Ai primi di settembre è iniziata la tanto pubblicizzata controffensiva propagandistico-militare ucraina in stretta collaborazione con i servizi di intelligence anglo-americani e con la NATO. Di fatto, mentre l’esercito ucraino, tra primavera e primi mesi d’estate, veniva decimato nel Donbass (tra morti, feriti e prigionieri, le forze armate russe avrebbero messo fuori combattimento tra le 150,000 e le 200,000 unità ucraine, numero estremamente alto se si considerano i limiti autoimposti da Mosca all’impegno di uomini e mezzi), un nuovo esercito (costituito di coscritti e mercenari) veniva addestrato ed armato dall’Occidente nelle retrovie. I dati forniti dal Pentagono in questo senso sono abbastanza emblematici. Dall’inizio della cosiddetta “Operazione Militare Speciale” gli Stati Uniti hanno addestrato 1.475 militari ucraini all’utilizzo delle armi nordamericane: 630 sono stati addestrati all’utilizzo degli obici M777; 325 all’utilizzo dei sistemi HIMARS; 330 sugli obici M109; 120 sugli M113 APC; ed altri ancora all’utilizzo dei sistemi aerei con pilota remoto.

L’offensiva congiunta NATO-Ucraina si è concentrata soprattutto nella regione di Cherson (Ucraina meridionale) e nella regione di Kharkov (Ucraina nord-orientale). Non è ancora chiaro se l’attacco su Cherson sia servito da “diversivo” per distrarre l’esercito russo dalla regione nord-orientale (possibile obiettivo reale dell’offensiva vista la scarsa presenza di difese organizzate). Ciò che al momento appare evidente è l’ingente costo in termini di vite umane che l’offensiva ha portato con sé su entrambi i settori (ad ulteriore dimostrazione del fatto che l’Occidente sia assolutamente pronto a combattere fino all’ultimo ucraino).

L’iniziativa di Kiev sicuramente merita un’analisi approfondita in termini di costi/benefici per ciò che concerne tutte e tre le dimensioni della guerra: quella militare; quella politico-economica e quella culturale. In primo luogo, come ha riportato l’ex gen. Fabio Mini in un articolo apparso l’11 settembre su Il Fatto Quotidiano, è bene chiarire che il ripiegamento difensivo (per accorciare le linee di rifornimento ed acquisire tempo utile alla riorganizzazione militare) è una tattica normale e consueta in una guerra convenzionale come quella in atto nel Paese dell’Europa orientale. É stata utilizzata negli otto anni pregressi di conflitto sia dalle forze armate ucraine sia dai ribelli separatisti. Ed è stata utilizzata dagli stessi Russi in diverse occasioni nel corso dell’“Operazione Militare Speciale” per evitare la formazione di sacche e/o calderoni (ciò che, al contrario, è accaduto a Mariupol alle forze armate ed alle milizie ucraine rimaste accerchiate senza possibilità rifornimento; ciò che, tornando indietro nel tempo, accadde alla VI° Armata tedesca a Stalingrado nel corso della Seconda Guerra Mondiale). La storia militare russa presenta diversi casi in questo senso. Ad esempio, con le dovute proporzioni, nonostante l’esito non del tutto negativo della Battaglia di Borodino (7 settembre 1812), il gen. Michail Kutuzov scelse di ripiegare consentendo all’esercito napoleonico di entrare a Mosca. Questo, tuttavia, decimato (Napoleone stesso definì lo scontro come “la più terribile delle mie battaglie”) e privo di una effettiva vittoria sul campo, si dimostrò incapace di mantenere le posizioni acquisite nel corso del tempo.

