Da “Eurasia”, aprile-giugno 2015

Gli Uiguri in Mongolia

Volendo dare un’idea della “mobilitazione contrastiva della storia” prodotta dallo scontro fra le tendenze separatiste riapparse nello Xinjiang e la rivendicazione di sovranità della Repubblica Popolare Cinese sulla regione, il generale Fabio Mini ha osservato: “Gli uiguri di oggi ricorrono volentieri alla storia per legittimare le loro rivendicazioni di indipendenza, evocando la rappresentazione di una nazione e di uno Stato unitario travolto dalla dominazione cinese alla fine del secolo scorso. Un’oppressione senza scrupoli contro la quale una fiera resistenza avrebbe combattuto e combatte ancora”[1]. Da parte sua, la prospettiva geopolitica cinese si ricollega ad una concezione imperiale e replica più o meno in questi termini: “il dominio imperiale, esercitato per vie diplomatiche o per controllo diretto o per conquiste militari o per cosiddetti ‘protettorati’, era comunque assoluto. Le dinastie, anche barbare, che nei secoli avevano acquisito il controllo del Xinjiang, erano comunque espressioni legittime del potere cinese. Il loro dominio era incontrastato e veniva materializzato dal rapporto di tributo”[2].

Le rappresentazioni messe recentemente in circolazione dalla grancassa mediatica occidentale rivelano la loro inconsistenza e il loro carattere strumentale, qualora vengano passate in rassegna, anche solo in maniera sintetica e sommaria, le vicende storiche degli Uiguri e della regione nella quale essi andarono a insediarsi in un certo momento della loro storia.

Tale rassegna può iniziare dal 744 dell’era volgare, allorché l’impero dei “Turchi Celesti” (Kök Türk), che era sorto in Mongolia nel 552 e all’apice della sua fortuna aveva dominato lo spazio compreso tra il Mar Giallo e il Mar Nero, crollò a causa della ribellione di alcune tribù turciche vassalle, tra le quali quella degli Uiguri.

Il capo degli Uiguri, inviata alla corte imperiale cinese la testa mozzata dell’ultimo qagan turco, assunse a sua volta la dignità di qagan. Nacque così un vasto regno che, estendendosi dal Fiume Giallo al fiume Yili, subentrò ai Turchi Celesti nel dominio della steppa. “Il rapporto che si sviluppò tra gli Uiguri e i Cinesi fu di reciproco beneficio: per non indebolire la dinastia cinese i primi fornirono un notevole sostegno militare, mentre ricevettero dalla Cina un immenso guadagno e una posizione privilegiata nel commercio. Si trattava di un rapporto simbiotico, poiché gli Uiguri erano fedeli alleati, che riconoscevano che non era nel loro interesse permettere che la dinastia Tang fosse rovesciata”[3].

A quell’epoca gli Uiguri parlavano una lingua del gruppo uiguro-oguz (sottogruppo uiguro-tukius), appartenente a sua volta al ramo unno-orientale del gruppo turco. Questa lingua, che possiamo chiamare antico uiguro e che non è molto diversa da quella delle epigrafi dell’Orkhon dei secoli VII-X, si differenzia dalle lingue uigure del gruppo karluk, ossia dall’uiguro dei secc. X-XI, formatosi in seguito all’interazione con l’arabo e col persiano, nonché dall’uiguro dei secc. XI-XIV, costituitosi per effetto dell’invasione mongola. L’alfabeto con cui essa veniva comunemente scritta, detto ‘uigurico’, era “una variante dell’alfabeto sogdiano, derivato a sua volta dall’alfabeto aramaico, cosa ben comprensibile se si pensa al ruolo di diffusori di civiltà espletato dai sogdiani, popolo di intraprendenti commercianti”[4]. Dell’uiguro antico si servì, nell’iscrizione runica di una cinquantina di righe rimasta a Shine Usu, il secondo qagan degli Uiguri, El Etmish, per enumerare gli eventi che si erano susseguiti dal 743 al 750.

