Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2012 e il clima politico in Russia entra nella sua fase più intensa. L’annuncio della nuova candidatura di Vladimir Putin ha messo in evidenza due fattori: la necessità di risolvere il malcontento sociale spaventosamente aumentato dopo il 2008 e la sostanziale subalternità di Dimitrij Medvedev rispetto a Putin. Quest’ultimo fattore impone, tuttavia, una marcata revisione di tutte le tesi che vedevano nella dualità al potere una dicotomia inconciliabile, praticamente agli antipodi, tanto che Medvedev resta dunque sottoposto alla volontà del leader di Russia Unita. Le dichiarazioni e le indiscrezioni degli analisti lasciano trapelare che le intenzioni siano quelle di garantire una salda presenza al potere almeno sino al 2018, mentre i più smaliziati giungono addirittura a fissare il termine ultimo nel 2036 (1). Emergono almeno due interrogativi: la stabilità politica ed istituzionale garantirà anche la stabilità sociale? In che misura l’eterogeneità di un partito personalistico e d’emergenza, come Russia Unita, potrebbe rappresentare un ostacolo sul cammino della definitiva rinascita geopolitica della Russia nello scacchiere internazionale?

 

La fiction della globalizzazione

Appare scontato che gli equilibri politici della nazione più grande al mondo per estensione territoriale, non possano essere relegati alla mera dimensione interna. Questi vanno infatti a coinvolgere una serie di fondamentali aspetti della politica internazionale, ad iniziare dai delicati rapporti di forza stabilitisi nel difficile quadro della fase unipolare, originariamente pensata – da autori come Francis Fukuyama – quale l’inizio di un supposto compimento dello sviluppo filosofico, politico ed economico, ormai destinato alla cristallizzazione storica nella presente formazione sociale capitalistica occidentale a carattere liberaldemocratico, imposta dalle dinamiche economiche e sociali dell’era post-fordiana e dell’accumulazione flessibile (2) e da un’espansione dei mercati finanziari presentata come risultante di un processo deterministico ridefinito alla metà degli anni Novanta col nome, invero ambiguo, di globalizzazione. Le conseguenze più immediate della fine dell’era bipolare furono invece l’intensificazione della conflittualità globale, l’incremento del numero degli Stati indipendenti riconosciuti a livello internazionale e la conseguente frammentazione del pianeta (3). Il primo effetto trasversale del collasso sovietico si tradusse nell’oggettiva difficoltà incontrata dai centri decisionali degli Stati Uniti nell’opera di gestione di una fase di destabilizzazione così intensa ed indecifrabile. Dal Caucaso all’Asia Centrale, dai Balcani al Mar Nero, sino ai tumulti in Mongolia, la situazione politica, economica ed inter-etnica di ciò che restava del socialismo reale, costituiva per Washington la teorica possibilità di imporre un nuovo ordine internazionale a guida unipolare. Tuttavia, l’esito della Guerra Fredda non avrebbe avuto una sua definitiva conferma prima dei successivi dieci o quindici anni. Quando George H.W. Bush, giunto in Ucraina nel 1991, frenò gli entusiasmi dei giovani rampolli locali, già pronti a prendere in mano una nuova repubblica indipendente per condurla nei meandri del libero mercato, risultò chiaro che il primo imperativo per Washington fu proprio quello di contenere gli effetti più disastrosi del crollo sovietico, smantellandone pacificamente il vecchio arsenale(4) e mettendo da parte, almeno per il momento, le più forti pressioni provenienti dai mercati occidentali.

Nel frattempo la Casa Bianca interveniva nel Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein, avviando, con l’operazione Desert Storm, l’era del network-centric warfare e del primato della Revolution in Military Affairs. Venuti meno la parità militare ed il sostanziale equilibrio geostrategico garantito dal concetto di Mutual Assured Destruction, l’imperialismo nord-atlantico avrebbe avuto campo libero nel nuovo tentativo di penetrazione militare, economica e politica in Medio Oriente (attraverso Iraq e Libia) e in Asia Centrale (attraverso l’Afghanistan). Tuttavia, il previsto smantellamento della Russia avvenne soltanto in parte. L’era Eltsin mise in subbuglio l’intero Paese, rendendolo insicuro ed instabile, e contribuendo ad affermare una sostanziale equivalenza tra il concetto di democrazia liberale e la realtà dell’impoverimento sociale. La complessa vicenda degli oligarchi accelerò nei cittadini russi ex-sovietici la consapevolezza della necessità del cambiamento. Il brusco passaggio dalle modeste ma salde certezze del socialismo reale alla terribile ondata di speculazione e corruzione interna della fase liberale, tornò ad accrescere nel popolo il desiderio del ritorno ai primati dell’autorità e della sicurezza sociale.

