Nel pieno dell’assedio su Gaza, mentre le bombe riducono in macerie scuole, ospedali e interi quartieri, un’inquietante narrazione inizia a farsi largo nei circoli politici e mediatici europei. La narrazione di una “deviazione”, di un “tradimento” dei presunti ideali originari del sionismo da parte del governo Netanyahu. Come se l’attuale ondata di violenza fosse un’eccezione recente, e non l’ultima tappa di un progetto coloniale cominciato ben prima della nascita dello Stato di Israele, già alla fine dell’Ottocento, e attuato con sistematicità dal 1948 in poi.

Questa improvvisa presa di distanza da Israele da parte di alcune élite europee, che fino a pochi mesi fa si affrettavano a dichiarare il proprio “incrollabile sostegno”, non è il frutto di un risveglio morale. È, piuttosto, un disperato tentativo di salvare la faccia – e soprattutto di salvare il sionismo stesso – sacrificando sull’altare dell’opinione pubblica internazionale la figura ormai tossica di Benjamin Netanyahu. Il perfetto capro espiatorio.

Ma il dramma palestinese non inizia con Netanyahu. E neppure con il suo predecessore immediato. Le radici dell’oppressione affondano nei fondamenti stessi dello Stato di Israele, anche quando a guidarlo erano figure considerate “progressiste” agli occhi dell’Occidente.

 

La violenza strutturale del sionismo: ben prima della destra

Nel 1948, sotto la guida del laburista David Ben Gurion, nacque lo Stato di Israele attraverso la Nakba – la “catastrofe” per il popolo palestinese: oltre 700.000 persone furono espulse con la forza dalle loro case, centinaia di villaggi vennero rasi al suolo, e intere comunità cancellate dalla mappa. La pulizia etnica non fu una conseguenza accidentale della guerra, ma parte di un piano strategico deliberato per creare una maggioranza ebraica omogenea nel nuovo Stato.

Quella campagna di espulsione fu accompagnata da decine di massacri, tra cui quello tristemente noto di Deir Yassin, il 9 aprile 1948, quando oltre cento civili palestinesi – uomini, donne, anziani e bambini – furono uccisi brutalmente da milizie sioniste dell’Irgun e del Lehi, in un’azione che contribuì in modo decisivo a seminare il terrore tra la popolazione palestinese, spingendola alla fuga. Altri massacri, meno noti ma ugualmente efferati, si verificarono in località come Tantura, Dawaymeh, Lydda e Ramla, dove intere comunità furono sterminate o costrette a marce forzate.

Gli storici più autorevoli – incluso l’israeliano Ilan Pappé, nel suo lavoro La pulizia etnica della Palestinanon esitano a definire questi eventi come una pulizia etnica pianificata. Non si trattò di uno “sfollamento accidentale” durante una guerra, ma di un’operazione sistematica di espulsione, volta a cancellare la presenza palestinese e riedificare la geografia della Palestina storica secondo i parametri demografici e simbolici del progetto sionista.

Pochi anni dopo, fu sempre un governo laburista a varare la famigerata Legge sulla proprietà degli assenti, una norma giuridica pensata per impedire ai rifugiati palestinesi di tornare e reclamare le proprie terre, ormai “legalmente” trasferite allo Stato israeliano o a enti sionisti. Questa legge, assieme a decine di altre misure amministrative e catastali, ha contribuito a costruire quella che molti giuristi definiscono una vera e propria architettura legale della spoliazione.

Tra i principali beneficiari di queste politiche ci furono i kibbutzim “socialisti”, legati ai partiti laburisti sionisti, che si insediarono su terre confiscate a villaggi palestinesi distrutti. Pur proclamandosi egalitari e progressisti, questi insediamenti collettivi trassero vantaggio diretto dalla rimozione forzata dei palestinesi, partecipando attivamente alla riorganizzazione demografica e territoriale del nuovo Stato in chiave esclusivamente ebraica. La narrazione cooperativistica si intrecciava così con una pratica concreta di colonizzazione agraria: dietro l’immagine idealizzata di comunità solidali ed egalitarie si celava la realtà di insediamenti costruiti su terre espropriate a popolazioni native, nell’ambito di un progetto volto a sostituire una presenza con un’altra, cancellando fisicamente e simbolicamente quella palestinese. Il tutto in coerenza con l’ideologia del “lavoro ebraico” (Avodah Ivrit), che fin dall’inizio del Novecento promuoveva l’esclusione dei lavoratori arabi anche dalla dimensione produttiva, rafforzando così una separazione etnica su più livelli: territoriale, sociale ed economico.

Tra il 1948 e il 1966, gli arabi palestinesi rimasti all’interno dei confini israeliani vissero sotto un regime militare che limitava drasticamente la libertà di movimento, espropriava terre e imponeva una sorveglianza capillare. Poco noto all’opinione pubblica europea, questo regime prevedeva coprifuochi improvvisi, arresti arbitrari, permessi obbligatori per spostarsi e una sistematica discriminazione nell’accesso a lavoro, istruzione e servizi essenziali.