In un’altra epigrafe (quella di Qarabalghasun, in turco, cinese e sogdiano) è attestata la conversione degli Uiguri al manicheismo. Il 20 novembre del 762 il qagan uiguro El Tutmish aveva espugnato Lo-yang, liberandola dal generale ribelle An Lushan e restituendola all’imperatore cinese Suzong in cambio di un pagamento annuo di 20.000 rotoli di seta e delle nozze con una principessa tang; ma in quella circostanza il qagan aveva incontrato alcuni missionari manichei che lo avevano indotto ad abbracciare la loro fede. Nel testo cinese dell’epigrafe si legge: “Il paese dai costumi barbari e fumante di sangue si mutò in un paese in cui ci si nutre di legumi; il paese in cui si uccideva, in un paese in cui si incoraggia al bene”[5].

Il manicheismo divenne così la religione ufficiale del regno uiguro e gli Uiguri diventarono i protettori ufficiali delle missioni manichee in Cina. “La protezione del qagan costringe l’imperatore cinese ad accordare ai manichei per due volte – nel 768 e nel 771 – l’autorizzazione a istituire dei ‘templi’ in diverse località. Per due volte ugualmente – nell’806 e nell’817 -, dei manichei vengono accreditati come ambasciatori presso la corte di Cina”[6].

Da parte loro, gli Uiguri intrapresero periodiche campagne militari al servizio dell’impero cinese, esigendo in cambio gravosi pagamenti. “Alcune di queste entrate provenivano dall’esorbitante prezzo che facevano pagare per i cavalli, scambiati con la seta. Un viaggiatore arabo che visitò la capitale uigura [presso Qarabalghasun] riferì che il khaghan riceveva pagamenti annuali di mezzo milione di pezze di seta dalla Cina”[7].

La migrazione uigura nell’attuale Xinjiang

L’egemonia uigura sulla Mongolia durò circa un secolo, finché nell’840 le tribù chirghise provenienti dal nord si impadronirono della capitale, costringendo gli Uiguri a trasferirsi nel Gansu e nel bacino del Tarim, regioni che essi avevano già in parte conquistate verso l’800. Mentre il Gansu venne occupato dalla tribù tibetana dei Tanguti, la valle del Tarim, nel Turkestan orientale, restò in possesso degli Uiguri, i quali fissarono le residenze invernale ed estiva dei sovrani rispettivamente a Qocio (Kuča), nell’odierna oasi di Turfan, ed a Beshbalïq, a nord del T’ien Shan, presso l’odierna Ürümqi.

Il Turkestan orientale era un paese di antica civiltà: lo rivelò, negli ultimi anni dell’Ottocento, il ritrovamento di una serie di manoscritti risalenti ai secoli V-IX d.C., contenenti testi non solo in cinese, mongolo e sanscrito, ma anche in una lingua indoeuropea fino allora sconosciuta: il tocario. Secondo un’ipotesi accreditata presso la maggior parte degli archeologi e dei linguisti, i Tocari avrebbero fatto parte della cosiddetta migrazione pontica e si sarebbero insediati nella regione intorno ai secoli IX-VIII a.C.

All’epoca dell’immigrazione uigura, dunque, “nelle principali città carovaniere, al tempo stesso centri di vita sedentaria, vivevano popolazioni parlanti lingue indoeuropee quali il sogdiano e il sacio (appartenenti al gruppo iranico) e il tocario. Presso queste popolazioni si erano affermate una letteratura religiosa in massima parte di ispirazione buddhistica, per il resto manicaica o nestoriana, e un’arte composita in cui si fondevano elementi dell’arte indiana (greco-romano-buddhistica e gupta), iranica e cinese. Gli uiguri assimilarono la civiltà preesistente alla loro venuta, e ne prolungarono l’esistenza con propri contributi (…) La caleidoscopica civiltà degli uiguri, fatta piuttosto di echi che di sintesi o di originali sviluppi, si spense sul posto, dopo l’invasione mongola”[8].

Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, la maggior parte degli Uiguri venne a trovarsi nell’ulus di Ciagatai, che nella partizione dei domini paterni aveva ricevuto la Kashgaria, l’attuale Xinjiang, i territori ad est del lago Balkash, la Transoxiana e la Semireche. Il contributo che gli Uiguri diedero all’organizzazione degli Stati turco-mongoli fu enorme: i figli di Gengis Khan impararono a leggere e a scrivere la scrittura uigurica, mentre agli Uiguri “venne affidata l’amministrazione delle province conquistate, ed essi, mandati soprattutto in Cina, competevano vantaggiosamente anche con i funzionari del paese, quanto a capacità e destrezza; il cristiano Cingai fu messo a capo di tutta l’amministrazione dell’impero”[9].

Nel periodo mongolo, infatti, gli Uiguri erano in gran parte cristiani[10], essendo stati da tempo evangelizzati dagli zelanti missionari nestoriani. Più sopra si è detto della loro conversione al manicheismo, avvenuta nell’VIII secolo; ma nel bacino del Tarim aveva avuto larga diffusione il buddhismo mahâyâna, tanto che nel 981 la capitale uigura possedeva un solo tempio manicheo, a fronte di una cinquantina di templi buddhisti. Alla predicazione buddhista era poi subentrata quella nestoriana. In questo paesaggio religioso variegato e fluido, in cui manicheismo, buddhismo, cristianesimo nestoriano “coesistevano in una certa tolleranza o indifferenza per le credenze e le pratiche sciamaniste ancestrali”[11], i Turchi introdussero l’Islam, che grazie alla Pax Mongolica si era d’altronde già diffuso da tempo nei territori cinesi.

Gli Uiguri e l’Islam

La graduale islamizzazione degli Uiguri giunse ad uno stadio decisivo allorché Tarmashirîrîn Khân (1326-1334), sovrano dell’ulus ciagataico, abbandonò il buddhismo ed abbracciò l’Islam, diventando sultano col nome di ‘Alâ’oddîn; un ulteriore impulso alla diffusione dell’Islam nella regione venne dato da Tughluq Timur Khan (1343-1363).

Mentre in Cina l’epoca Ming (1368-1644) vedeva nascere e consolidarsi, attraverso un processo di sinizzazione dell’Islam, quell’etnia hui che, costituita di Han convertiti all’Islam, è la più numerosa tra le etnie musulmane della Cina, gli Uiguri condividevano le sorti delle tribù ciagataiche. La tradizione colta rappresentata dal linguaggio amministrativo degli Uiguri fu una componente determinante della cultura ciagataica nei domini di Tamerlano e, in particolare, nelle corti timuridi di Samarcanda, di Herat, di Shiraz. Intanto, a partire dal XVI e ancor più dal XVII secolo, nel Turkestan orientale e in altri territori della Cina nordoccidentale (Gansu, Qinghai, Ninxia) si andavano costituendo i nuclei di quattro confraternite sufiche: la Qadiriyya, la Khufiyya, la Jahiriyya e la Naqshbandiyya; a quest’ultima, in particolare, appartenevano i Khwâja, discendenti dello shaykh Makhdûm-i Azam (morto nel 1540 a Kashgar), che in seguito alla frantumazione del chanato ciagataico governarono la Kashgaria dal 1678 al 1757.            Con la caduta della dinastia dei Khwâja, il Turkestan orientale venne chiamato Huijiang (“Provincia islamica”) ed annesso in maniera stabile al Celeste Impero, alla guida del quale s’era insediata nel 1644 la dinastia sino-mancese dei Qing. “I cinesi consideravano il Turkestan orientale una loro naturale regione d’influenza, al punto che gli scambi commerciali che essi intrattenevano con le popolazioni che lo abitavano erano visti come una forma di tributo offerto da costoro. L’annessione di queste regioni, per il discorso che qui più c’interessa, si risolse in un importante evento: l’inglobamento di un considerevole numero di musulmani non sinizzati (e dei loro centri devozionali) entro i confini dell’Impero. Il Turkestan – che dal lato occidentale era assediato dall’espansionismo russo – venne governato grazie all’ausilio di capi musulmani locali (beg), che in cambio d’assegnazioni fondiarie collaboravano con gli amministratori Han protetti da guarnigioni cinesi stanziate a Ürümqi, Kashgar, Khotan ed altri centri”[12].