Il caso ucraino presenta alcune affinità ed evidenti divergenze. Innanzitutto è opportuno valutare l’effettivo valore strategico di una “vittoria” ottenuta quasi esclusivamente a causa del ritiro dell’avversario (ragione per cui parlare di “collasso” delle difese russe rimane piuttosto fuorviante). Di fatto, i suddetti limiti che Mosca ha imposto all’Operazione in Ucraina non le hanno potuto consentire di difendere in egual modo e con la medesima intensità un fronte di oltre 1000 km. Preso atto di ciò, si è preferito concentrare le difese nel sud e nei territori delle repubbliche separatiste rimasti intaccati dall’offensiva ucraina (fatta eccezione per un tentativo di sfondare le linee nei pressi di Lysychansk che, al momento, non sembra aver sortito particolare effetto). Non a caso, durante la stessa offensiva ucraina nella regione Kharkov, i Russi hanno continuato ad avanzare nella regione di Donetsk (il cui territorio è ancora in parte sotto controllo di Kiev) ottenendo alcuni rilevanti successi (si veda la conquista di Kodema).

Liberazione e protezione della popolazione russofona delle regioni Donetsk e Lugansk rimane la pietra angolare sulla quale Mosca ha costruito la giustificazione “umanitaria” all’Operazione Militare Speciale. Ad essa si aggiungono le motivazioni più squisitamente geopolitiche come la protezione della Crimea (la cui base navale di Sebastopoli, al pari di quella di Tartus in Siria per il Mare Mediterraneo, risulta fondamentale per il rifornimento della flotta russa nel Mar Nero) e la volontà di escludere la NATO dalla fascia settentrionale del suddetto mare. Ciò comprometterebbe non poco il progetto atlantista di accerchiare e rendere indifendibile il territorio russo attraverso la cooptazione nell’Alleanza di Ucraina e Georgia; inoltre limiterebbe l’efficacia dell’Iniziativa Tre Mari rivolta al “doppio contenimento” russo-tedesco ed alla degermanizzazione dell’UE per mezzo della decostruzione del tessuto industriale tedesco e delle sue aree satellite (ad esempio, i distretti industriali dell’Italia settentrionale).

Sembra quasi paradossale, ma la Russia sta combattendo in Ucraina anche per l’Europa, sebbene questa, accecata da una classe politico-dirigente che obbedisce agli ordini d’Oltreoceano, sia incapace di riconoscerlo. Il progetto Tre Mari, infatti, è totalmente rivolto ad ancorare l’Europa orientale agli Stati Uniti in modo da trasformarla in una vera e propria portaerei nordamericana, costruita per il contenimento della Russia e per il controllo della parte centro-occidentale del continente. Nelle infrastrutture previste dal progetto, infatti, spiccano i rigassificatori polacchi e croati (fondamentali per il trasferimento di GNL nordamericano) e la ferrovia Danzica-Costanza (utilizzabile anche per il trasporto militare, al pari di altri corridoi paneuropei) che si pone a debita distanza dalle basi militari russe di Kaliningrad e nella Transnistria (dunque, a distanza di sicurezza dalle avanzate strumentazioni di guerra elettronica) e risulta ben protetta dalla basi NATO di Redzikovo e Deveselu[1].

In secondo luogo, è opportuno notare che il volume di territorio riconquistato dalle forze armate ucraine nella regione di Kharkov (nonostante il valore strategico di cuscinetto protettivo dell’area settentrionale della Repubblica separatista di Lugansk) rimane piuttosto ridotto. Si parla di circa 3000 km² (per rendere meglio l’idea, la Sardegna ha una superficie di 24.000 km²). A ciò si aggiunga che l’elevato numero di perdite, come affermato dal gen. Marco Bertolini, impedirà a Kiev di svolgere azioni simili nei prossimi 5 o 6 mesi (tempo necessario al nuovo addestramento di coscritti ed all’immissione di nuovi mercenari di varia natura sul suolo ucraino)[2]. Non solo. Mosca, come azione di ritorsione, ha subito inviato un chiaro messaggio al governo ucraino mettendo fuori uso in poche ore buona parte delle infrastrutture elettriche dell’area sud-orientale del Paese (ovvero, lungo la linea del fronte) ed i sistemi ferroviari indispensabili al trasporto di materiale bellico[3]. In questa regione sono infatti presenti la maggior parte delle infrastrutture energetiche ucraine (tutte risalenti all’epoca sovietica) tra cui (oltre all’ormai celebre centrale nucleare di Zaporižžja sotto controllo russo già dalle prime fasi del conflitto) diverse centrali termoelettriche indispensabili per il sostentamento energetico del Paese. Fino ad oggi, nonostante la propaganda occidentale abbia cercato di dimostrare il contrario, la Russia ha cercato di limitare in ogni modo gli attacchi diretti alle infrastrutture civili. A questo proposito un paragone con l’Operazione Allied Force della NATO contro l’ex Jugoslavia si rende indispensabile. In quell’occasione, nel corso dei 78 giorni di bombardamenti, decollando soprattutto dalla basi italiane, la NATO distrusse 63 ponti, 14 centrali elettriche, 23 linee e stazioni ferroviarie, 100 centri d’affari, raffinerie e fabbriche automobilistiche, causando danni per oltre 100 miliardi di dollari[4] (senza considerare gli inquantificabili danni ambientali generati dall’utilizzo massiccio di proiettili ad uranio impoverito, problema del quale sono affette anche le aree sottoposte a servitù NATO in Italia, come il poligono militare di Quirra nella già citata Sardegna). Ciò che sorprende è che, colpendo soprattutto infrastrutture civili, la NATO lasciò quasi intatta la capacità militare dell’esercito jugoslavo. Ragione per cui (ancora una volta paradossalmente) la Russia di El’cin fu costretta a fare pressioni su Milosevic per costringerlo ad accettare una pace di compromesso (piuttosto umiliante) pur di tirare fuori l’Alleanza Atlantica dal vicolo cieco nel quale si era cacciata (considerando che nessuno Stato membro era disposto allora ad inviare truppe di terra).

