La Siria è tornata a bruciare. A sud, nella provincia di Suwayda, una spirale di violenza ha riacceso un conflitto mai del tutto sopito, trasformando tensioni settarie, fratture comunitarie e vuoti di potere in un campo di battaglia aperto. Le comunità druse, storicamente marginalizzate ma finora relativamente protette dal caos siriano, si trovano ora strette tra il fuoco incrociato delle operazioni armate del governo centrale e l’offensiva diretta di Israele, che mira a consolidare la propria influenza nel sud della Siria approfittando del vuoto di potere. La crisi locale, in apparenza circoscritta, è in realtà il riflesso di un quadro nazionale profondamente instabile: la frammentazione istituzionale, l’indebolimento delle autorità centrali e l’emergere di attori armati autonomi minano ogni prospettiva di ricomposizione statuale.
Il 13 luglio le tensioni sono esplose in scontri armati dopo il rapimento di un commerciante druso lungo l’autostrada per Damasco. L’episodio ha scatenato una spirale di sequestri e rappresaglie tra le comunità locali, trasformando rapidamente la crisi in un conflitto su larga scala che ha coinvolto anche i villaggi limitrofi. Alcuni video diffusi in rete — la cui autenticità resta da verificare — mostrano presunti combattenti drusi impegnati in azioni violente contro soldati siriani, accompagnate da slogan settari. Le immagini, se confermate, alimentano il timore di una deriva confessionale che potrebbe destabilizzare l’intero assetto istituzionale post-Assad.
In risposta alla crescente instabilità, il governo israeliano ha deciso di agire militarmente. In una dichiarazione congiunta, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Israel Katz hanno rivendicato l’attacco come una “risposta necessaria per difendere la minoranza drusa siriana”[1]. Katz ha dichiarato: “Abbiamo ordinato all’IDF di colpire forze e armamenti trasferiti nella zona di Suwayda, in violazione della politica di smilitarizzazione. Lo facciamo per proteggere i nostri fratelli drusi in Siria”.
Israele ha colpito anche postazioni militari nella provincia orientale di Daraa[2], dove si sospetta la presenza di forze ostili alla minoranza drusa. L’operazione è stata presentata come difensiva, mirata a impedire un’estensione del conflitto settario e a preservare una fascia di sicurezza lungo il confine settentrionale.
Poche ore dopo, nella notte tra il 15 e il 16 luglio, l’Aeronautica israeliana ha lanciato un attacco mirato nel cuore della capitale siriana, colpendo l’ingresso del Ministero della Difesa e il quartier generale delle forze armate. L’operazione, confermata dall’IDF, ha causato gravi danni strutturali e almeno due feriti civili[3]. Secondo fonti israeliane, si sarebbe trattato di una risposta all’intensificarsi della repressione contro la popolazione drusa a Suwayda. L’attacco rappresenta una delle più dirette e simboliche incursioni israeliane contro il potere centrale siriano negli ultimi mesi.
Il caso Suwayda: conflitto settario e instabilità istituzionale
La provincia di Suwayda, cuore storico della comunità drusa siriana, è oggi travolta da una crisi complessa che intreccia violenze settarie, collasso istituzionale e infiltrazioni gihadiste. Comunità chiusa e montana, i Drusi professano una dottrina esoterica e monoteista che, nata nel contesto dell’Islam ismailita, se ne distacca radicalmente. Al centro della loro fede vi è la divinizzazione del califfo fatimide al-Ḥākim bi-Amr Allāh, considerato una manifestazione divina sulla Terra. La loro religione, fortemente sincretica, incorpora elementi neoplatonici, gnostici e persino pitagorici, ed è riservata a una cerchia ristretta di iniziati. Proprio per la natura eterodossa della loro dottrina, la comunità ha subito nei secoli persecuzioni e marginalizzazioni da parte delle maggioranze sunnite e sciite. Negli anni di Hafez e Bashar al-Assad, i Drusi sono stati in larga misura lasciati ai margini del potere ma tollerati, in cambio di una lealtà ambigua e di un’autonomia parziale nelle loro aree. Ora, approfittando del vuoto di potere e della disgregazione delle strutture statali, gruppi gihadisti affiliati all’ISIS e milizie beduine legate a Hayat Tahrir al-Sham si sarebbero infiltrati nella regione, contribuendo all’intensificazione del conflitto. Il risultato è una guerra a più livelli: tra gruppi armati rivali, tra comunità locali e lo Stato centrale, e tra influenze regionali in competizione per il controllo del territorio.