Un episodio emblematico della violenza di quel periodo fu il massacro di Kafr Qasim, avvenuto il 29 ottobre 1956, quando 49 civili palestinesi – uomini, donne e bambini – furono uccisi a sangue freddo dalla polizia israeliana. Le vittime stavano rientrando dai campi e non erano state informate del coprifuoco imposto all’ultimo momento. L’eccidio, avvenuto durante la crisi di Suez, fu a lungo occultato dalle autorità israeliane, ma lasciò un segno indelebile nella memoria collettiva palestinese. A ricordarlo con forza fu anche il poeta Mahmoud Darwish, che in uno dei suoi testi più intensi trasformò quella tragedia in un simbolo della dignità negata e della resistenza quotidiana di un popolo oppresso nel cuore stesso dello Stato che lo aveva espropriato.

Eppure, questa fase di segregazione razziale e repressione sistematica non fu opera di leader estremisti di destra, ma di governi che si proclamavano socialisti, democratici, progressisti. Proprio quegli esecutivi che l’Occidente era solito considerare “moderati” contribuirono a consolidare una realtà di apartheid ante litteram, fondata sulla disuguaglianza strutturale tra cittadini ebrei e cittadini arabi

Con la guerra del 1967 e la Naksa – il nuovo disastro per il popolo palestinese – Israele occupò Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e il Golan siriano. Da allora iniziò un processo sistematico di colonizzazione dei territori occupati, in violazione del diritto internazionale. Ma anche qui, la responsabilità non ricade su Netanyahu o la destra radicale: i primi insediamenti furono promossi da Levi Eshkol, Golda Meir, Yigal Allon, figure storiche della sinistra israeliana. L’idea non era solo militare o di sicurezza: si trattava di una strategia ideologica, volta a integrare quei territori nella visione sionista della “Terra di Israele”, senza alcun riconoscimento del diritto dei palestinesi alla sovranità.

È in quel periodo che si affermano i due pilastri della politica israeliana nei territori: da un lato, la costruzione di colonie ebraiche strategicamente collocate per spezzettare il territorio palestinese; dall’altro, l’imposizione di un sistema legale a doppio binario, con leggi civili per i coloni e leggi militari per i palestinesi, che prefigura quello che oggi viene riconosciuto da organizzazioni internazionali come un regime di apartheid.

In breve, la sinistra israeliana – troppo spesso idealizzata in Occidente come “parte moderata” o “interlocutore credibile per la pace” – è stata co-autrice attiva del progetto coloniale e ha gettato le fondamenta giuridiche, amministrative e militari su cui si regge tuttora il sistema di dominazione.

 

La maschera del “processo di pace”

La narrazione dell’“eccezione Netanyahu” si sfalda ulteriormente se si guarda agli anni Novanta, periodo cruciale in cui si affermò la retorica del “processo di pace” come copertura diplomatica per consolidare l’occupazione. Durante la prima Intifada, fu Yitzhak Rabin – allora ministro della Difesa e poi primo ministro – a impartire la celebre direttiva alla polizia israeliana di “spezzare le ossa” ai giovani palestinesi che lanciavano pietre. Lo stesso Rabin che l’Occidente ama ricordare come uomo di pace.

Mentre negoziava gli Accordi di Oslo, Rabin continuava a espandere gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati. Nel 1993 i coloni erano 110.000; nel 1996, alla fine del cosiddetto “processo di pace”, erano già 150.000. Un dato che smaschera la vera funzione degli accordi: non porre fine all’occupazione, ma riorganizzarla in modo più gestibile, soprattutto agli occhi della comunità internazionale.

Nel suo ultimo discorso pubblico prima dell’assassinio, Rabin fu esplicito: “Ai palestinesi daremo qualcosa che sia meno di uno Stato”. Nessuna sovranità reale, nessun controllo delle frontiere, nessuna garanzia per il diritto al ritorno. Il suo progetto, come avrebbe confermato in seguito, prevedeva che Israele mantenesse il controllo “dal fiume Giordano al mare”.

Sotto il governo laburista di Shimon Peres, nel 1996, le forze israeliane bombardarono un complesso delle Nazioni Unite a Qana, in Libano, uccidendo 106 civili. Era l’operazione “Grapes of Wrath”: centinaia di civili avevano cercato rifugio in una base dell’UNIFIL chiaramente segnalata sulle mappe israeliane. Un massacro dimenticato, compiuto da un leader che, nonostante ciò, fu premiato con il Nobel per la pace.

Anche i governi “centristi” non sono esenti. Ehud Barak, nel 2000, represse nel sangue la seconda Intifada, causando migliaia di vittime palestinesi. È lo stesso Barak che amava ripetere che “non c’è partner per la pace”, una frase che divenne il mantra con cui Israele legittimò la chiusura del negoziato e il ritorno alla violenza di Stato.

Nel frattempo, l’Autorità Palestinese, creata proprio dagli Accordi di Oslo, si trasformava in un dispositivo amministrativo e di sicurezza al servizio dell’occupazione: incaricata di gestire la popolazione civile, reprimere il dissenso interno e garantire stabilità nei territori frammentati in enclavi, mentre Israele continuava a costruire colonie e infrastrutture per coloni.