Naturalmente, il comportamento della NATO nell’ex Jugoslavia non giustifica un’eventuale simile postura della Russia in Ucraina. Tuttavia, rende bene l’idea di ciò che potrebbe avvenire nel caso in cui le forze armate ucraine oltrepassassero i limiti che Mosca ha cercato di porre e porsi.

Dunque, l’offensiva nella regione di Kharkov rimane un episodio non particolarmente decisivo (come non lo fu il ritiro russo dall’area settentrionale del Paese) all’interno del confronto militare in corso. Chi scrive rimane fermamente convinto che i maggiori successi fin qui ottenuti da Kiev siano maggiormente ascrivibili alle azioni di sabotaggio che i servizi ucraini (coadiuvati da quelli occidentali) sono stati capaci di compiere dietro le linee russe distruggendo diversi depositi di munizioni rivelatisi fondamentali per i successi russi nel Donbass. Come è stato riportato nel gazzettino ufficiale del Corpo dei Marines statunitensi, le azioni diversive russe nell’area settentrionale dell’Ucraina nel corso della prima fase dell’Operazione Militare Speciale erano soprattutto rivolte a distrarre le forze armate ucraine dalle principali aree di interesse russe, fascia meridionale e Donbass, dove si è avuto tempo e modo per accumulare un quantitativo enorme di materiale bellico fondamentale per l’offensiva primaverile. Il fatto che l’azione su Kiev avesse un valore eminentemente diversivo è stato dimostrato dal fatto che i Russi, in quelle aree, a differenza di quanto fatto nel Donbass, non hanno in alcun modo proceduto con forme di assimilazione diretta come l’introduzione di sistemi telefonici e bancari russi o con la sostituzione del personale amministrativo[5].

Resta da valutare l’impatto morale ed emotivo dell’offensiva ucraina. Sicuramente, se Kiev non fosse commissariata dalla NATO, potrebbe sfruttare l’onda lunga di questo successo per riaprire il discorso negoziale con la Russia e porre fine in modo più che onorevole ad una condizione di conflitto che, oscillando tra bassa ed alta intensità, dura ininterrotta da più di otto anni. Diverso è il discorso per ciò che concerne la Russia. Il ritiro dalla regione di Kharkov, nonostante il non decisivo impatto militare, rappresenta un duro colpo in termini di proiezione di influenza, visto che questa regione (in larga parte russofona) poteva rientrare di diritto nei già citati progetti di assimilazione diretta (non a caso, le voci di persecuzioni della popolazione da parte delle forze di sicurezza ucraine si fanno già abbastanza consistenti). Rappresenta un duro colpo perché incrina uno dei pilastri della cosiddetta “dottrina Gerasimov” impostata sull’idea di conflitto “non lineare” in cui il processo bellico rappresenta sì una fase cruciale della guerra, ma non quella più importante, visto che ad esso si collega un complesso sistema di destrutturazione ideologico-economica dell’avversario ispirato da correnti di pensiero militare (antiche e moderne) tipicamente orientali (nello specifico, incrina il principio di demoralizzazione del contendente diretto attraverso gli strumenti propri della guerra ibrida). E rappresenta un duro colpo anche sul piano interno per ciò che concerne il tasso (comunque ancora elevato) di approvazione del quale gode la figura di Vladimir Putin e per ciò che concerne il dibattito sulla gestione “oculata” o meno dell’Operazione Militare Speciale.