Le autorità religiose druse, con in testa lo sheikh Hikmat al-Hijri, hanno denunciato l’inerzia del governo centrale e accusato Damasco di sostenere “bande takfiri”, invocando protezione internazionale[4]. In risposta, l’esercito siriano ha circondato la provincia e lanciato operazioni militari pesanti, colpendo anche obiettivi civili, secondo quanto riferito dal Ministero dell’Interno.
Nel frattempo, si è definitivamente incrinato anche il precario equilibrio costruito negli anni precedenti tra il potere centrale e i rappresentanti locali drusi. Gli accordi che avevano permesso la creazione di milizie di autodifesa costituite da abitanti del posto sono stati sospesi, lasciando spazio a una nuova fase di disgregazione. L’arrivo di combattenti esterni e la paralisi delle istituzioni hanno spinto la popolazione ad organizzarsi in gruppi armati indipendenti, facendo precipitare la situazione verso il crollo dell’ordine civile e la diffusione del conflitto oltre i confini regionali.
In questo scenario di instabilità crescente, gli Stati Uniti hanno mediato un cessate il fuoco ufficiale tra Israele e Siria, annunciato pubblicamente dal presidente ad interim Ahmed al‑Sharaa e accolto positivamente da Tel Aviv. Tuttavia, sul terreno la tregua si è rivelata inefficace. Gli scontri tra milizie beduine e combattenti drusi sono proseguiti con rinnovata violenza. Lo stesso al‑Sharaa ha alimentato la controversia elogiando pubblicamente i “nobili valori” delle milizie beduine, nonostante le gravi accuse di crimini contro la popolazione drusa.
Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, solo nell’ultima settimana le vittime sarebbero quasi mille: 406 abitanti di Suwayda — di cui 80 civili — 330 combattenti delle forze governative, molti dei quali ex miliziani gihadisti, 18 funzionari statali uccisi nelle incursioni israeliane, e 182 civili — comprese donne e bambini — uccisi da forze lealiste. A queste si aggiungono tre membri delle tribù beduine, tra cui una donna e un bambino, uccisi da combattenti drusi[5].
Nel frattempo, sulle Alture del Golan — la linea di confine tra la Siria e il territorio occupato da Israele dal 1967 — si registra un’attività militare intensa. Veicoli corazzati israeliani e cittadini drusi provenienti da Israele attraversano regolarmente la zona per prestare soccorso ai propri familiari coinvolti nel conflitto. In un simile contesto, Israele potrebbe cercare di approfittare del caos per consolidare il proprio controllo strategico e avviare una definitiva annessione del Golan.
La “dottrina della periferia” e la strategia israeliana della frammentazione
Ben oltre la retorica della protezione delle minoranze, l’intervento israeliano in Siria meridionale si inserisce in una più ampia e storicizzata strategia di controllo e frammentazione regionale. Fin dai primi anni della sua esistenza, Israele ha dovuto confrontarsi con l’ostilità di un ambiente arabo compatto, ostile alla sua legittimità. In questo contesto nacque, negli anni Cinquanta, la cosiddetta “dottrina della periferia”, formulata dai vertici militari e diplomatici israeliani per aggirare l’isolamento regionale. Essa prevedeva la costruzione di alleanze strategiche con potenze non arabe (Iran, Turchia, Etiopia) e il sostegno a minoranze interne agli Stati arabi – curdi, cristiani maroniti, drusi – come leva per indebolire la coesione dei nemici circostanti[6].
Questa dottrina non si è mai esaurita, ma si è trasformata nel tempo, adattandosi ai mutamenti geopolitici. Con la progressiva frammentazione dell’Iraq, della Siria e del Libano, e la moltiplicazione degli attori substatali armati, la strategia israeliana si è evoluta in una forma più esplicitamente interventista e destabilizzante. Israele ha imparato a navigare nel caos, utilizzandolo come ambiente operativo favorevole alla propria superiorità tecnologica e militare, in un contesto privo di forze statali solide capaci di minacciarne l’egemonia.
Un punto di riferimento chiave in questa visione è il cosiddetto Piano Yinon, un documento strategico pubblicato nel 1982 sulla rivista “Kivunim”, attribuito a Oded Yinon, ex funzionario del ministero degli Esteri israeliano. Il piano suggeriva che, per garantire la sopravvivenza e il dominio di Israele nel lungo termine, fosse necessario favorire la disgregazione degli Stati arabi in entità settarie e tribali più deboli e facilmente controllabili. Iraq, Siria, Libano, Egitto e persino la penisola arabica venivano rappresentati come potenziali bersagli di una disintegrazione utile a Israele. Sebbene mai adottato ufficialmente, il piano è diventato negli anni un riferimento implicito nelle analisi critiche delle politiche regionali israeliane.
