Rula Jebreal, Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, Piemme, 2025, 304 pp., €19,90.

La parola “genocidio” è tra le più gravi e discusse del lessico giuridico e politico contemporaneo. Rula Jebreal sceglie di usarla nel titolo del suo nuovo libro – Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale (Piemme, 2025) – con consapevolezza e precisione. Non per provocare, ma per nominare ciò che la cosiddetta “comunità internazionale” si ostina a non vedere: la distruzione sistematica della Striscia di Gaza come atto deliberato, ripetuto e pianificato, che risponde a tutti i criteri stabiliti dalla Convenzione ONU del 1948.

Ma il genocidio, per la Jebreal, non è solo un crimine giuridico. È anche una cartina di tornasole morale: rivela il collasso delle pretese universalistiche dell’Occidente, mostra la selettività del diritto, la retorica dei diritti umani usata come arma coloniale. Gaza, in queste pagine, è il luogo simbolico dove l’umanesimo liberale mostra il suo vero volto: cieco, violento, ipocrita.

Con stile netto e argomentazioni serrate, l’autrice ci obbliga a guardarci allo specchio. Il suo libro è una requisitoria, ma anche un esame della nostra capacità – individuale e collettiva – di chiamare le cose con il loro nome.

Rula Jebreal – giornalista, scrittrice, intellettuale palestinese cresciuta in Israele e formatasi tra Europa e Stati Uniti – costruisce un’opera ibrida e densa, in cui si fondono esperienza personale, inchiesta giornalistica e critica politica. Nata a Haifa, orfana di madre e cresciuta in un orfanotrofio a Gerusalemme Est, ha fatto del racconto della marginalità e dell’oppressione il centro della sua carriera. In Genocidio essa rivendica con forza il diritto a raccontare la Palestina non da spettatrice, ma da parte in causa, con rigore e passione. Il libro alterna analisi storica e giuridica, inchiesta giornalistica, racconto autobiografico e riflessione politica. Gaza è il centro, ma tutto intorno si dispiega una critica più ampia alla struttura coloniale, al razzismo antiarabo, all’uso politico della mitologia olocaustica.

Nel libro, il 7 ottobre 2023 è riconosciuto come un momento traumatico, ma non certo come un inizio. È l’evento che riaccende l’attenzione mondiale, ma non è la radice del disastro. La vera cesura, scrive l’autrice, non consiste nell’attacco in sé, ma in ciò che segue: una macchina di distruzione totale, mossa da tecnologia militare avanzata, sostenuta da un’impunità politica globale e guidata da un intento genocida apertamente dichiarato da membri del regime sionista.

La Jebreal ricostruisce con estrema precisione la genesi e la diffusione di alcune delle più vergognose falsità utilizzate per giustificare la repressione. Il caso più emblematico è quello dei “quaranta bambini decapitati a Kfar Aza”: una notizia rilanciata senza alcuna verifica da organi internazionali, da giornalisti incorporati nell’esercito israeliano e persino dal presidente Joe Biden. In realtà, fa notare la Jebreal, non esistono immagini, testimonianze, referti, né conferme da parte dell’IDF. È lo stesso Haaretz, quotidiano israeliano, a riferire che i funzionari militari “non avevano informazioni del genere”.

Altro tema chiave è quello degli stupri: secondo la narrazione ufficiale, Hamas avrebbe commesso “violenze sessuali su larga scala”. La Jebreal dedica diverse pagine a decostruire questa accusa. Non esistono, dice, né prove forensi né denunce formali, né testimonianze verificate. Il governo israeliano ha rifiutato l’accesso a una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite. Le accuse provengono quasi esclusivamente da ZAKA, un’organizzazione religiosa ebraica già nota per la diffusione di notizie false e implicata in casi di frode e malaffare. Non si tratta, per la Jebreal, di negare ogni singolo atto di violenza – che sarebbe inaccettabile – ma di denunciare la costruzione di un cliché: quello del “palestinese come mostro primitivo”, utile solo a giustificare l’annientamento.

Viene inoltre citato il caso dell’israeliana Shani Louk, presentata dai media occidentali come “decapitata” da Hamas. Anche qui, le ricostruzioni ufficiali sono state smentite da medici tedeschi e da successive analisi forensi: la donna era stata uccisa dall’esercito israeliano durante l’assalto, non dai miliziani. L’autrice parla di “pornografia della morte”, cioè di un uso cinico delle vittime per costruire una narrativa emotiva e unilaterale, utile a silenziare ogni interrogativo morale sull’attacco a Gaza.