Ebbe dunque inizio l’era Putin, contrassegnata da precari ma determinanti equilibri interni, frutto delle mediazioni e degli scontri con i diversi e complessi settori della nuova classe capitalistica formatasi durante il periodo eltsiniano.

A distanza di oltre dieci anni da allora, è possibile trarre un bilancio incerto, denso di luci e ombre, momenti di rilancio accompagnati da carenze strutturali. Il PIL della Federazione Russa, ormai, è infatti il settimo nel mondo, ma il reddito pro-capite, nonostante il (più che preoccupante) decremento della popolazione (138.740.000 ab. circa), è soltanto al 71° posto (15.900 dollari annui), con una disoccupazione giovanile ferma al 18,29% ed una fascia sociale posta sotto la soglia di povertà pari al 13,1% della popolazione nazionale(5). Il tentativo di conciliare aspirazioni geopolitiche di matrice continentale con provvedimenti economici e politici di natura liberale – responsabili del nuovo arretramento nei settori industriale ed agricolo – sta mostrando tutti i suoi limiti e rischia soltanto di rallentare lo sviluppo di una nuova forza strategica che possa tornare a competere sia militarmente, sia sul piano dell’innovazione, con gli Stati Uniti. Lo rallenterebbe, anzitutto perché la Russia, a differenza della Cina (tradizionalmente sovrappopolata, ripartita nel 1949 da condizioni semi-feudali e riformata nel 1979 a partire da condizioni proto-industriali), non ha alcun bisogno di operare una vasta apertura al mercato per rendere più efficace e dinamico il suo modello di sviluppo, già forte di imponenti primati nei settori energetico e minerario.

 

L’espansionismo nord-atlantico

Così recitava un trionfante articolo pubblicato sul quotidiano Repubblica in data 30 marzo 1989.

 

Mikhail Gorbaciov ha dichiarato ufficialmente decaduta la dottrina della sovranità limitata, nota anche come dottrina Breznev. Le tragiche esperienze del ‘56 ungherese e del ‘68 cecoslovacco non si ripeteranno più, ha garantito il leader sovietico al segretario del Partito ungherese Karoly Grosz, che si è recato in visita a Mosca la scorsa settimana”(6)

 

Otto mesi dopo, il Muro di Berlino sarebbe crollato sotto i colpi di un’operazione dal grande impatto mediatico ma dall’inglorioso significato politico. Cadeva un campo militare ed ideologico, mentre la più spietata economia di mercato cominciava a penetrare nei territori dei Paesi dell’Est europeo. Un anno e mezzo dopo, il Patto di Varsavia fu definitivamente sciolto, lasciando campo libero alla Nato che nel 1999 definì l’inglobamento militare di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, per poi proseguire con l’espansione verso la Romania, la Bulgaria, la Slovenia, la Slovacchia e le tre repubbliche baltiche ex sovietiche, per finire nel 2009 con l’ingresso di Albania e Croazia. La composizione geografica della Nato non ha nulla di casuale, ma ricalca precise volontà strutturali geo-strategiche, spesso abilmente oscurate da artificiali costruzioni sovrastrutturali di tipo culturale ed etico, sottilmente imposte attraverso linguaggi e metodi di comunicazione volti a rafforzare l’accettazione della presunta naturalità del rapporto tra il Nord America e l’Europa, nel quadro di una fantomatica comunità di destino, non meglio precisata, ed anzi solamente ostentata attraverso analogie di costume e tendenze sociali, culturali ed artistiche.