A questo proposito, sarà bene ricordare che uno degli obiettivi prefissati dal piano elaborato dal think tank nordamericano Rand Corp nel 2019 per indebolire la Russia era proprio quello di adottare ogni misura necessaria per aumentare nella popolazione russa la percezione che il governo di Vladimir Putin non persegua affatto l’interesse nazionale. In questo contesto, la poderosa campagna propagandistica (contornata da disinformazione) che ha accompagnato l’offensiva ucraina in Occidente ha sicuramente svolto un ruolo di primo piano. Tuttavia, è altresì opportuno ricordare che una (comunque assai remota) defenestrazione dall’alto di Putin, ad oggi, non porterebbe nessun particolare vantaggio all’Occidente, viste le reiterate provocazioni nei confronti della Russia ed il ruolo “frenante” che proprio il Presidente russo ha svolto in questi anni di fronte al rischio sempre più concreto di veder scivolare il mondo verso la catastrofe di un conflitto globale su vasta scala. Ciò che la propaganda occidentale (per ignoranza o per malafede) evita scientemente di sottolineare è il fatto che non è per niente sicuro che Putin possa venire rimpiazzato da una personalità più “moderata”.

Così come evita di sottolineare che, tramite la complessa struttura decisionale (verticistica e stratificata) del Partito Russia Unita, Putin negli ultimi due decenni è riuscito ad assumere il ruolo di arbitro tra una galassia di interessi estremamente eterogenei (dalle istanze liberali a quelle più apertamente nazionalistiche e belliciste) ed in costante conflitto tra loro. In qualità di “decisore ultimo” (incarnazione di quello schmittiano concetto di sovranità che in Cina è fatto proprio dal Partito Comunista), Putin ha infatti svolto una incessante azione di bilanciamento che gli ha consentito di ottenere risultati più che ragguardevoli, soprattutto in termini di ridimensionamento della rete oligarchico-cleptocratica costruita nell’era El’cin e di ricostruzione e riorientamento del tessuto economico-industriale russo (basti pensare che nel 2016 la Russia ha superato gli Stati Uniti come principale esportatore di grano al mondo). Ed è abbastanza naturale che per questi semplici motivi l’Occidente non lo abbia particolarmente in simpatia.

In questo processo di (tentata) delegittimazione dei vertici politici russi rientra anche il recente attacco azero nei confronti dell’Armenia (le forze armate azere avrebbero attaccato direttamente il territorio armeno a Goris, Kapan, Vardenis e Jernuk) che punta non solo ad aprire (potenzialmente) un nuovo fronte di destabilizzazione nella regione caucasica, ma anche a rendere nulli gli sforzi russi di mediazione tra i contendenti e (eventualmente) a coinvolgere l’Iran, la cui condivisione di confini con l’Armenia rimane fondamentale per la cooperazione strategica con l’Unione Economica Eurasiatica.

La dinamica in cui si sono svolti i fatti va sicuramente valutata con estrema attenzione, data l’estrema ambiguità che ha storicamente contraddistinto il Primo Ministro armeno Nikol Pashynian (salito al potere con modalità da “rivoluzione colorata” ma che deve la sua riconferma e salvezza proprio a Mosca, nonostante la rovinosa disfatta nella guerra del 2020). Tuttavia, è importante sottolineare anche il pernicioso ruolo svolto da Baku nei processi di destabilizzazione della regione caucasica a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, quando l’Azerbaigian (attraverso la compagnia Mega Oil, società ombra della CIA fondata dai veterani Richard Secord, Edward Deadborn ed Heine Aderholt) divenne centro di addestramento e smistamento per i miliziani gihadisti diretti in Cecenia.

