Introduzione

Il crescendo militare tra Israele e Iran, culminata con l’attacco israeliano contro siti strategici in territorio iraniano e la successiva risposta diretta dell’Iran sul cuore urbano di Israele, rappresenta una svolta epocale nella storia geopolitica del Vicino Oriente. Dopo anni di tensioni latenti, espresse principalmente attraverso operazioni coperte, attacchi per procura, sabotaggi cibernetici, azioni militari coreografiche — pensate più per inviare segnali politici che per infliggere danni irreversibili — e una retorica incendiaria, le due potenze regionali hanno superato una soglia storica: quella dello scontro diretto, simmetrico e dichiarato.

Per oltre quattro decenni, il confronto tra Tel Aviv e Teheran ha rappresentato uno degli assi di frizione più pericolosi e destabilizzanti dello scenario vicinorientale. Tuttavia, fino al giugno 2025, lo scontro era stato contenuto entro i margini della guerra indiretta, alimentata da conflitti delegati in Libano, Siria, Iraq e Gaza. L’attacco israeliano all’infrastruttura nucleare iraniana — tanto per portata quanto per precisione — ha segnato il passaggio a una nuova fase: un’escalation esplicita, in cui entrambi gli attori si sono colpiti in profondità, non più tramite alleati o intermediari, ma come soggetti principali di una nuova dinamica bellica.

La risposta iraniana, sotto forma di una pioggia di missili su Tel Aviv e su infrastrutture nevralgiche del sistema militare e civile israeliano, ha introdotto un ulteriore elemento di discontinuità: la simmetria della vulnerabilità. Per la prima volta, Israele — potenza tecnologica e militare avanzata — ha sperimentato un attacco che non ha potuto essere completamente neutralizzato dai propri sistemi difensivi, infrangendo il paradigma di invulnerabilità su cui si è fondata per anni la sua strategia deterrente.

Questo saggio intende analizzare il contesto strategico che ha reso possibile il crescendo dello scontro e le implicazioni a lungo termine per la sicurezza regionale e per l’ordine geopolitico globale. In un mondo già segnato da nuove polarizzazioni, dalla crisi dell’ordine multilaterale e da una crescente fragilità delle istituzioni internazionali, il confronto tra Israele e Iran agisce come acceleratore di instabilità. La ridefinizione delle regole della deterrenza, il ruolo ambiguo delle grandi potenze e la crescente interconnessione tra conflitti locali e dinamiche sistemiche globali rendono questa crisi non solo una questione regionale, ma un potenziale detonatore per una crisi geopolitica su vasta scala.

 

L’incursione israeliana: strategia e obiettivi

Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, Israele ha lanciato l’operazione “Rising Lion” colpendo decine di obiettivi strategici in Iran. L’entità dell’attacco è senza precedenti dal 1981 e segna un ritorno alla dottrina già sperimentata a Osiraq e Deir ez-Zor. Ma a differenza di quelle operazioni, l’attacco del 2025 ha mirato a un sistema nucleare già operativo, distribuito e altamente protetto. Più di 200 tra caccia F-35, droni kamikaze e missili da crociera hanno preso parte all’azione, coordinata da basi aeree israeliane e probabilmente supportata da risorse satellitari e logistiche statunitensi.

I bersagli comprendevano non solo i centri di arricchimento dell’uranio a Natanz e Fordow, ma anche laboratori di ricerca a Teheran, depositi missilistici a Shahriar, nodi di comando a Isfahan e basi delle forze Quds. Tra le vittime dell’attacco risultano anche figure di primo piano dell’apparato militare e scientifico iraniano: il generale Reza Ghadir, responsabile della difesa aerea della regione centrale, è stato ucciso in un attacco mirato a Yazd; il dottor Homayoun Khosravi, uno dei principali coordinatori del programma nucleare civile, è deceduto in seguito al bombardamento del complesso di ricerca Shahid Beheshti. Fonti locali parlano inoltre della distruzione parziale del centro di comando integrato di Isfahan e del danneggiamento di una porzione delle installazioni sotterranee di Fordow.

