Introduzione
Gaza è ovunque: nei titoli dei giornali, nelle immagini che scorrono sui social, nei discorsi delle istituzioni internazionali. Eppure, al di là della visibilità mediatica, resta politicamente isolata. Mentre le bombe cadono e la fame uccide, la comunità internazionale continua a oscillare tra condanne di circostanza e paralisi diplomatica. In questo scenario fatto di contraddizioni, tre episodi accaduti negli ultimi giorni raccontano molto più di mille dichiarazioni ufficiali: il sequestro della nave umanitaria Madleen da parte dell’esercito israeliano; le sanzioni “personali” imposte dal Regno Unito a due ministri israeliani; e l’ennesima carneficina durante la distribuzione di aiuti nella Striscia.
Tre eventi distinti ma legati da un filo comune: la punizione della solidarietà, la retorica del cambiamento che non modifica la realtà, e la gestione criminale di una crisi umanitaria che ha ormai assunto i contorni inequivocabili di un genocidio. Mentre Israele reprime chi osa sfidare l’assedio, Londra si affida a gesti simbolici per mantenere una parvenza di decenza diplomatica. E nel frattempo, a Gaza, si muore anche per un sacco di farina.
Le pagine che seguono ricostruiscono e mettono in relazione questi avvenimenti, per far emergere un quadro più ampio: quello di una comunità internazionale che, pur sapendo, continua a garantire copertura e impunità. Non è solo la Palestina a essere sotto attacco. È l’idea stessa di giustizia a essere sotto assedio.
Freedom Flotilla: la criminalizzazione della solidarietà
La Madleen, nave della Freedom Flotilla carica di aiuti umanitari diretti a Gaza, è stata intercettata e sequestrata dalla marina israeliana mentre si trovava in acque internazionali, a circa 185 chilometri dalla costa. A bordo si trovavano dodici attivisti civili, disarmati, partiti con l’intento dichiarato di rompere simbolicamente l’assedio alla Striscia. L’operazione, avvenuta all’alba del 9 giugno 2025, è stata condotta con modalità da azione militare: secondo i testimoni, sono stati impiegati droni, gas urticanti e interferenze radio, in un clima più simile a un’azione di guerra che a un fermo in mare aperto.
La nave è stata rimorchiata verso Israele e gli attivisti arrestati e trasferiti nel centro di detenzione per migranti irregolari di Givon. Otto di loro si trovano ancora in custodia, poiché si sono rifiutati di firmare il documento che li avrebbe autorizzati al rimpatrio immediato, ma al prezzo di ammettere un ingresso illegale in Israele – accusa che respingono con forza, essendo stati prelevati in acque internazionali e contro la loro volontà.
L’episodio, dunque, va ben oltre la cronaca di un semplice arresto. Si è trasformato in un messaggio inequivocabile rivolto alla società civile internazionale: offrire solidarietà concreta alla popolazione palestinese, anche solo attraverso una nave carica di latte in polvere e medicinali, è ormai considerato un atto di sfida da punire. La Madleen, intitolata a Madleen Kulab – la prima pescatrice donna di Gaza, resa nota dai reportage di Vittorio Arrigoni – non rappresentava alcuna minaccia, né sul piano politico né su quello militare. Trasportava soltanto aiuti destinati a una popolazione affamata, stremata dall’assedio e ormai privata persino del diritto di ricevere soccorso.
Le autorità israeliane hanno cercato di giustificare la detenzione sostenendo che gli attivisti sarebbero entrati illegalmente nel Paese, ma questa ricostruzione è stata respinta con fermezza sia dagli stessi attivisti sia dai legali di Adalah, un’organizzazione israeliana che si occupa della difesa dei diritti dei Palestinesi. È stato infatti l’esercito israeliano a portarli con la forza all’interno del territorio israeliano, dopo averli intercettati in mare aperto, ben fuori dalle acque territoriali. L’uso della forza in acque internazionali e la successiva detenzione configurano una violazione evidente del diritto internazionale. Inoltre, la natura della missione – un’azione umanitaria dichiarata e pacifica – riconosce agli attivisti uno status protetto dalle convenzioni internazionali, che in questo caso è stato completamente ignorato.
