La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.


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