Introduzione – Il silenzio che precede la tempesta

Il 13 giugno 2025 ha segnato un nuovo punto di svolta nel conflitto tra Israele e la Repubblica Islamica dell’Iran. In un attacco su larga scala, l’aviazione israeliana ha colpito simultaneamente i principali impianti del programma nucleare iraniano, inclusi i siti di Natanz, Isfahan e Fordow. L’operazione, condotta con il sostegno logistico degli Stati Uniti, ha inflitto danni significativi a infrastrutture strategiche e provocato decine di vittime tra scienziati, tecnici e ufficiali di alto livello. Per la prima volta, il conflitto a bassa intensità tra i due Paesi si è trasformato in una guerra aperta, superando le soglie tradizionali del contenimento e avvicinandosi pericolosamente a un confronto regionale su vasta scala.

Di fronte a una simile intensificazione dello scontro, molti si aspettavano una reazione rapida e coordinata da parte dell’“Asse della Resistenza”: milizie sciite irachene, combattenti Houthi nello Yemen e, soprattutto, Hezbollah, il più potente tra gli alleati armati di Teheran. Invece, il fronte regionale è rimasto sorprendentemente silenzioso[1]. A parte l’attività missilistica ordinaria degli Houthi nel Mar Rosso, non si è registrata alcuna controffensiva concertata. I comunicati ufficiali si sono fatti vaghi, i contatti si sono diradati, e l’apparato militare transnazionale che per anni ha sostenuto la proiezione iraniana sembra essere entrato in una fase di sospensione.

Questa assenza ha suscitato interpretazioni contrastanti. Alcuni osservatori hanno parlato di una crisi di coesione all’interno del fronte sciita, aggravata dalla caduta del regime siriano e dalla conseguente perdita del corridoio territoriale che collegava Teheran al Mediterraneo. Altri hanno indicato nelle pressioni politiche interne – come quelle esercitate in Libano dal presidente Joseph Aoun – un freno all’attivazione di Hezbollah. C’è infine chi legge questa inattività come segno di un logoramento strutturale dell’alleanza, minata da anni di usura operativa e dal progressivo isolamento strategico dell’Iran.

Tuttavia, a uno sguardo più attento, questo silenzio non indica necessariamente un cedimento. Al contrario, può essere interpretato come parte di una dottrina di contenimento differito. Hezbollah, in particolare, non ha rinunciato alla lotta: è stato consapevolmente trattenuto in uno stato di attesa operativa. Non si tratta di un attore disattivato, ma di una risorsa strategica tenuta in riserva per essere impiegata solo se e quando il conflitto dovesse coinvolgere direttamente gli Stati Uniti. In un quadro in cui Teheran cerca ancora di contenere l’escalation a un confronto bilaterale con Israele, l’attivazione anticipata di Hezbollah equivarrebbe a bruciare una delle sue carte più importanti.

Hezbollah oggi non colpisce non perché sia impossibilitato, ma perché non è ancora il momento. La sua forza non è stata ridotta, bensì preservata. È rimasto, di fatto, il principale strumento di dissuasione dell’Iran: una forza tenuta deliberatamente fuori dal campo per rafforzarne l’impatto nel momento in cui sarà chiamata ad agire. In questa logica, Hezbollah incarna la riserva suprema, l’elemento da impiegare solo quando tutte le altre opzioni si saranno esaurite. È la carta coperta che Teheran tiene stretta, pronta a essere calata solo nel momento decisivo.

 

Una quiete calcolata: logica dell’attesa e contenimento differito

Il comportamento dell’Iran e dei suoi alleati nell’attuale fase del conflitto non può essere compreso se si continua a considerare la risposta militare immediata come unico parametro di efficacia strategica. L’assenza di una reazione coordinata e massiva da parte delle forze sciite non equivale a una paralisi, ma riflette una dottrina consapevole e graduata che Teheran ha affinato nel corso di anni e che potremmo definire “contenimento differito”.

