Il nostro redattore Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e saggista (autore de La sfida totale e co-autore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe), negli ultimi giorni è stato invitato a commentare la crisi del debito pubblico italiano presso la rete televisiva Class CNBC e quella radiofonica Radio Italia (IRIB). Riportiamo di seguito le trascrizioni d’entrambi i suoi interventi.

 

Scalea ha partecipato su Class CNBC alla trasmissione “Il debito dell’Europa”, condotta da Francesco Guidara e trasmessa in diretta alle ore 16.10 di oggi, martedì 23 agosto. Ospite in studio Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, collegato telefonicamente Giorgio Benvenuto, ex segretario del PSI e presidente della Fondazione Bruno Buozzi.

Intervenendo in collegamento telefonico, Daniele Scalea ha dichiarato:

 

Vi sono due prospettive da cui è possibile osservare la questione delle privatizzazioni: una economico-finanziaria, ed è quella finora adottata nel dibattito; l’altra strategica. Per ragioni di competenza (e speculare incompetenza) io mi concentrerò su quest’ultima, ma non posso esimermi da una breve incursione nel dominio dell’economia. Dimostrando che le privatizzazioni non possono avere un effetto salvifico rispetto al problema del debito, si rafforza le liceità dell’approccio strategico.

Bene: prendiamo il caso dell’Italia stessa. Nel 1980, data che possiamo convenzionalmente assumere come inizio delle privatizzazioni, il rapporto debito pubblico / PIL era al 55%. Nel 1991, ultimo anno dell’ultimo governo Andreotti, il rapporto è al 98%. Si è alla vigilia della stagione dei governi tecnici e del grande ciclo di privatizzazioni. Ma nei vent’anni seguenti, il rapporto debito/PIL raggiunge il massimo nel 1994, col 121,8%, e come minimo non scende al di sotto del 103,6% del 2007, chiudendo il 2010 al 119%. La situazione del debito è dunque peggiorata, dal 1991 ad oggi, malgrado un decennio almeno di privatizzazioni.

L’Istituto Bruno Leoni ha individuato 20 società di proprietà pubblica o a partecipazione statale da dismettere, prevedendo un incasso pari a 102 miliardi. Questa cifra rappresenta solo una frazione del debito pubblico italiano, poco più del 5%.

Lungi da un’opposizione di principio alle privatizzazioni, bisogna però chiedersi se, per ottenere risultati tanto limitati, valga la pena rinunciare ad imprese strategiche come l’ENI – che cura l’approvvigionamento energetico d’un paese come l’Italia che di risorse energetiche è drammaticamente privo – come Finmeccanica – azienda di rilievo internazionale nella produzione d’armamenti – e come le Poste – che nell’ultimo periodo hanno cominciato ad operare nella collezione del risparmio. Lo stesso Luca Cordero di Montezemolo (non certo sospettabile d’ostilità verso il liberalismo) in una recente intervista al “Corriere della Sera” ha auspicato la privatizzazione ma delle “industrie non strategiche”.

 

L’intervista con l’IRIB è stata realizzata alcuni giorni fa, e può essere ascoltata tramite l’oggetto audio in questa pagina. Eccone la trascrizione integrale:

 

Signor Scalea, come giudica la situazione economica italiana?

 

Direi che si debba innanzi tutto distinguere tra la situazione economica e quella finanziaria. L’Italia rimane ancora uno dei primi paesi al mondo per quanto riguarda il prodotto interno lordo, malgrado il declino degli ultimi decenni. La situazione finanziaria, del debito pubblico, è invece molto più grave. Il quadro generale è dunque piuttosto negativo, anche perché l’Italia negli ultimi decenni ha affrontato un processo di finanziarizzazione e deindustrializzazione che ne ha minato la base produttiva, per quanto continui a difendersi quello che negli ultimi quarant’anni ha rappresentato il nerbo dell’economia italiana, ossia la piccola e media impresa. Ma la situazione più grave è nelle casse pubbliche, per un debito che si è creato fin dagli anni ’70. Esso è nato in concomitanza con le riforme, che erano dovute per creare uno Stato sociale in linea con quello degli altri paesi europei, ma che in Italia ha visto probabilmente eccedere negl’investimenti non produttivi e negli sprechi. Queste riforme hanno coinciso con la fine del “miracolo economico”, quindi il rallentamento della capacità dell’industria d’assorbire la manodopera, crescente in una fase di incremento demografico. Perciò, nel quadro della creazione dello Stato sociale si è teso a costruire un apparato burocratico più ampio di quello di cui effettivamente aveva bisogno l’Italia, pur di assorbire la disoccupazione anche in maniera non produttiva.