Vi sono due realtà nazionali – Ucraina e Bielorussia – a dividere ancora i principali e più forniti Paesi della Nato dai confini terrestri della Federazione Russa. Coinvolte in passato in vari tentativi di rivoluzioni colorate, e in generale di regime-change, è soprattutto l’Ucraina a rivestire un ruolo fondamentale nei rapporti tra Mosca e l’Eurozona, a cominciare dalle tratte del gas. Lo sconvolgimento avviato dalla rivoluzione arancione del 2004, ha provocato ben sei anni di deterioramento nei rapporti tra Mosca e Kiev, che soltanto oggi sembrano finalmente riassestarsi, dopo la vittoria elettorale della coalizione filo-russa guidata da Viktor Yanukovich, sostenuto per l’occasione anche dal Partito Comunista Ucraino di Piotr Simonenko, entrato nel governo. In Bielorussia è la guida di ferro del presidente Aleksandr Lukashenko ad aver tenuto in pugno la situazione economica e sociale nel difficilissimo periodo post-sovietico, e ad essere riuscito a rimanere alla guida del Paese – grazie anche all’appoggio del Partito Comunista di Bielorussia – evitando ogni tentativo di sommossa, abilmente strumentalizzato dai principali media internazionali, come avvenuto anche l’anno scorso, quando minoritari ma facinorosi gruppi di anarchici, liberali ed ultra-nazionalisti assaltarono l’edificio presidenziale in Piazza dell’Ottobre. Soltanto il pronto intervento dei mezzi blindati ha evitato il peggio, ripristinando l’ordine pubblico nella capitale e consentendo un regolare svolgimento delle operazioni elettorali. Anche la Moldavia, piccola repubblica incuneata proprio tra l’Ucraina e la Romania, è stata più volte vittima di tentativi di destabilizzazione, in cui gruppi di ultra-nazionalisti filo-romeni e di liberali, hanno aggredito esponenti del Partito Comunista della Repubblica di Moldavia, primo partito del Paese per numero di consensi e tradizionalmente filo-russo.

Dal 1991, insomma, è calato il sipario sulla dimensione simil-cinematografica della Guerra Fredda, ma non è stata affatto archiviata la forte contrapposizione strategica tra Stati Uniti e Russia, nel tentativo di un continuo e sempre più imponente accerchiamento del territorio federale. I viaggi a Varsavia e a Praga delle delegazioni di Washington, l’abbandono statunitense del Trattato ABM in era Bush, le rivoluzioni colorate non solo in Ucraina ma anche in Georgia (2003) e in Kirghizistan (2005), ed il reset voluto da Obama, ci dicono non soltanto che gli Stati Uniti non hanno mai considerato conclusa la Guerra Fredda, ma anche che negli ultimi vent’anni la Russia non ha saputo ritrovare in alcun modo la compattezza politica e la manovrabilità militare di cui l’Unione Sovietica era in possesso.

Il CSTO (Collective Security Treaty Organization) e la SCO (Shanghai Cooperation Organization) rappresentano due fondamentali tentativi di ripristinare queste capacità. Tuttavia le enormi potenzialità che un fronte di così vaste dimensioni potrebbe garantire, restano ancora inespresse.

Gli sconvolgimenti dell’anno scorso in Kirghizistan – che videro trionfare Roza Otunbayeva, già protagonista della rivoluzione dei tulipani nel 2005 – hanno confermato che il potere delle organizzazioni non-governative straniere è ancora rilevante in Asia Centrale. Malgrado il nuovo governo di Bishkek sia stato immediatamente contattato da Putin, ansioso di ricevere rassicurazioni in merito al nuovo corso del Paese, la presenza, tra le frange della protesta, di personaggi notoriamente legati all’Open Society Institute di George Soros – tra i quali la stessa Otunbayeva e Omurbek Tekebayev, già arrestato in Polonia nel 2006 per possesso di eroina(7) – aveva già smascherato il backstage delle violenze, risolte in pochi giorni nelle regioni settentrionali ma velocemente trasferitesi lungo il sud del Paese, nelle aree di Osh e Jalalabad e all’altezza della Valle del Fergana, dove la presenza di copiose comunità uzbeke ha tramutato lo scontro politico in un tragico scontro inter-etnico, che ha costretto all’intervento umanitario le autorità di Tashkent(8).