Questa strategia si basa su una logica di lungo periodo. In sostanza, si tratta di mantenere il conflitto sotto una soglia controllabile, rispondendo in modo selettivo e calibrato alle aggressioni nemiche, e attivando progressivamente i propri strumenti di pressione solo quando l’equilibrio politico e militare lo richiede. L’Iran, in questo modo, cerca di evitare l’effetto domino che una simultanea intensificazione dello scontro su più fronti produrrebbe: un’esplosione incontrollabile che potrebbe coinvolgere direttamente gli Stati Uniti e compromettere i fragili equilibri regionali.

Due presupposti rendono sostenibile questa strategia. Il primo è che l’Iran non può permettersi di impiegare tutte le sue pedine simultaneamente, pena la perdita del controllo narrativo e diplomatico della crisi, oltre che il rischio di isolamento internazionale. Il secondo è che le sue milizie, da Hezbollah agli Houthi, non sono strumenti automatici di ritorsione, ma risorse politico-militari a disposizione di una regia centrale. Ognuna di esse viene attivata secondo un principio di proporzionalità e opportunità, in base alla funzione specifica che svolge nel dispositivo di deterrenza regionale.

In questo schema, Hezbollah assume un ruolo del tutto particolare. Diversamente dagli Houthi, che mantengono una pressione costante su Israele e sui traffici marittimi internazionali attraverso il Mar Rosso, Hezbollah è oggi tenuto in uno stato di quiete operativa ma vigilante. Non si tratta di un’inerzia passiva, bensì di un’attesa strategica: una sospensione misurata e temporanea che ha come obiettivo il contenimento dell’escalation finché possibile e la preparazione di una risposta più devastante nel caso in cui gli equilibri salteranno.

Il fatto che Hezbollah non abbia reagito apertamente agli attacchi del 13 giugno dimostra non tanto una difficoltà operativa, quanto una disciplina strategica dettata da Teheran. Il movimento non è stato marginalizzato: è stato conservato. Nella visione iraniana, Hezbollah è un’arma a lungo raggio, il cui valore risiede proprio nel suo impiego mirato e tardivo, come fattore moltiplicatore di crisi, pronto a scardinare il fronte nemico solo nel momento decisivo.

Il silenzio, quindi, non è una sconfitta. È parte di un linguaggio di forza, di un equilibrio dinamico che mira a tenere sotto controllo l’instabilità. Teheran, oggi, non cerca di evitare la guerra, ma di scegliere quando e come combatterla. E in questa tempistica, Hezbollah rappresenta il colpo risolutivo, da riservare solo all’eventualità più estrema: l’intervento diretto degli Stati Uniti in Iran.

 

L’attentato ai cercapersone e l’eliminazione dei vertici: un colpo tattico, non strategico

Il 17 settembre 2024 ha segnato un momento di svolta nella guerra silenziosa tra Israele e Hezbollah. Migliaia di dispositivi elettronici – cercapersone e strumenti di comunicazione – sono esplosi simultaneamente in Libano e in Siria, provocando centinaia di vittime tra i ranghi intermedi del movimento sciita. L’azione, attribuita al Mossad, ha mostrato un altissimo grado di penetrazione tecnologica e informativa, colpendo con precisione la rete logistica, operativa e di coordinamento del gruppo.

Dieci giorni più tardi, un attacco aereo israeliano ha centrato un bunker sotterraneo a Beirut sud, uccidendo Hassan Nasrallah, leader carismatico del movimento dal 1992, e gran parte del suo stato maggiore. La sua morte, seguita rapidamente dall’eliminazione del suo successore designato Hashem Safieddine, ha fatto ipotizzare a molti osservatori la possibilità di un collasso imminente dell’organizzazione. Tuttavia, questo scenario non si è verificato. Hezbollah ha assorbito il colpo, ha designato in tempi brevissimi un nuovo segretario generale, Naim Qassem, e ha continuato a esercitare il proprio controllo sul territorio e a garantire la coesione del proprio apparato politico e militare.