Sono già state fatte delle riforme per diminuire il numero d’impiegati pubblici: rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, l’Italia oggi ha meno dipendenti statali in rapporto alla popolazione. Ma di sicuro il problema italiano sta anche nella qualità e nell’efficienza: al di là del numero d’impiegati, sovente gl’investimenti – soprattutto statali – non hanno un ritorno accettabile e tendono a consumarsi nello spreco.

Il problema fondamentale dell’economia italiana risiede dunque in questo: che l’Italia assorbisca una parte cospicua della ricchezza nazionale tramite le tasse, ma una grossa fetta del denaro così raccolto, anziché essere tramutato in servizi per la popolazione e per le imprese ed in investimenti produttivi (ad esempio per le infrastrutture), va ad alimentare un “sottobosco” di sperpero formato da una classe politica elefantiaca, probabilmente anche un certo numero di dipendenti pubblici in esubero, e sicuramente finanziamenti a pioggia e non troppo cristallini ad una miriade di enti non sempre di chiara utilità.

 

Secondo lei il Governo ha fatto dei passi verso il miglioramento di questa situazione?

 

Alcune misure sono probabilmente incoraggianti: ad esempio una prima diminuzione di “poltrone” politiche tramite il taglio della province e l’accorpamento di comuni. Va però notato che si parla di un intervento molto limitato: lungi dall’abolire tutte le province, come si prometteva pochi anni fa, oggi in una situazione di maggiore emergenza se n’è tagliata solo qualcuna.

Un altro problema della manovra finanziaria è quello che – forse per la fretta con cui è stata realizzata – prevede tagli salomonici, basandosi su criteri puramente quantitativi e non qualitativi. Una delle regioni più colpite dalla soppressione di province e comuni è il Piemonte, che pure ha un numero di dipendenti regionali molto inferiore ad altri regioni, come la Sicilia, che però sono risparmiate dai tagli pur essendosi distinte per lo sperpero di denaro pubblico.

La stessa logica del non distinguere tra “virtuoso” e “vizioso” soggiace alla scelta di rinunciare alla patrimoniale per imporre una sovrattassa oltre un certo reddito: si colpisce chi già paga le tasse risparmiando gli evasori, intere categorie sociali in cui l’evasione è molto diffusa.

 

Quali scelte possono cambiare l’attuale situazione economica?

 

Il nostro problema è che abbiamo un debito pubblico tra i più alti del mondo, sia in termini assoluti che in rapporto al PIL, e a differenza degli USA non possiamo stampare liberamente moneta controllando la banca centrale ed avendo la valuta di riserva mondiale. L’Italia deve fare i conti con una moneta amministrata da un’entità esterna (la BCE), con perciò tutta una serie di limitazioni: la più ovvia, l’impossibilità di svalutare per aumentare le esportazioni e scaricare il debito in inflazione.

Realisticamente, l’Italia non è in grado di ripagare questo debito. Dagli anni ’90 si taglia la spesa pubblica e il sociale, si è praticamente fermi con gl’investimenti infrastrutturali (qualche linea di TAV a parte), si ha una pressione fiscale esageratamente alta che deprime le capacità produttive del paese.

A mio parere, l’unica possibilità che avrebbe ora l’Italia è di seguire le orme dell’Argentina: ristrutturare il debito per commisurarlo alle effettive capacità di ripagarlo. Se anche l’Italia dovesse riuscire a ripagare tutto il suo debito nel giro di qualche decennio, si tratterebbe di decenni senza sviluppo, al cui termine il nostro paese oscillerebbe tra il “secondo” ed il “terzo mondo”.

Valutiamo invece il caso dell’Argentina, che nel 2005 ha ristrutturato il debito. Nel 2004 era un paese non solo in bancarotta, ma con una popolazione sotto la soglia di povertà pari a quasi il 45% di quella totale – malgrado quella della nazione sudamericana fosse una realtà storicamente d’alto reddito pro capite. In cinque anni, dopo la ristrutturazione del debito, l’Argentina è riuscita ad abbattere la povertà al 14%, ha avuto una crescita del PIL “cinese” (9% l’anno, 7,5%% nel 2010 dopo la crisi mondiale). Confrontiamola con la Grecia, che invece sta cercando di ripagare interamente il suo debito (come sembra intenzionata a fare pure l’Italia): il reddito pro capite sta calando dal 2007 (in Argentina è aumentato di quasi un quinto dal 2005 ad oggi), un quinto della popolazione è sotto la soglia di povertà, il PIL è sceso nel 2009 del 2% e nel 2010 del 4,5%. Una situazione economica tragica in cui l’Italia rischia di trovarsi molto presto.


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