A colpire non è solo la sistematicità delle menzogne, ma il modo in cui sono state rilanciate da uomini politici internazionali, grandi media, opinionisti, attiviste femministe europee, senza che nessuno ne verificasse la veridicità. “L’obiettivo – scrive l’autrice – era creare l’Altro assoluto, non umano, non empatico, incompatibile con la civiltà: il terrorista, il violentatore, il tagliatore di teste.” Una figura costruita ad hoc per legittimare la sospensione di ogni diritto.

La conseguenza è una guerra totale, dove l’intera popolazione palestinese diventa “bersaglio legittimo”. Gaza non è più vista come luogo abitato da civili, ma come “tana del nemico”, come zona grigia dove l’etica è sospesa e la legge internazionale ridotta a formalità. Questa mutazione morale è il vero centro del libro: non solo ciò che Israele ha fatto, ma ciò che il mondo ha accettato.

Il genocidio descritto dalla Jebreal è militare, sociale e simbolico. Le armi usate sono bombe da due tonnellate, blocchi umanitari, manipolazione mediatica, fame come metodo e intelligenza artificiale impiegata per colpire in modo selettivo le famiglie palestinesi. Gaza viene trattata come una “zona nera” sperimentale, dove la distruzione è oggetto di test. C’è una strategia precisa: assassinare i padri (sistema “Dov’è papà?”), lasciare orfani, disgregare il tessuto sociale, impedire ogni futuro.

Ma Genocidio è molto di più di una cronaca di guerra. È una lettura strutturale del progetto sionista come colonialismo d’insediamento. La Jebreal racconta la Nakba del 1948 non come evento passato, ma come processo in corso: la cancellazione dei villaggi, il furto delle terre, la sostituzione demografica, il linguaggio giuridico usato per legalizzare l’apartheid. I kibbutzim rivelano ormai la loro natura di simboli della segregazione: “comunità chiuse, costruite su terra espropriata, con lavoro riservato solo agli ebrei”.

La storia della sua famiglia – dalla fuga da Haifa all’umiliazione quotidiana sotto cittadinanza israeliana di seconda classe – diventa la microstoria di un popolo espulso dalla sua terra e dalla sua storia. La Jebreal restituisce voce a chi è stato zittito, non solo con le bombe, ma con le parole. I Palestinesi non solo vengono uccisi: vengono anche cancellati dal racconto, deformati, ridotti a cifra.

Una parte fondamentale del libro è l’attacco frontale all’Occidente. Non solo agli Stati Uniti, che hanno fornito armi e copertura politica a Israele (violando le loro stesse leggi), ma all’Europa intera. Anche l’Italia, dice la Jebreal, ha scelto la neutralità dell’oppressore. I partiti progressisti hanno votato in blocco a favore di Israele, mentre tacevano sui massacri a Gaza. Le femministe hanno rilanciato narrazioni di stupri inventati, mentre ignoravano la fame, la tortura e la morte delle donne palestinesi.

La narrazione olocaustica viene denunciata per il suo uso politico: “non per prevenire nuovi genocidi, ma per giustificare uno in atto”. La Jebreal rifiuta il paragone tra la cosiddetta Shoah e il genocidio palestinese, ma rivendica il diritto di nominare la violenza per ciò che è. E ricorda che il genocidio, per l’ONU, non è solo sterminio fisico, ma anche distruzione della vita culturale, linguistica, familiare, e distruzione dell’infanzia.

Nel capitolo finale, l’autrice propone una via d’uscita. Non si affida alla “soluzione dei due Stati”, che definisce una “formula ipocrita di gestione dell’occupazione”, ma invoca uno Stato unico, democratico, laico, binazionale, con diritti eguali per tutti. È una proposta tanto utopica quanto urgente. Perché, scrive, “l’unica alternativa alla coesistenza è la guerra permanente”.

Genocidio è un’opera d’urto, scritta con rabbia e amore, con rigore e passione, con le fonti giuste e la voce chiara. Per chi vuole capire che cos’è la Palestina, che cos’è l’Occidente, che cos’è il nostro tempo, è un libro imprescindibile.


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Collaboratore di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici". Scrive per la rivista scientifica "Das Andere – L’Altro"; ha collaborato con l'Associazione Politico-Culturale Marx XXI e con Arianna Editrice.