Ma dal loro rifugio di Kokand (Qo’qon) i Khwâja detronizzati di Kashgar attendevano che si presentassero le circostanze favorevoli per una riconquista del potere perduto. Sotto la spinta del movimento eterodosso Xin jiao (“Nuova dottrina”), che nel 1781 aveva animato una rivolta di Hui nel Gansu, a partire dal 1820 i Khwâja organizzarono una serie di incursioni in territorio cinese e tra il 1826 e il 1827 suscitarono una sommossa nel Turkestan orientale. Una nuova ribellione scoppiò una ventina d’anni più tardi, nello stesso anno in cui il potere centrale riusciva finalmente a domare la grande rivolta contadina del Taiping Tianguo; in seguito all’insurrezione degli Hui guidata nello Shanxi e nel Gansu da Ma Huolang, capo della confraternita Jahiriyya, nel 1864 gli Uiguri si sollevarono sotto la guida del tagico Yaqub Beg (1820-1877), edificando un’effimera entità politica (il “regno della Kashgaria”) che trovò sostegno presso i Britannici e i Russi e venne riconosciuta dal sultano ottomano. Alla repressione di questa rivolta, avvenuta nel biennio 1877-1878 ad opera del generale cinese Zuo Zong-tang (1812-1885), seguì, nel 1884, la riorganizzazione del Turkestan orientale, che andò a costituire una nuova provincia cinese e ricevette il nome di Xinjiang (“Nuovo Territorio”).

Il separatismo uiguro

Nel primo periodo repubblicano (1911-1949) lo Xinjiang fu teatro di nuove insurrezioni, le quali però presentavano “una peculiarità rispetto a quelle della seconda metà dell’Ottocento: da una caratterizzazione più marcatamente ‘islamica’, ora l’accento viene posto gradualmente sul fattore etnico, con l’Islam che fornisce per così dire la ‘bandiera’ ai separatisti-indipendentisti”[13]. Si cominciò nel 1931, con la rivolta capeggiata dal khwâja Niyâz Hajji, che il 12 dicembre 1933 approdò alla proclamazione di una “Repubblica Islamica Turca del Turkestan Orientale” che nel giro di un anno venne abbattuta dall’esercito nazionalista cinese; il secondo atto ebbe luogo nel 1937 col movimento guidato da ‘Abdallâh an-Niyâz; nel 1940 scoppiò la rivolta di ‘Uthmân Batûr, che fu repressa nel 1943; nel 1944 la rivolta della valle dello Yili si concluse con la proclamazione di una nuova “Repubblica del Turkestan Orientale” che, sostenuta dalle truppe sovietiche, durò fino al 1949, quando Stalin, essendo ormai certa la vittoria di Mao Tse-tung, impose al governo uiguro la riconciliazione con la Cina.  

La Repubblica Popolare Cinese istituì, il 1 ottobre 1955, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, all’interno della quale nacquero due prefetture (chou) autonome (una khalkha ed una hui), nonché due distretti (hsien) autonomi (uno hui ed uno tagico). In base alla Costituzione del 1949, la lingua ufficiale della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang era l’uiguro basato sui dialetti del sud e scritto in lettere arabe (mentre l’uiguro parlato in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbechistan e Turkmenistan, formatosi sulla base dei dialetti del nord, utilizzava l’alfabeto cirillico)[14].

La pratica dell’Islam, che la Costituzione garantiva agli Uiguri così come alle altre nove “nazionalità” (minzu) musulmane della Cina, trovò un valido sostegno nell’Associazione Islamica Cinese, la quale, sorta nel 1953, “si occupò di pellegrinaggi alla Mecca, di rapporti con personalità religiose straniere, di formazione degli addetti al culto ed in generale del coordinamento delle attività religiose e sociali”[15]. L’attività dell’Associazione, interrotta dalla Rivoluzione Culturale, riprese nel 1978, dopo la caduta della “Banda dei Quattro”.