L’attacco ha provocato almeno 78 morti, tra cui sei scienziati nucleari e diversi alti ufficiali della Guardia rivoluzionaria iraniana. Tra questi figurano tre tra i più importanti leader militari dell’apparato di difesa iraniano: Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate; Hossein Salami, comandante dei Guardiani della rivoluzione; e Ali Hajizadeh, a capo del programma missilistico balistico dei pasdaran. La loro morte rappresenta un colpo gravissimo per la catena di comando militare iraniana e per le capacità strategiche offensive e difensive del Paese. La centrale di Natanz ha subito danni gravi, con perdita temporanea di controllo su alcuni segmenti del reattore. Le immagini satellitari analizzate da fonti occidentali mostrano vaste aree di distruzione e incendi estesi, con l’oscuramento comunicativo imposto da Teheran che ha ulteriormente amplificato la percezione di gravità.

Il valore strategico dell’attacco risiede anche nel suo tempismo: avvenuto in una fase di stallo nei negoziati internazionali sul nucleare, ha ridisegnato la mappa delle opzioni militari disponibili. Secondo fonti di intelligence, Israele avrebbe attivato una rete clandestina interna per preparare l’attacco, neutralizzando le difese aeree con operazioni cibernetiche. L’obiettivo strategico non era solo il rallentamento del programma nucleare iraniano, ma anche l’invio di un messaggio politico: Israele non tollererà un Iran nucleare, a costo di scatenare una guerra regionale.

 

Il ruolo (non troppo silenzioso) degli Stati Uniti

Dietro l’apparente iniziativa unilaterale di Israele, si cela un livello significativo di complicità, se non di partecipazione indiretta, da parte degli Stati Uniti. Middle East Eye ha rivelato che briefing dettagliati sono stati forniti alla CIA già tra aprile e maggio[1]. Tali briefing includevano mappe satellitari, modelli predittivi di risposta iraniana e piani per operazioni coordinate, concepite per ridurre al minimo l’esposizione pubblica americana. Secondo fonti interne alla Casa Bianca, l’attacco israeliano era stato discusso in sede di Consiglio per la Sicurezza Nazionale come un’opzione probabile ma gestibile, soprattutto se avesse prodotto un rallentamento del programma nucleare iraniano senza trascinare direttamente gli Stati Uniti in un conflitto regionale aperto.

Un elemento chiave che conferma il coinvolgimento americano è emerso direttamente dalle parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. In un discorso televisivo successivo all’attacco, Netanyahu ha dichiarato: “Speravo che gli Stati Uniti non si opponessero all’attacco contro l’Iran, ma non avevamo scelta. Senza il loro appoggio forse non avremmo lanciato l’attacco, ma l’alternativa era che saremmo morti tutti”. Ha inoltre precisato che Washington era stata informata preventivamente del raid, lasciando nelle mani del presidente Trump ogni decisione futura: “Da questo momento in poi, spetta a lui decidere come proseguire”[2].

Il presidente Donald Trump ha pubblicamente preso le distanze, ma in un’intervista al New York Post ha implicitamente riconosciuto la connessione: “Oggi è il giorno 61”, riferendosi a una lettera inviata a Khamenei con un ultimatum di 60 giorni per riaprire i negoziati. Tale coincidenza temporale rafforza l’ipotesi di un tacito via libera da parte americana. Diversi analisti hanno visto nella frase di Trump la prova di una pressione diplomatica seguita da un intervento militare “per procura”, con Israele nelle vesti dell’esecutore strategico.

In termini di logistica, tecnologia e intelligence, l’operazione israeliana sarebbe stata difficilmente realizzabile senza un sostegno indiretto statunitense. Le basi militari statunitensi nel Golfo Persico, in particolare in Bahrein, Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, hanno probabilmente fornito supporto in termini di corridoi aerei, sorveglianza elettronica e triangolazione radar. Inoltre, il ruolo delle agenzie di intelligence americane è stato cruciale nel fornire informazioni aggiornate sulla disposizione dei sistemi di difesa iraniani e sulla localizzazione dei bunker nucleari.

Washington ha giocato la carta dell’ambiguità strategica, fornendo supporto sotto forma di intelligence, accesso a infrastrutture logistiche nel Golfo e protezione diplomatica in sede ONU, ma evitando il coinvolgimento diretto. Una scelta che mira a mantenere il controllo sulla crisi senza pagarne il prezzo politico interno. Tuttavia, il rischio è che un’escalation costringa gli Stati Uniti a un coinvolgimento più esplicito, esponendoli a ritorsioni iraniane su basi militari e alleati regionali.