Particolarmente inquietante è l’aspetto mediatico dell’operazione: le autorità israeliane hanno diffuso immagini confezionate ad arte per sminuire e ridicolizzare la missione pacifica della Freedom Flotilla. Una delle fotografie più circolate mostra Greta Thunberg mentre riceve un panino da una soldatessa israeliana, in un tentativo evidente di rappresentare l’arresto come una scena umanitaria e collaborativa, stravolgendo la reale natura dell’operazione.
A questa propaganda visiva si è aggiunta una dimensione di vera e propria pressione psicologica: alcuni attivisti, tra cui l’eurodeputata Rima Hassan, sarebbero stati costretti a visionare un filmato di 43 minuti sulle violenze del 7 ottobre. Un’operazione che, nei metodi, ricorda più un rituale di rieducazione forzata che una misura di giustizia o sicurezza. Si tratta di un approccio che richiama la “cura Ludovico” descritta da Anthony Burgess in Arancia Meccanica: una coercizione mentale camuffata da “informazione”, utile a legittimare un quadro narrativo unilaterale e denigrare ogni forma di dissenso[1].
In questa vicenda, la forza non è solo quella delle armi: è anche la distorsione del linguaggio, la costruzione della realtà, la manipolazione dell’immagine. Chi porta aiuti umanitari viene trattato come un criminale. Chi denuncia un massacro viene accusato di “antisemitismo”. E chi cerca di restare umano, viene costretto a scegliere tra menzogna e prigione.
Sanzioni britanniche: un gesto simbolico per salvare la faccia?
L’11 giugno 2025 il governo britannico ha annunciato l’imposizione di sanzioni personali contro Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, entrambi membri dell’ala ultranazionalista dell’esecutivo israeliano[2]. La decisione rientra nelle Global Human Rights Sanctions Regulations, una normativa che consente al Regno Unito di intervenire contro individui responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Le misure prevedono il congelamento dei beni eventualmente presenti in territorio britannico, il divieto di ingresso nel Paese e l’esclusione da ogni tipo di relazione ufficiale con enti e istituzioni del Regno.
A motivare le sanzioni è stata la partecipazione attiva dei due ministri all’incitamento alla violenza contro i Palestinesi, in particolare in Cisgiordania, e il sostegno a politiche apertamente razziste. Ben-Gvir è noto per le sue dichiarazioni sull’“emigrazione volontaria” dei Palestinesi, una formula che maschera il progetto colonialista di spostamento forzato. Smotrich, dal canto suo, ha più volte parlato apertamente della necessità di distruggere Gaza e deportarne la popolazione verso paesi terzi.
Si tratta di una decisione senza precedenti nei rapporti tra Londra e Tel Aviv, accompagnata da parole forti del nuovo ministro degli Esteri David Lammy, che ha definito l’ideologia dei due esponenti israeliani “mostruosa” e “pericolosa”.
L’annuncio del governo britannico guidato da Keir Starmer di imporre sanzioni a due ministri israeliani – Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – ha suscitato reazioni contrastanti. C’è chi lo ha interpretato come un possibile segnale di discontinuità rispetto al silenzio o alla complicità che hanno storicamente caratterizzato l’atteggiamento dell’Occidente verso le politiche israeliane, ma per molti altri si tratta di un gesto puramente simbolico, concepito più per salvare la reputazione inglese davanti al mondo che per produrre un cambiamento reale sul terreno. A ben vedere, infatti, l’impatto effettivo della misura appare del tutto limitato: non intacca l’apparato militare israeliano né coinvolge il governo nel suo complesso, non mette in discussione la cooperazione militare tra Londra e Tel Aviv e non sfiora nemmeno il nodo cruciale delle esportazioni di armi britanniche verso Israele. Nessuna pressione concreta viene esercitata sul rispetto delle risoluzioni ONU, né tanto meno sulla fine del blocco a Gaza. Più che un atto di rottura, la scelta britannica sembra una mossa ben calibrata per “mandare un segnale” a basso costo politico, evitando però qualsiasi scossone allo status quo. In questo senso, il gesto appare più come un escamotage strategico – una forma di gestione del dissenso interno e dell’indignazione pubblica – che una presa di posizione autentica. Come rileva “The Times”, il governo britannico è sotto pressione anche dall’interno: oltre 300 funzionari del Foreign Office hanno chiesto la fine della vendita di armi a Israele[3]. La decisione di colpire due figure già screditate, mantenendo però intatti i legami economici e strategici con Tel Aviv, ha tutto il sapore di un compromesso per evitare una crisi d’immagine.