 

Dall’ideologia alla geopolitica

Un altro recente smacco per Mosca è poi giunto dalla sufficienza con cui il presidente georgiano Mikheil Saakashvili, ha potuto letteralmente ignorare e reprimere una forte protesta sociale interna, ribattezzata rivoluzione d’argento(9), e la leggerezza con cui, ancora prima, aveva potuto abbattere, pur nel dissenso della popolazione più anziana, la gigantesca statua di Stalin posta dinnanzi all’edificio centrale municipale di Gori, città natale del leader comunista (10). Quest’ultimo particolare potrebbe apparire pittoresco ai più, tuttavia non lo è nello spazio post-sovietico, dove una statua o un edificio possono assumere una rilevanza sociale, politica e persino geopolitica di primo piano. Basti pensare agli scontri e alle accese polemiche che si scatenano puntualmente nelle ex repubbliche sovietiche, non appena un nuovo piano regolatore generale coinvolga qualche importante costruzione d’epoca. Il valore simbolico non è certo una componente puramente estetica, e rimanda direttamente ad opinioni politiche in relazione ai rapporti con la Russia. Le statue di Lenin, di Stalin, di Žukov, di Frunze e, in generale, dell’era sovietica, assumono la portata di simboli dell’autorità moscovita e della centralità del potere del Cremlino, incrementata – e non certo diminuita – durante l’era sovietica.

È dunque evidente che tutte le problematiche legate ai complessi equilibri geopolitici della massa eurasiatica tornino a riaffiorare attraverso la schermatura ideologica operata dalla dialettica comunismo/anticomunismo, come nascondimento di una dialettica ben più concreta e profonda, che nel cosiddetto estero vicino della Russia assume le proporzioni di un confronto tra pan-russismo e russofobia, mentre all’interno della società russa si riflette come la sfida tra una vocazione imperiale eurasiatica ed una vocazione nazionale europeista. Appare del tutto evidente la completa inconciliabilità di queste due tendenze, riassunte simbolicamente nelle due rispettive rappresentazioni cinematografiche di Ivan IV (Parte I), celebrato in era staliniana, e di Pietro il Grande, celebrato in era gorbaceviana(11).

Nella società russa contemporanea non c’è più spazio per altre posizioni che non siano riconducibili a queste due. Lo ha capito perfino Vladimir Žirinovskij, che, nonostante certe esternazioni pittoresche e provocatorie, ha ormai schiacciato il suo vecchio pan-slavismo su posizioni nettamente più moderate ed accondiscendenti con l’Occidente, e, per certi aspetti, simili a quanto espresso negli ultimi anni dal presidente Putin. L’unica espressione partitica russa che propugna ancora coscientemente la prima posizione, cioè quella che potremmo ridefinire neo-ivanista o staliniana, è il Partito Comunista di Zyuganov, rimasto grossomodo coerente con quanto esposto nel suo saggio Deržava pubblicato nel lontano 1994, in cui afferma senza giri di parole che quella imperiale è la forma storicamente e geopoliticamente obbligata per lo Stato Russo(12), la sola in grado di interpretare le necessità profonde e le aspirazioni politiche e strategiche del territorio federale, alla luce delle sue complesse e composite caratteristiche storiche, etniche e religiose. La composizione antropica dell’Unione Sovietica, ricalcava in modo senz’altro più preciso e meglio definito il territorio dell’Impero Zarista, garantendo un efficace e concreto riconoscimento politico anzitutto a quelle comunità etniche di origini uralo-altaiche e di religione musulmana dell’Asia Centrale, che sin dal XIX secolo generarono focolai di resistenza particolarmente ostili alla russificazione voluta in epoca zarista(13). Il conflitto con l’Autonomia di Alash durante la guerra civile (1917-1920) e la rivolta dei Basmachi tra il 1920 e il 1931 ci insegnano, tuttavia, che il netto miglioramento delle condizioni sociali costituisce un traguardo sicuramente fondamentale ma non determinante ai fini dell’eliminazione di tutte quelle contraddizioni ed ostilità etno-culturali che un certo marxismo fideista e tardo-positivista ha spesso erroneamente relegato in una generica e sbrigativa dimensione sovrastrutturale. Si impone, dunque, la necessità di fare i conti con una complessità geo-antropica che solo un attento approccio geopolitico di matrice imperiale può aiutare a risolvere.

L’Unione Sovietica viene così ad assumere, nella retrospettiva storica di Zyuganov, i contorni storici di un vasto impero geopoliticamente coeso e geostrategicamente compatto, senza tuttavia tralasciarne l’alto valore politico in termini economici e sociali.