L’attuale crisi a Suwayda si inserisce perfettamente in questo schema. L’instabilità innescata da tensioni settarie e dallo scontro tra gruppi drusi e milizie beduine consente a Israele non solo di giustificare un’azione militare presentata come difensiva, ma anche di consolidare la propria influenza in una fascia di territorio adiacente al Golan, formalmente siriana ma già de facto sotto monitoraggio e pressione israeliana costante.
L’intervento militare a Suwayda e, più recentemente, i bombardamenti contro il Ministero della Difesa a Damasco, non possono essere letti come episodi isolati. Essi rientrano in una strategia più ampia che mira a creare una zona cuscinetto militarmente e politicamente “sterilizzata” tra Israele e la Siria. Come avvenuto nel Libano meridionale durante le operazioni negli anni Ottanta e Novanta, la sicurezza è utilizzata come giustificazione per una presenza armata prolungata e per un’influenza politica indiretta, che si estende anche ai piani di ricostruzione economica e alla gestione dei flussi umanitari.
Non si tratta più solo di prevenire instabilità ai propri confini o contenere potenziali forze ostili nell’area, ma di plasmare attivamente l’ordine regionale post-Assad, selezionando attori locali compatibili con gli interessi israeliani e bloccando ogni tentativo di restaurazione statuale che escluda Tel Aviv dai futuri assetti di sicurezza siriani. In questo senso, l’attuale campagna militare rappresenta l’applicazione aggiornata della “dottrina della periferia”, orientata non più solo all’alleanza con l’esterno ma all’ingegneria interna dello spazio arabo.
Oltre le apparenze: instabilità controllata e strategia israeliana
Quando si osserva la Siria post-Assad, il quadro risulta più complesso di quanto sembri a prima vista. Il governo di Ahmad al‑Sharaa — espressione della ristrutturazione dell’ex gruppo gihadista HTS — gode oggi del sostegno di Washington e di diverse capitali occidentali. La revoca delle sanzioni statunitensi e la riapertura delle ambasciate attestano un processo di normalizzazione apparentemente inarrestabile[7].
In parallelo, sono stati avviati colloqui riservati con Israele, come confermato da fonti diplomatiche e servizi d’informazione mediorientali: incontri ad Abu Dhabi tra al‑Sharaa e il consigliere israeliano per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi hanno suggerito la possibilità concreta di una futura adesione siriana agli Accordi di Abramo[8]. Anche Donald Trump ha dichiarato pubblicamente di aver rimosso le sanzioni “su richiesta di molti Paesi, incluso Netanyahu”[9].
Secondo ulteriori fonti, si starebbe persino preparando un incontro ufficiale tra Netanyahu e al‑Sharaa a margine della prossima Assemblea Generale dell’ONU a New York[10]. Se confermato, rappresenterebbe un evento storico: Siria e Israele sono formalmente in guerra dal 1948 e non hanno mai avuto relazioni diplomatiche. La convergenza tattica su dossier sensibili come la lotta a Hezbollah, Hamas e l’influenza iraniana starebbe favorendo un riavvicinamento che solo pochi mesi fa sembrava impensabile.
Tuttavia, l’accelerazione delle incursioni israeliane contro infrastrutture militari e civili siriane solleva forti dubbi. Perché Israele colpisce duramente un governo che si dichiara pronto al dialogo e alla stabilizzazione? La risposta è meno contraddittoria di quanto appaia.
Per Tel Aviv, una Siria realmente normalizzata, sovrana e reintegrata nel sistema regionale rappresenta una minaccia strategica ben più seria di un regime caotico ma controllabile. Uno Stato siriano ricostruito, con un esercito funzionante e capacità diplomatiche autonome, rimetterebbe in discussione il dominio israeliano nel Levante. Peggio ancora, potrebbe riaprire il dossier del Golan. Una Siria debole e divisa, al contrario, permette a Israele di intervenire militarmente senza costi politici, di legittimare zone cuscinetto e di negoziare con attori frammentati, ognuno dei quali privo di legittimità piena.