Oltre a quello dell’Asia centrale, dove il sedicente “Stato Islamico” continua ad operare in sostanziale comunità di intenti con la CIA (si veda l’attentato contro l’ambasciata russa a Kabul dopo un accordo di cooperazione tra Russia e Afghanistan), rimangono caldi anche il fronte africano, mediorientale e balcanico. Soprattutto in Africa, la Russia ha operato in modo estremamente efficace, cercando di “accerchiare” da sud la NATO attraverso la cooperazione sempre più stretta con i Paesi dell’Africa settentrionale (Algeria in primo luogo, seguita dall’Egitto) e con quelli della fascia sahariana e subsahariana (il caso maliano e della Repubblica Centrafricana, in questo senso, sono emblematici) dove, in cooperazione con la Cina, è riuscita anche a limitare la plurisecolare influenza franco-britannica. Un ruolo di primo piano in questo contesto l’ha avuto sicuramente il celeberrimo Gruppo Wagner, l’esercito privato dell’oligarca Evgeni Prigozin, che, lavorando a stretto contatto con i servizi di sicurezza russi, agisce come procacciatore di clienti per l’industria militare di Mosca e come strumento di proiezione di influenza occupandosi, nei Paesi in cui è presente, anche di logistica medica ed alimentare[6].

Diverso è il discorso per ciò che concerne i fronti mediorientale e balcanico. In Siria, a differenza di quanto avvenuto in Libia dopo che Gheddafi promise la creazione di una base russa a Bengasi, Mosca è riuscita a sostenere il legittimo governo di Bashar al-Assad ed a salvare le preziose basi di Tartus e Latakia sviluppando con la Turchia una sia pur fragile cooperazione che nel Paese levantino ha visto sgretolarsi i sogni subimperialisti nutriti dall’amministrazione Obama.

Non meno rilevante è (ed è stato) il ruolo turco nel teatro balcanico (anche di fronte alle nuove tensioni ai confini tra la Serbia e l’entità kosovara). Qui gli interventi della NATO negli anni ’90 (Operazione Maritime Monitor, Operazione Deny Flight e la già citata Operazione Allied Force), contornati dall’immissione e dall’addestramento di milizie gihadiste nella regione (tra cui spicca il kosovaro UCK addestrato dalla CIA in Albania), rinvigorendo la storica linea di penetrazione turco-ottomana nei Balcani (la cosiddetta “dorsale verde”), avevano il preciso scopo di accerchiare la componente cristiano-ortodossa della regione cercando di rompere la continuità culturale-religiosa che arriva fino ai confini russi.

A partire dai primi anni 2000, la progettualità geopolitica neoottomana ha incontrato la dottrina sulla “profondità strategica” di Ahmet Davutoğlu (incentrata sulla proiezione di influenza turca in tutto il mondo turanico resa esplicita dall’appoggio diretto all’Azerbaigian) ed il concetto di “Patria blu” dell’ammiraglio Cem Gürdeniz, rivolto a garantire alla Turchia il necessario dominio sul tratto di mare adiacente alle sue coste.

Agendo sempre in difesa del proprio interesse nazionale, la Turchia è riuscita a creare una sorta di bilanciamento tra la sua partecipazione all’Alleanza Atlantica e la sua posizione geografica che la rende un ponte naturale tra Asia ed Europa ed un interlocutore fondamentale per la Russia. Di fatto, nonostante certe frizioni geopolitiche, la Turchia di Erdoğan è riuscita ad accreditarsi sia come socio dell’industria energetica russa (in contrasto con i progetti di cooperazione nel settore gassifero tra Israele, Cipro e Grecia) sia come fornitore militare dei Paesi NATO nell’Europa orientale (Polonia in primo luogo) e della stessa Ucraina, che sull’accordo di produzione in loco dei droni di progettazione turca Bayraktar Tb-2 ha costruito buona parte della sua dottrina militare recente.


