i fili del potere, dovrebbe saper fare bene i suoi calcoli, dopotutto da giovane aveva militato nell’Angkar, l’organizzazione politica dei Khmer rossi. E da vecchio guerrigliero sa che i kalashnikov e i razzi non sono sufficienti per vincere una guerra. La sproporzione tra i due eserciti è talmente evidente da farci dubitare del senno cambogiano (ricordiamo che questo Paese ha circa 17 milioni di abitanti, mentre la Thailandia ne ha 66; la Cambogia ha circa 360.000 militari in servizio, contro i 124.000 della Cambogia, numero che comprende le ex milizie). La Cambogia non ha praticamente né aviazione (i Thai hanno 112 aerei da combattimento e nessuno i cambogiani) né flotta. Gli F-15 thailandesi bombardano incontrastati gli obiettivi oltre confine. Anche le forze di terra non potrebbero opporsi a quelle della Thailandia, che ha un esercito moderno e ben addestrato.

E ha anche i generali. E forse i generali, da una parte e dall’altra, svolgono un ruolo non indifferente nei prodromi del conflitto. Tradizionalmente, i generali thai hanno retto le redini del Paese che, quando svirgolava verso una maldestra democrazia, veniva rimesso in riga da un colpo di stato, generalmente benevolo e indolore. Appena il primo ministro in carica, Paetongtarn Shinawatra, ha commesso l’errore di dire qualche parola critica sul comandante operativo thailandese, è stata dimessa. Il motivo è stato una telefonata, del tutto off the records come si usa fare in politica, che Shinawatra ha fatto a Hun Sen, vecchio amico di famiglia, tanto che lo ha chiamato “zio”, che in thai è forma di rispetto per l’anziano. Lo scopo era di attenuare la tensione, ma l’ex Khmer rouge ha fatto trapelare il testo della telefonata ai media (conteneva la critica da parte della Thailandese dei vertici militari responsabili della difesa del confine), causando l’indignazione dei politici thai e il conseguente congelamento della carica della Shinawatra.

Chi abbia iniziato a sparare è questione irrilevante, ambedue si accusano a vicenda, ma se proprio cerchiamo un primo sparo, questo sembra essere partito dai cambogiani, come dimostrano rilevazioni satellitari dei movimenti di truppe sul terreno.

Dall’altra parte del confine un bella guerricciola non può che rinvigorire il potere di Hun Manet, figlio d’arte e non di una inesistente democrazia.

Ma c’è un fantasma che si aggira per l’Indocina, parafrasando il buon Karl Marx, l’eredità dei Khmer rouge. Non governarono soltanto per meno di tre anni la Cambogia a partire dall’aprile 1975, non si rifugiarono per anni nelle foreste mantenendo il loro seggio alle Nazoni Unite, guarda caso grazie agli Stati Uniti, ma seminarono nella storia indocinese il ricordo del più grande genocidio della storia moderna. E forse non dispiace a Hun Sen di poter cancellare con una guerra nazional-patriottica il ricordo di quella che Angkar aveva combattuto sterminando il proprio popolo. E presto si arrivò all’inimmaginabile, con la conquista di Phnom Phen da parte di Angkar, che assurge a dio crudele e implacabile dei Khmer rouge, cui verranno immolati tanti cambogiani. Inutilmente. Perché in Cambogia, come in Vietnam, come in Laos alla fine vincerà la vecchia Indocina, che tornerà ad affiorare, prima timidamente e poi, uniformandosi al Villaggio globale, con forza, ricostruendo, purtroppo in peggio perché la modernità è al pari del comunismo una malattia che consuma e trasforma, un mondo che nessuna Rivoluzione era riuscito a distruggere nelle menti, nel cuore, nella fede religiosa di quei popoli.

Vann Nath, uno dei pochissimi sopravvissuti tra i 14.000 reclusi nel carcere di Tuol Sleng S-21, nelle sue memorie (A Cambodian Prison Portrait) ha scritto: “The chief criminals and their henchmen who were responsible for the atrocities still live comfortably and safely; nobody dares to touch them”.

Quando visitiamo questi Paesi che furono teatro della tragedia vietnamita ci colpisce la dolcezza delle sue popolazioni. Non riusciamo a riconnettere il ricordo delle crudeltà compiute durante quegli anni (tralasciamo quelle altrettanto orribili degli Statunitensi) con quei sorrisi.

Il sorriso degli indocinesi, quello che i francesi chiamarono sourire Khmer. Ne vanno famosi, ed è vero. Cammini per la strada e ti sorridono, non compri nulla al loro negozietto e ti sorridono, ti dicono che non ci sono cuccette libere sul treno e ti sorridono. Un giorno uno scooter quasi mi investì e il guidatore mi sorrideva. È il loro modo, dei contadini, dei poveri, quindi fino a pochi anni fa della grandissima parte della popolazione indocinese, di nascondere la paura che i potenti, gli invasori, i padroni destano in loro.

Al mercatino di Luang Prabang, degli studenti, sorridendo, mi hanno venduto degli oggetti fatti con il metallo delle bombe americane, che hanno riempito in Laos la Piana delle Giare. Il metallo di morte, nelle loro mani, si trasforma in graziosi souvenirs di una tragedia passata.

Mi chiedo che cosa offriranno, tra venti anni, gli studenti di Gaza.

Se esisteranno studenti di Gaza.


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