Siamo di fronte a un paradosso calcolato: si denunciano gli eccessi di due ministri israeliani noti per le loro posizioni apertamente razziste e disumanizzanti, ma al contempo si evita con cura di toccare le strutture profonde del sistema che li ha prodotti. Si condanna l’estremismo verbale, ma si continua a finanziare l’esercito che assedia Gaza, a proteggere diplomaticamente Israele nei consessi internazionali, a ignorare le risoluzioni ONU sistematicamente violate. La scelta di colpire Smotrich e Ben-Gvir è funzionale a un’operazione di maquillage geopolitico: permette al Regno Unito di marcare simbolicamente una distanza dal linguaggio più brutale del governo Netanyahu, senza mettere minimamente in discussione i fondamenti ideologici e materiali dell’occupazione.
È una strategia chiara: salvare l’immagine di Israele come “democrazia avanzata” accreditando l’idea che il problema sia dato da un’ala estremista fuori controllo, e non il progetto coloniale sionista nel suo insieme. In questo schema, la critica selettiva diventa un modo per preservare ciò che l’Occidente ha sostenuto per decenni: un sionismo presentabile, ripulito, progressista. Ma come documentano decenni di storia, le politiche di espulsione, segregazione e repressione non sono appannaggio di qualche “deviato” ideologico: sono parte costitutiva del sionismo stesso, sia nella sua versione laica che in quella religiosa.
Attribuire le responsabilità esclusivamente all’estrema destra è una forma di deresponsabilizzazione. Significa ignorare che, ben prima di Netanyahu, governi laburisti e centristi hanno costruito insediamenti illegali, represso sollevazioni popolari, promulgato leggi discriminatorie e praticato l’esproprio sistematico. La discontinuità, se c’è, è solo nei toni, non nei fatti. E in questo senso, la condanna selettiva serve più a tranquillizzare le coscienze occidentali che a fare i conti con la realtà dell’occupazione.
Se davvero si vuole compiere un passo avanti, la questione non può più essere ridotta a chi siede al governo israeliano, ma deve affrontare la struttura ideologica e materiale su cui quello Stato si è fondato e continua a operare. Solo allora le parole come giustizia, pace o diritti umani avranno un significato pieno anche per la Palestina.
Lo sterminio quotidiano: Gaza muore di fame sotto gli occhi del mondo
Nel silenzio assordante della cosiddetta “comunità internazionale”, Gaza continua a morire. Non solo sotto le bombe, ma anche – e sempre più spesso – per fame. Le testimonianze provenienti dalla Striscia raccontano un orrore quotidiano che non conosce tregua: oltre due milioni di persone, in gran parte bambini, rischiano di soccombere per la mancanza di cibo, acqua potabile e assistenza medica. La crisi umanitaria ha raggiunto livelli talmente estremi che intere famiglie si espongono a pericoli mortali pur di ricevere una razione di aiuti, trasformando ogni centro di distribuzione in un possibile luogo di strage.
L’episodio più grave si è verificato nel Corridoio Netzarim, in prossimità di un centro della Gaza Humanitarian Foundation: 20 morti e 124 feriti tra civili accorsi per ricevere cibo. È solo uno dei tanti casi in cui le forze israeliane hanno sparato sulla folla durante la distribuzione degli aiuti. Ali Dabour, medico della Medical Relief Society, lo descrive chiaramente: “I luoghi per la distribuzione degli aiuti si sono trasformati in trappole mortali”[4].