All’interno dell’amministrazione americana stessa sono emerse divisioni. Secondo quanto riportato da Middle East Eye, funzionari come David Schenker e Prem Kumar hanno manifestato apertamente dubbi sulla gestione della crisi, accusando Trump di aver perso il controllo della narrativa diplomatica e strategica. Il negoziatore Steve Witkoff, incaricato di riaprire un canale di dialogo con l’Iran a Muscat, ha annullato ogni incontro dopo il raid, dichiarando che “le condizioni per un negoziato serio sono definitivamente compromesse”.

In ultima analisi, gli Stati Uniti si sono ritrovati in una posizione paradossale: responsabili morali di un’escalation che non hanno formalmente voluto, ma dalla quale hanno cercato di trarre vantaggi tattici. Questo limbo strategico potrebbe rivelarsi insostenibile se il conflitto dovesse estendersi a scenari più ampi, con Hezbollah, Houthi o milizie sciite irachene come le Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) coinvolte in una nuova spirale bellica.

 

La risposta iraniana: il cuore di Israele sotto attacco

Poche ore dopo il raid israeliano, Teheran ha lanciato la più grande offensiva missilistica della sua storia, colpendo simultaneamente infrastrutture civili e militari in Israele. Più di 300 missili e droni hanno attraversato lo spazio aereo israeliano, generando il più ampio confronto tra difese antimissile e vettori ostili nella storia del paese. Mentre il sistema Iron Dome ha intercettato un’alta percentuale dei missili, diversi vettori balistici a lungo raggio sono riusciti a penetrare lo scudo difensivo, colpendo zone densamente popolate e siti strategici.

Il colpo più simbolicamente rilevante ha riguardato il complesso della Kirya a Tel Aviv, sede del Ministero della Difesa e centro nevralgico delle forze armate israeliane. Le immagini trasmesse in diretta dal corrispondente di Fox News Trey Yingst hanno mostrato scene di devastazione che hanno lasciato attoniti media internazionali, analisti militari e osservatori diplomatici. Per la prima volta in uno scontro diretto, l’Iran ha dimostrato la capacità di infliggere un danno diretto e visibile a un obiettivo considerato inviolabile[3].

Secondo le autorità israeliane, i missili hanno causato la morte di una donna e ferito oltre 70 persone[4]. Oltre alle perdite umane, l’impatto dell’attacco ha avuto un peso psicologico e strategico significativo. Il governo israeliano ha reagito imponendo una censura sulle immagini dei luoghi colpiti, nel tentativo di evitare il panico interno e di non fornire informazioni utili all’Iran per eventuali attacchi futuri. Tuttavia, l’impatto simbolico era già evidente: Teheran aveva dimostrato di possedere non solo i mezzi tecnici, ma anche la determinazione politica per colpire direttamente il cuore dello Stato israeliano. L’evento ha infranto il mito dell’invulnerabilità israeliana, evidenziando come anche una potenza dotata di tecnologia avanzata possa essere vulnerabile a una rappresaglia diretta su vasta scala.

 

Israele colpito: la vulnerabilità come nuovo fattore strategico

In un editoriale pubblicato su Haaretz, Etan Nechin ha sintetizzato il senso della crisi: “From Tehran to Tel Aviv, Bombs Fall. But What Netanyahu Calls Victory Feels Like Collapse”[5]. L’articolo ha evidenziato il contrasto tra la retorica bellicista del governo Netanyahu e la realtà di una cittadinanza che, per la prima volta, si è scoperta vulnerabile.

La Kirya colpita, la vita civile sospesa, le scuole chiuse, i rifugi pieni: il nuovo volto della guerra ha scosso Israele come mai prima. Per la prima volta nella sua storia recente, il paese ha vissuto l’esperienza di una guerra simmetrica sul proprio territorio, con le stesse modalità – panico, incertezza, perdite civili – a lungo relegate alle periferie del conflitto.

Non si tratta soltanto di un colpo materiale, ma di uno shock sistemico che scuote i fondamenti stessi della strategia difensiva israeliana, incentrata su superiorità tecnologica, intelligence preventiva e capacità di proiezione esterna. La deterrenza, fino a ieri unidirezionale, ora si è rovesciata su sé stessa. I tunnel antiaerei nel centro di Tel Aviv, le sirene incessanti, i blackout informativi e la sensazione di impotenza vissuta dalla popolazione hanno segnato un cambio di paradigma.