Per assistere ad una ripresa del movimento separatista uiguro, bisogna arrivare agli anni Novanta, quando nello Xinjiang avvengono scontri di piazza ed atti di terrorismo. La condanna a morte di una trentina di attivisti provocò, il 5 febbraio 1997, la dimostrazione di Ghulja, duramente repressa dalla polizia; a ciò fece seguito, venti giorni dopo, la strage di Ürümqi, dove saltarono per aria tre autobus di linea.

Anche se il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, del quale sono stati denunciati i legami con Al-Qaeda, è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, non è certamente l’Islam a costituire la motivazione più forte dell’attuale movimento separatista. “La spinta ideologica della resistenza si avvale di un blando integralismo religioso”[16], per cui il movimento può richiamarsi senza troppe difficoltà ai principi cardinali del sistema occidentale: Democrazia e Diritti Umani. Perciò nel 2008 il National Endowment for Democracy ha potuto stanziare senza difficoltà oltre 500.000 dollari a favore di quattro organizzazioni separatiste che agiscono nello Xinjiang. D’altronde i dirigenti del separatismo uiguro hanno le loro centrali in Occidente: mentre il Congresso Mondiale Uiguro ha sede a Monaco di Baviera, la sua principale esponente, Rebiya Kadeer, grazie all’interessamento diplomatico di Condoleeza Rice si è potuta trasferire da Pechino agli Stati Uniti, dove George Soros ha finanziato un’emittente radiofonica uigura affiliata a “Radio Free Asia” e controllata dalla CIA.


NOTE

[1] Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, “Limes”, 1/1999, p. 85.

[2] Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., ibidem.

[3] J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Newton & Compton, Roma 2002, p. 150.

[4] Alessio Bombaci, La letteratura turca, Sansoni-Accademia, Milano 1969, p. 33.

[5] “Journal Asiatique”, 1913, p. 194.

[6] Henri-Charles Puech, Il manicheismo, in: Storia delle religioni, a cura di H.-Ch. Puech, 8. Gnosticismo e manicheismo, Laterza, Bari 1977, pp. 182-183.

[7] J. A. G. Roberts, Storia della Cina, cit., p. 151.

[8] Alessio Bombaci, La letteratura turca, cit., p. 32.

[9] Giuseppe Messina, Cristianesimo buddhismo manicheismo nell’Asia antica, Nicola Ruffolo, Roma 1947, p. 143.

[10] Sull’attività degli Uiguri nel periodo mongolo cfr. W. Barthold, Turkestan down to Mongol invasion, in Gibb M. S., New series V, Oxford 1928, p. 386 ss.

[11] Claude Cahen, L’Islamismo. I. Dalle origini all’inizio dell’Impero ottomano, Feltrinelli, Milano 1969, p. 283.

[12] Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. III, n. 1, genn.-marzo 2006, pp. 92-93. 

[13] Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, cit., p. 94.

[14] “La formazione della lingua letteraria risale al secolo X e rappresenta il risultato dell’interazione delle lingue turciche di occidente e di oriente con la lingua tagica e con altre lingue iraniche. Il periodo moderno della lingua letteraria inizia nel secolo XVII, quando si avvicina lentamente alla lingua viva del popolo. Il vocabolario della lingua uigurica è molto ricco di prestiti arabi (33%), meno di persiani (7%). Tali prestiti sono molto antichi. Si spiegano coi rapporti economici tra Uiguri, Arabi e Persiani fin dal secolo X” (Lucia Wald – Elena Slave, Ce limbi se vorbesc pe glob, Editura ştiintifică, Bucureşti 1968, p. 149).

[15] Piero Corradini, L’Islàm in Cina oggi, “Islàm. Storia e civiltà”, a. I, n. 1, ott.-dic. 1982, p. 16.

[16] Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., p. 94.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).