Questo non è un episodio isolato nella storia del movimento. Già nel 1992, Hezbollah fu colpito duramente con l’uccisione del suo primo segretario generale, Abbas al-Musawi, eliminato da un attacco israeliano insieme alla moglie e al figlio. Anche in quell’occasione molti ipotizzarono un imminente cedimento strutturale. Invece, il gruppo reagì con determinazione, affidò la guida a Hassan Nasrallah e avviò un’evoluzione decisiva: da milizia di resistenza a forza ibrida, capace di combinare azione militare e presenza politica. Nonostante le perdite, Hezbollah mantenne intatta la capacità di comando e riuscì a infliggere gravi perdite alle forze israeliane, conquistando al termine del conflitto una nuova centralità nella scena politica libanese.

Questi precedenti dimostrano che Hezbollah non è una milizia improvvisata né un’organizzazione verticistica facilmente disarticolabile. È una struttura flessibile e stratificata, progettata fin dalla nascita per sopravvivere alla decapitazione della propria struttura dirigente. La sua forza risiede nella formazione continua dei quadri intermedi, nella ridondanza delle competenze operative e nella capacità di adattarsi a contesti mutevoli. La stessa esistenza di una linea di successione codificata – non sempre pubblica, ma attentamente gestita – consente una transizione di potere quasi automatica in caso di crisi.

Pertanto, anche gli eventi del settembre 2024, per quanto traumatici, non hanno prodotto l’effetto strategico auspicato da Israele. Hezbollah ha mostrato di essere in grado non solo di resistere, ma di riorganizzarsi rapidamente, consolidando la propria presenza territoriale e mantenendo intatta la capacità di deterrenza. È questo patrimonio di adattamento organizzativo che rende il movimento un attore strutturale e non contingente nel quadro mediorientale.

 

Il nuovo contesto regionale: la fine del corridoio siro-iraniano e le nuove rotte verso il Mediterraneo

L’8 dicembre 2024 ha segnato un punto di rottura per l’Asse della Resistenza. Con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte di Hayat Tahrir al-Sham in Siria, l’Iran ha perso un alleato fondamentale e, con esso, l’intero corridoio terrestre che collegava Teheran a Beirut via Iraq e Siria[2]. Questo evento ha avuto un impatto immediato sull’intera architettura strategica iraniana nel Levante, costringendo i vertici militari e politici della Repubblica Islamica a ripensare radicalmente le proprie rotte logistiche.

In risposta, Teheran ha avviato una riorganizzazione profonda dei propri canali di approvvigionamento verso Hezbollah, articolando una rete alternativa di transito che sfrutta contesti instabili e aree di difficile controllo. In particolare, secondo un’analisi pubblicata il 10 aprile 2025 dal centro studi Alma, basata su immagini satellitari e fonti accessibili, nella regione centro-orientale del Sudan è stato individuato un vasto complesso sotterraneo attribuito al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC). Situata alle coordinate 16.251586° N, 32.646261° E, la struttura si sviluppa in profondità ed è dotata di almeno dodici ingressi fortificati. Per concezione ingegneristica e livello di protezione, ricorda le basi missilistiche iraniane nel Golfo Persico ed è ritenuta capace di resistere a bombardamenti convenzionali. Secondo alcuni analisti militari, il sito non si limiterebbe a funzioni di stoccaggio: al suo interno potrebbe trovarsi anche una linea di produzione missilistica attiva, con la capacità di assemblare vettori destinati a gruppi alleati nella regione.

La funzione strategica di questa infrastruttura appare duplice: da un lato agisce come hub logistico sicuro per lo smistamento di materiali sensibili, dall’altro consente all’Iran di aggirare i controlli aerei e terrestri lungo il tradizionale corridoio siro-iracheno, oggi compromesso dalla caduta del regime siriano e dalla presa del potere da parte di forze ostili a Teheran. Approfittando dell’instabilità del Sudan e della frammentazione territoriale della Libia, Teheran ha riorganizzato le proprie rotte: una delle più sofisticate – documentata nello stesso rapporto di Alma – prevede l’invio di armi e componenti in Sudan, il loro trasporto clandestino attraverso la Libia e il successivo trasferimento via mare nel Mediterraneo, dove Hezbollah sarebbe incaricato del recupero in punti prestabiliti a mare aperto[3].