Questa vulnerabilità, prima immaginata solo nei confini settentrionali con Hezbollah o nei confronti dei razzi dalla Striscia di Gaza, è ora diventata una variabile strutturale nelle simulazioni strategiche israeliane. Il cuore tecnologico, amministrativo e simbolico dello Stato può essere colpito. E lo è stato. I servizi di sicurezza, da Shin Bet al Mossad, sono sotto pressione per rielaborare scenari di difesa interna.

Questo mutamento ha implicazioni strategiche profonde: l’Iran non è più solo un nemico ideologico o regionale, ma un attore capace di mettere in discussione la sicurezza interna israeliana. Per molti osservatori, si è trattato di un momento “Pearl Harbor” per Israele: uno shock sistemico che costringerà a rivedere tanto la strategia militare quanto l’approccio diplomatico verso l’Iran. Una nuova simmetria psicologica e strategica si è installata nel conflitto.

 

Conclusione: dalla deterrenza al crescendo?

La dottrina israeliana dell’attacco preventivo si trova oggi al bivio tra efficacia operativa e sostenibilità politica. L’operazione “Rising Lion” ha colpito duramente le infrastrutture del programma nucleare iraniano, senza tuttavia comprometterne del tutto la funzionalità. La risposta iraniana ha dimostrato che la rappresaglia è possibile, rapida e potenzialmente devastante, ridefinendo i limiti della deterrenza tradizionale.

Il concetto di sicurezza assoluta, su cui si è fondata per decenni la postura strategica israeliana, appare oggi messo in discussione. L’Iran ha mostrato di poter rispondere con precisione e audacia, spingendo Israele in una posizione di difesa che mina il suo status di potenza militare invulnerabile. Allo stesso tempo, la credibilità dell’ombrello difensivo statunitense, basato sull’ambiguità strategica e sulla logica del contenimento, si incrina sotto il peso delle nuove dinamiche regionali e della crescente assertività iraniana.

Le implicazioni di questa escalation non si limitano al solo confronto diretto tra Israele e Iran. Gli attori regionali – Arabia Saudita, Emirati, Hezbollah, Houthi – stanno ricalibrando le loro posture strategiche in funzione di uno scontro che potrebbe generalizzarsi. I mercati energetici oscillano, le diplomazie si attivano e l’opinione pubblica internazionale osserva con crescente inquietudine uno scenario in cui il Vicino Oriente, già epicentro delle tensioni dalla guerra a Gaza, rischia ora una deflagrazione su scala ancora più ampia e incontrollabile.

L’elemento forse più destabilizzante è la simmetria della vulnerabilità emersa. Se in passato la deterrenza era garantita dalla superiorità di uno dei contendenti, oggi è l’equilibrio del terrore – reciproco, incerto, incontrollabile – a definire il quadro. Nessuno può più contare sulla propria invulnerabilità come garanzia di pace.

Nel nuovo scenario emerso nel giugno 2025, il vero nodo geopolitico è questo: non più chi può colpire l’altro, ma chi può ancora permettersi di non essere colpito.


NOTE

[1] Sean Mathews, “Whether through green light or grudging acceptance, Trump enters war with Iran”, 14 giugno 2025, Middle East Eye, www.middleeasteye.net.

[2] “Guerra Israele‑Iran, Netanyahu: ‘Forse non avremmo attaccato senza l’appoggio Usa. I raid erano previsti ad aprile’”, 13 giugno 2025, Il Fatto Quotidiano, www.ilfattoquotidiano.it.

[3] “IDF headquarters hit by Iranian missile attack as Islamic Republic launches barrage of missiles at Tel Aviv”, 13 giugno 2025, New York Post, www.nypost.com

[4] “Iranian missile strike kills woman, injures over 70 in Tel Aviv”, 14 giugno 2025, The Times of Israel, www.timesofisrael.com.

[5] Etan Nechin, “From Tehran to Tel Aviv, Bombs Fall. But What Netanyahu Calls Victory Feels Like Collapse”, 14 giugno 2025, Haaretz, www.haaretz.com.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Collaboratore di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici". Scrive per la rivista scientifica "Das Andere – L’Altro"; ha collaborato con l'Associazione Politico-Culturale Marx XXI e con Arianna Editrice.