Oltre al cibo, vengono colpiti anche i simboli della cura e della testimonianza: tre infermieri, un paramedico e un giornalista – Moamen Abu Al Lauf – sono stati uccisi. Abu Al Lauf aveva documentato il salvataggio della piccola Ward, bambina divenuta simbolo della resistenza e della sofferenza a Gaza. La sua morte è un colpo alla memoria collettiva, un tentativo deliberato di spegnere la luce che ancora riesce a filtrare da quell’inferno.
Le Nazioni Unite, con una dichiarazione insolitamente netta, hanno definito la situazione “un atto di sterminio”, denunciando attacchi intenzionali a scuole, moschee, ospedali e strutture culturali. Queste parole, di solito dosate con cautela diplomatica, segnalano un punto di rottura. Ma ancora una volta, le parole restano tali, prive di conseguenze concrete.
La comunità internazionale osserva, denuncia, condanna a parole, ma resta ferma. Dietro le dichiarazioni di principio, si nasconde una complicità strutturale: governi che continuano a vendere armi, finanziare l’occupazione, legittimare l’assedio con il silenzio. I corridoi umanitari sono insufficienti, i porti restano bloccati, gli aiuti vengono ritardati, filtrati, spesso confiscati. Gaza non sta semplicemente morendo: viene lasciata morire, giorno dopo giorno, nel disinteresse calcolato – e in molti casi interessato – di chi avrebbe il potere di fermare l’orrore e sceglie invece di voltarsi dall’altra parte.
Conclusione
Dal sequestro della Madleen all’ipocrisia delle sanzioni britanniche, dalle file disperate per un sacco di farina alle accuse di “sterminio” mosse dalle Nazioni Unite, la tragedia palestinese ha superato i confini del linguaggio della guerra. Non siamo più di fronte a un conflitto bilaterale, ma a un sistema di dominio e punizione in cui la solidarietà è trattata come una minaccia e la violenza come uno strumento legittimo di governo. Gaza è oggi il simbolo estremo di questa inversione morale.
La repressione della Freedom Flotilla non è un caso isolato, ma l’espressione concreta di un ordine mondiale che considera la giustizia un privilegio e non un diritto. Punire chi cerca di portare aiuti, isolare chi denuncia, criminalizzare chi resiste: tutto questo avviene mentre le cancellerie occidentali parlano di equilibrio e di prudenza, evitando accuratamente di pronunciare la parola “responsabilità”.
La fame, intanto, continua a essere usata come arma. I centri di distribuzione diventano zone di rischio letale, la popolazione civile vive sotto la minaccia costante della carestia, della malattia, del fuoco. E chi potrebbe agire – i governi, le istituzioni, le alleanze – sceglie invece la via della gestione dell’immagine: sanzioni parziali, condanne verbali, qualche apertura diplomatica utile solo a salvare la faccia.
Eppure, qualcosa resiste. La determinazione di chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte, di chi rifiuta il compromesso con la menzogna, di chi continua a mettersi in viaggio anche quando sa di poter finire in prigione. È in questi gesti che si mantiene viva una direzione possibile, una bussola che non risponde alla logica della forza ma a quella dell’umanità.
In un tempo in cui la coscienza è spesso sacrificata al consenso e l’etica alla strategia, questa bussola – fatta di disobbedienza, testimonianza e coraggio – resta forse l’unico orientamento credibile. Gaza non è solo una ferita aperta nel corpo della Palestina. È una frontiera dell’umano, e ciò che decidiamo di fare, o di non fare, davanti a quella frontiera, dice molto su chi siamo.
NOTE
[1] Eliana Riva, Madleen catturata, attivisti in prigione: lo show di Tel Aviv, 10 giugno 2025, www.ilmanifesto.it
[2] Sabrina Provenzani, “Istigano all’odio”, Starmer sanziona 2 ministri di Bibi, 11 giugno 2025, www.ilfattoquotidiano.it
[3] The Times, “Foreign Office staff told to resign if they don’t like Gaza stance”, 10 giugno 2025, www.thetimes.com
[4] Michele Giorgio, Nuova strage tra gli affamati. Onu: a Gaza è “sterminio”, 11 giugno 2025, www.ilmanifesto.it
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