Accanto a queste vie terrestri e marittime, la Repubblica Islamica si avvale anche di voli cargo indiretti, spesso con scalo in Turchia e Iraq. In tali operazioni, non vengono spedite armi complete ma componenti separati e tecnologie a doppio uso, più difficili da identificare nei controlli doganali. Questa frammentazione logistica consente a Teheran di ridurre il rischio di intercettazioni e di mantenere attivo un canale di rifornimento verso Hezbollah, anche in un contesto di elevata pressione internazionale.

Questo nuovo sistema, sebbene più complesso e rischioso, dimostra la capacità dell’Iran di adattarsi a un ambiente geopolitico mutato. La Siria non è più un alleato. Ma il sostegno a Hezbollah continua, trasformandosi in una rete capillare, meno visibile ma ancora efficace. L’obiettivo resta invariato: garantire la sopravvivenza operativa e la forza deterrente del movimento sciita libanese, rendendolo pronto a intervenire nel caso in cui la Repubblica Islamica venga direttamente attaccata da potenze esterne.

 

Hezbollah come deterrente supremo: un’attesa che rafforza

Parlare di Hezbollah come di un attore “indebolito” significa fraintendere la natura del conflitto in corso. I colpi inferti al movimento da parte di Israele – per quanto incisivi – non ne hanno cancellato la capacità operativa. Hezbollah controlla ancora vaste porzioni del sud del Libano, mantiene una forza combattente numerosa e motivata e dispone di un arsenale missilistico sufficiente a colpire in profondità il territorio israeliano.

Secondo le valutazioni più accreditate, il movimento sciita conserva oggi oltre 130.000 tra razzi e missili, con una crescente disponibilità di sistemi a lungo raggio dotati di guida avanzata. Tra questi rientrano anche i missili da crociera supersonici P-800 Oniks, in grado di trasportare testate da 250 chilogrammi a velocità superiori a Mach 2 e di colpire obiettivi fino a oltre 300 chilometri di distanza. Tali caratteristiche rendono questi vettori una minaccia concreta contro infrastrutture strategiche israeliane. Un attacco coordinato potrebbe colpire porti commerciali, come quello di Haifa, infrastrutture energetiche lungo la costa, aeroporti civili e militari, basi radar, centri industriali e reti logistiche vitali per l’economia israeliana. La combinazione tra gittata, potenza distruttiva e velocità di penetrazione li rende estremamente difficili da intercettare, anche con i più avanzati sistemi di difesa attualmente in uso.

Uno scenario di guerra totale in cui Hezbollah decidesse di impiegare l’intero proprio arsenale missilistico, o anche solo le componenti più avanzate, comporterebbe conseguenze significative per Israele. Non si tratterebbe soltanto di danni fisici e infrastrutturali: l’impatto psicologico, sociale e politico di un attacco capace di interrompere la vita quotidiana di ampie fasce della popolazione sarebbe devastante. Già nel 2006, con mezzi molto più limitati, Hezbollah era riuscita a colpire obiettivi fino a 90 chilometri all’interno del territorio israeliano. Nel 2024, dopo l’attacco al loro quartier generale e l’uccisione di Nasrallah a settembre, il movimento rispose con un’ondata di oltre 240 razzi il 23 settembre e successivi lanci prolungati tra il 21 e il 24 settembre, colpendo città della Galilea, basi militari e infrastrutture al confine.