NOTE

[1]G. Gabellini, 1991-2022 Ucraina: il mondo al bivio. Origini, responsabilità e prospettive, Arianna Editrice, Bologna 2022, p. 166.

[2]“La controffensiva di Kharkiv non può essere replicata”, spiega il generale Bertolini,12 settembre 2022, www.agi.it. Sul limitato capitale umano spendibili nel conflitto da parte di Kiev si veda Guerra demografica e guerra economica, 10 giungo 2022, www.eurasia-rivista.com.

[3]Si veda Breaking: blackout in Ukraine, 11 settembre 2022, www.southfront.org.

[4]A. Burgio – M. Dinucci – V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Derive/Approdi, Roma 2005, p. 30.

[5]Si veda The Russian invasion of Ukraine, Maneuverist Paper No. 22: Part II, The mental and moral realms, United States Marine Corps Gazette, Agosto 2022.

[6]I gruppi mercenari agiscono ovunque nel medesimo modo. A prova di ciò si può portare all’attenzione il tristemente noto gruppo nordamericano Blackwater. Xe service dal 2009 e Academi dal 2011, la compagnia Blackwater è stata fondata da Erik Prince. Balzato alle cronache per aver cercato di scalzare alcune compagnie russe nel sostegno a Khalifa Haftar in Libia, Prince, tra il 1997 ed il 2010, ha ottenuto 2 miliardi di dollari in contratti governativi da parte di Washington per sostenere lo sforzo bellico in Iraq e Afghanistan, più altri 600 milioni di dollari ottenuti dalla CIA per contratti classificati come segreti. I suoi uomini sono stati banditi dall’Iraq a seguito della strage di Piazza Nisour a Baghdad (settembre 2007) nel corso della quale morirono 17 civili iracheni ed altri 20 rimasero gravemente feriti. E lui stesso è entrato a vario titolo in vicende inerenti traffico di armi, petrolio e minerali preziosi. Cosa che la dice ben lunga sul ruolo che i gruppi privati esercitano sui territori nel quale operano. Il suo legame con l’Ucraina è altrettanto problematico. Già nel febbraio 2020, Prince avrebbe manifestato al consigliere di Volodymyr Zelensky Igor Novikov il suo interesse a creare una compagnia militare privata formata da ex veterani della guerra nel Donbass. Inoltre, avrebbe sostenuto l’idea di costruire una società per produrre munizioni e mettere sotto un unico marchio le principali compagnie aeronautiche del Paese. L’obiettivo, infatti, sarebbe stato quello di creare un “consorzio di difesa aerea verticalmente integrato” capace di competere con giganti come Boeing ed Airbus attraverso l’acquisizione della Antonov e della compagnia Motor Sich (principale società ucraina produttrice di motori per aerei). L’operazione avrebbe dovuto essere sostenuta dalle pressioni nordamericane per fare in modo che la stessa Motor Sich non venisse acquistata da compagnie cinesi (pratica largamente utilizzata anche in Italia). All’inizio dell’estate 2020, l’Ucraina avrebbe mosso i primi passi per trasformare in realtà il progetto dell’“imprenditore” nordamericano. Nel giugno del medesimo anno, Prince è entrato in contatto diretto con l’ufficio presidenziale ucraino tramite l’ex produttore televisivo ed amico personale di Zelensky Andriy Yermak (noto anche per il ruolo di interlocutore diretto di Kurt Volker e Rudy Giuliani nella realizzazione di dossier anti-Biden in cambio dello sblocco degli aiuti militari USA all’Ucraina durante l’amministrazione Trump). Il piano d’affari prevedeva, tra le altre cose, lo sviluppo di una serrata cooperazione con l’intelligence ucraina per la pianificazione strategica, per quella logistica e per l’addestramento delle forze di sicurezza ucraine.
Questi fatti non stonano più di tanto con le dichiarazioni del portavoce della milizia popolare della Repubblica di Donetsk Eduard Basurin, che aveva denunciato la presenza di addestratori militari americani nella regione di Sumy riconducibili ad Academi già nei primi mesi del 2022. Questi, nello specifico, avrebbero preparato le milizie del Battaglione Azov ad un eventuale attacco su vasta scala nel Donbass.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).