A differenza delle classiche riletture ideologiche della tradizione marxista-leninista, però, nella schematizzazione geopolitica fornita da Aleksandr Dugin (che collaborò nel 1993 alla stesura del primo programma politico del Partito Comunista della Federazione Russa) all’interno del suo saggio La grande guerra dei continenti, Lenin e Stalin vengono posti in continuità – e non in contrapposizione – con Brežnev, proprio nella misura in cui questi tre leader diedero luogo ad una più o meno cosciente continuità strategica definita come eurasiatica, in lotta contro la vocazione atlantista ed occidentalista rappresentata da Trotskij e da Chruščëv(14). Senza troppo soffermarci sui tratti nazionali ed apertamente patriottici della politica staliniana, sempre più evidenti quanto meno a partire dal 1940, appare possibile confermare, anche nella Russia odierna, il valore altamente simbolico della figura di Stalin. Non più esclusivamente in quanto costruttore del socialismo, e tanto meno come eroe del proletariato (qualifica che, del resto, in una fase marxisticamente pensata come epoca di progressivo abbattimento delle classi sociali, cominciava a perdere il suo significato), ma come artefice politico e militare della vittoria sull’invasione tedesca e come protagonista dell’edificazione della potenza industriale e strategica sovietica. Stalin è dunque una rappresentazione iconografica di qualcosa che travalica l’individualità e la dimensione strettamente esistenziale, fino ad assumere le sembianze di un sistema politico, sociale e militare in cui la gerarchia – seppur su termini diversi rispetto alle società tradizionali occidentali – rimane un essenziale criterio di organizzazione della società e dei territori sottoposti alla sovranità dello Stato politico centrale. Appare del tutto evidente che la nuova gerarchia sovietica dovesse costituire, in tal senso, una naturale continuità strategica rispetto alle politiche di sovranità territoriale adottate in epoca zarista.

 

Conclusioni

Le tendenze degli ultimi anni hanno dimostrato che la Russia post-sovietica vive continuamente, anche quando non lo vorrebbe, sul terreno del passato e della memoria storica. Le tracce, materiali, storiche e persino spirituali, dell’era sovietica restano incancellabili, e tornano regolarmente a porre interrogativi epocali nella società russa contemporanea. Soltanto una pacificazione reale con la propria storia ed una obiettiva interpretazione del passato, potranno perciò costituire il punto di partenza per un rinnovamento sociale, politico ed istituzionale che sia in grado di rilanciare con forza e con saggezza il prestigio di Mosca nel pianeta.

 

 

* Andrea Fais è giornalista e collaboratore del sito Conflitti e Strategie

 

 

Note:

(1) TMNews, Russia/Patto acciaio Putin-Medvedev: tandem al potere sino al 2036, 24 settembre 2011

(2) D. HARVEY, La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993, pp. 217-234

(3) S.P HUTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1996, pp. 30-31

(4) Z. BRZEZINSKI, L’Ultima Chance – La crisi della superpotenza americana, Salerno Editrice, Roma, 2008, p. 56

(5) CIA WORLD FACTBOOK, Russian Federation, rapporto 2010 e rapporto 2011

(6) La Repubblica, Sepolta la Dottrina Breznev, 30 marzo 1989, p. 10

(7) S.R. ROBERTS, More trouble with the Tulip Revolution: Kyrgyz oppositionist Omurbek Tekebayev arrested in Warsaw, 7 settembre 2006

(8) La Stampa, Kirghizistan, è emergenza umanitaria, 18 giugno 2010

(9) PeaceReporter, Georgia, rivoluzione inopportuna, 28 maggio 2011

(10) Adnkronos, Gori, statua Stalin rimossa in segreto. Al suo posto memoriale vittime dei russi, 25 giugno 2011

(11) C. JEAN, Manuale di geopolitica, Editori Laterza, Bari, 2003, p. 226

(12) G. ZYUGANOV, Stato e Potenza, Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma, 1999, p. 51

(13) M. BUTTINO, La rivoluzione capovolta – L’Asia Centrale tra il crollo dell’Impero Zarista e la formazione dell’Urss, L’Ancora Editore, Napoli, 2003, pp. 70-80

(14) T. PARLAND, The Extreme Nationalist Threat in Russia – the growing influence of western rightist ideas, RoutledgeCurzon, Oxon, 2005, p. 104


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