Il ruolo che Israele sembra voler assegnare ad Ahmed al‑Sharaa non è quello di un interlocutore sovrano, ma quello di un gestore provvisorio di una porzione ridotta di territorio, utile a fungere da cintura di contenimento rispetto alla presenza iraniana nella regione. L’idea che va delineandosi è quella di una Siria amputata della sua fascia costiera alawita, del nord-est curdo e del sud druso, trasformata in uno Stato sunnita fragile, parzialmente riconosciuto, economicamente dipendente e incapace di avanzare pretese territoriali o strategiche. In questo schema, noto in ambienti strategici come il cosiddetto “Corridoio di Davide”, la frammentazione del territorio siriano assume un valore geopolitico funzionale all’equilibrio desiderato da Israele: uno spazio cuscinetto permanente, svuotato di autonomia decisionale.
Tuttavia, è proprio questa visione riduttiva del ruolo della Siria nello scacchiere regionale a suscitare crescente allarme all’interno del paese. Molti cittadini siriani temono che una normalizzazione con Israele, perseguita senza garanzie reali di sovranità e giustizia, possa non solo consolidare la frammentazione attuale, ma addirittura riaccendere il conflitto su nuove linee di frattura. Il malcontento si alimenta di una sensazione diffusa: che il futuro della Siria venga negoziato da potenze esterne secondo interessi strategici estranei alla volontà popolare. Il rischio percepito è quello di una Siria svuotata, funzionale solo a contenere l’Iran, a isolare Hezbollah e a interrompere ogni continuità territoriale con la resistenza palestinese. In questo scenario, l’eventuale apertura diplomatica con Israele non viene vissuta come un passo verso la stabilità, ma come una deriva imposta dall’alto, in un contesto in cui la guerra a Gaza continua e l’occupazione del Golan non è mai stata rimessa in discussione. In molti ambienti siriani cresce il timore che dietro la retorica della stabilità si celi il vero costo della normalizzazione: la rinuncia alla sovranità e alla dignità nazionale.[11]
NOTE
[1] “Netanyahu confirms IDF strikes on Syrian forces to prevent harm to Druze”, Times of Israel, 14 luglio 2025 – https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/netanyahu-confirms-idf-strikes-on-syrian-forces-to-prevent-harm-to-druze/
[2] “Israel strikes Syrian military positions after Sweida clashes”, Arab News, 16 luglio 2025 – https://www.arabnews.com/node/2594034/middle-east
[3] “Israel strikes Syrian military targets in Damascus”, Financial Times, 16 luglio 2025 – https://www.ft.com/content/4305ea3a-09b6-4cef-8b04-99f1eb6106ce
[4] “Top Syrian Druze leader calls for international protection”, Middle East Eye, 14 luglio 2025 – https://www.middleeasteye.net/news/syria-sweida-scores-killed-clashes-between-druze-militias-bedouin-tribes
[5] “A Suweida la tregua non regge, quasi mille morti in una settimana”, il manifesto, 20 luglio 2025 – https://ilmanifesto.it/a-suweida-la-tregua-non-regge-quasi-mille-morti-in-una-settimana
[6] “Israel’s doctrine of hegemony and its fatal flaw”, Middle East Eye, 17 luglio 2025 – https://www.middleeasteye.net/opinion/damascus-gaza-israels-doctrine-hegemony-fatal-flaw
[7] “US ends foreign terrorist designation Syria’s HTS”, Reuters, 7 luglio 2025 – https://www.reuters.com/world/middle-east/us-ends-foreign-terrorist-designation-syrias-hts-2025-07-07/
[8] “Israel’s National Security Advisor reportedly met Syria’s al-Sharaa in UAE”, i24News, 8 luglio 2025 – https://www.i24news.tv/en/news/middle-east/levant-turkey/artc-israel-s-national-security-advisor-reportedly-met-syria-s-al-sharaa-in-uae
[9] “Trump: Sanctions lifted on Syria at Netanyahu’s request”, Times of Israel, 9 luglio 2025 – https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/trump-claims-syria-sanctions-were-removed-at-netanyahus-request-pm-hails-us-talks-with-damascus/
[10] “Syria-Israel meeting under consideration during upcoming UN summit”, Shafaq News, 12 luglio 2025 – https://www.shafaq.com/en/Middle-East/Syria-Israel-meeting-under-consideration-during-upcoming-UN-summit
[11] “Syrians fear Israel normalisation could plunge country back into war”, Middle East Eye, 9 luglio 2025 – https://www.middleeasteye.net/live-blog/live-blog-update/syrians-fear-israel-normalisation-could-plunge-country-back-war
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