In questo quadro, la decisione di non impiegare immediatamente tali capacità non riflette debolezza né esitazione, ma risponde a una strategia chiara e ponderata. Hezbollah viene tenuto in riserva dall’Iran perché rappresenta il principale fattore di pressione nel confronto regionale. Il suo impiego è previsto solo in condizioni estreme, come un’aggressione diretta contro la Repubblica Islamica da parte degli Stati Uniti. L’Iran, infatti, ha tutto l’interesse a mantenere viva la minaccia latente rappresentata da Hezbollah, senza consumarla prematuramente in scontri a bassa intensità.

In questo senso, la funzione di deterrente affidata al movimento libanese è tanto più efficace quanto più resta potenziale. La minaccia che non si manifesta subito, ma che incombe come possibilità concreta, pesa di più nelle valutazioni degli attori coinvolti. La deterrenza, infatti, non si misura con la frequenza dell’uso ma con la credibilità della risposta. E in questo, Hezbollah resta uno strumento formidabile: una forza che non è stata impiegata appieno non perché non sia in grado di agire, ma perché è destinata a farlo quando il prezzo politico della guerra sarà più alto per tutti.

 

Conclusione – Hezbollah come riserva di guerra e garanzia di dissuasione

Ciò che si presenta oggi come assenza o immobilismo nel teatro mediorientale è, in realtà, l’espressione di una strategia ponderata e coerente. L’Iran ha deliberatamente evitato di attivare simultaneamente tutte le risorse della sua rete regionale, scegliendo invece di riservare Hezbollah – il più strutturato e potente tra i suoi alleati – come strumento di ultima istanza, da impiegare solo nel caso in cui la sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica venga messa a rischio da un intervento diretto statunitense.

Questo approccio non implica affatto una perdita di forza, né una crisi di volontà all’interno del movimento libanese. Al contrario: Hezbollah ha dimostrato una notevole capacità di adattamento organizzativo e dottrinale, mantenendo coerenza politica, continuità operativa e un saldo radicamento nella propria base territoriale e sociale. Le offensive subite, per quanto gravi – compresa la perdita del suo storico leader – non ne hanno scalfito le fondamenta. Al contrario, le hanno costrette a perfezionarsi, a consolidare la propria architettura e ad aggiornare la propria visione del conflitto.

Il suo silenzio, dunque, non è un vuoto, ma un segnale. È un atto politico, e come tale forse più eloquente di qualunque attacco missilistico o dichiarazione pubblica. In un equilibrio regionale sempre più instabile, Hezbollah rappresenta una minaccia latente, e proprio per questo più temibile: non si espone, non spreca energie, ma resta intatto nella sua funzione fondamentale – quella di garante della deterrenza iraniana e di possibile catalizzatore di un’intensificazione regionale dello scontro, qualora tutte le soglie venissero superate.

Nel momento in cui il conflitto dovesse oltrepassare anche l’ultimo argine — vale a dire il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti — Hezbollah sarà con ogni probabilità chiamato a intervenire. Non come semplice forza di supporto, ma come secondo fronte centrale. In quel frangente, i confini del confronto mediorientale potrebbero ridefinirsi in modo irreversibile, coinvolgendo il Libano, la Galilea, i corridoi marittimi e, forse, gli equilibri interni di altri paesi della regione.

Per ora, la calma è solo apparente. Sotto la superficie, la macchina della guerra non è stata smantellata: è intatta. E pronta ad agire.


NOTE

[1] “L’Asse della Resistenza non risponde. L’Iran combatte da solo contro Israele”, 20 giugno 2025, il manifesto, www.ilmanifesto.it/lasse-della-resistenza-non-risponde-liran-combatte-da-solo-contro-israele.

[2] Gabriele Repaci, La Siria dopo Assad, in Eurasia – Rivista di studi geopolitici, n. LXXVIII, “Nel mirino dell’Occidente”.

[3] “Recalculating Route: The Iran and Hezbollah Corridor to Lebanon”, 10 aprile 2025, Alma Research, https://israel-alma.org/recalculating-route-the-iran-and-hezbollah-corridor-to-lebanon/.


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