Infine, fu Ariel Sharon, sostenuto da ampi settori liberal israeliani e internazionali, ad avviare nel 2002 la costruzione del cosiddetto muro di separazione, dichiarato illegale dalla Corte internazionale di giustizia. Quel muro – alto, armato, e spesso profondamente incuneato nei territori palestinesi – non ha mai separato Israele da un’entità esterna: ha separato gli uni dagli altri i palestinesi stessi, trasformando la Cisgiordania in un arcipelago carcerario.

In realtà, ciò che si presentava come un processo di pace fu in molti casi un processo di pacificazione coloniale, che mirava a normalizzare l’occupazione, a svuotare la resistenza palestinese di legittimità e a blindare il controllo israeliano sul territorio, con il consenso – implicito o esplicito – della comunità internazionale.

 

Netanyahu non è una deviazione, è una rivelazione

L’unico “merito” – e sia chiaro che la parola va usata tra molte virgolette – del governo Netanyahu è quello di aver strappato l’ultima maschera al volto del progetto sionista. La sistematica distruzione di Gaza, l’uso deliberato della fame come arma, i bombardamenti su scuole, ospedali, rifugi ONU, le dichiarazioni apertamente disumanizzanti di ministri e generali israeliani, l’impunità garantita a chi colpisce civili, giornalisti e operatori umanitari: nulla di tutto questo è nuovo. Ma oggi è diventato impossibile da ignorare.

Il linguaggio genocidario è ormai pubblico, diretto, istituzionale. Non si cerca più di nascondere la violenza dietro parole come “sicurezza”, “difesa”, “lotta al terrorismo”. Si è passati dalla negazione al vanto. Netanyahu non ha inventato la struttura coloniale dell’occupazione: l’ha semplicemente portata alle sue estreme conseguenze logiche, rendendola visibile anche a chi, fino a ieri, si voltava dall’altra parte.

Oggi perfino settori mainstream occidentali iniziano – timidamente – a usare la parola apartheid, a riconoscere la sproporzione sistemica tra occupante e occupato, a sospettare che dietro la retorica della “sola democrazia del Medio Oriente” ci sia un regime suprematista costruito sulla discriminazione, l’esproprio e il dominio militare.

Ma attenzione: attribuire tutto questo solo a Netanyahu significa riscrivere la storia per assolvere il passato. Significa ignorare che questa violenza ha radici profonde e che il progetto coloniale, ben prima della destra messianica, è stato concepito, legittimato e implementato da governi “moderati”, “illuminati”, perfino “pacifisti”. Netanyahu non è un incidente di percorso: è il prodotto coerente di una lunga traiettoria, solo più esplicito, più cinico, meno diplomatico.

Chi oggi condanna Netanyahu ma continua a difendere le fondamenta ideologiche del sionismo – come se fosse possibile separare il “sogno di Israele” dalla realtà dell’oppressione – non sta facendo giustizia, sta solo cercando di salvare il progetto coloniale rendendolo più presentabile. Ma non si può avere un “sionismo buono” e uno cattivo: l’uno è la premessa dell’altro.

Se davvero il mondo ha aperto gli occhi, allora la questione non è solo politica, ma morale. Non si tratta di cambiare premier, ma di mettere in discussione un intero sistema di dominazione fondato sull’espulsione, la disuguaglianza, la negazione dell’altro. Perché finché quel sistema resta intatto, potrà esserci un nuovo volto, un nuovo governo, persino un nuovo linguaggio – ma la realtà, sul campo, resterà la stessa. Oppressiva. Coloniale. Disumanizzante.

 

Il vero nodo: mettere in discussione il sionismo

Se davvero si vuole affrontare la questione in modo onesto, è tempo di smettere di parlare di “eccezioni”, “deragliamenti” o “abusi del presente”. Il problema non è un governo più violento di altri, né una fase storica particolarmente estrema. Il problema è il progetto sionista in sé, fin dalla sua origine. Un progetto che, nel suo nucleo ideologico, prevede l’esclusione sistemica dei palestinesi: non come effetto collaterale, ma come condizione fondante.

L’apartheid, l’espropriazione delle terre, la negazione del diritto al ritorno, la cancellazione dell’identità palestinese, la frammentazione del territorio, la militarizzazione permanente: tutto questo non è una distorsione del sistema, è il sistema stesso. È il meccanismo attraverso cui si è costruita – e si continua a mantenere – la supremazia etnica e territoriale su una popolazione nativa considerata superflua, se non nemica.

Attribuire tutto questo solo a Netanyahu è un esercizio di ipocrisia politica, utile solo a salvare le apparenze e a preservare una narrativa occidentale che per decenni ha coccolato, finanziato, armato e celebrato governi israeliani responsabili di occupazione, pulizia etnica e violazioni sistematiche del diritto internazionale. Leader che venivano accolti nei palazzi europei come “partner per la pace”, mentre sul terreno costruivano muri, coloni e check-point.

Oggi, mentre i riflettori del mondo illuminano Gaza e svelano l’orrore quotidiano che i palestinesi vivono da generazioni, la domanda vera non è se Netanyahu debba essere fermato. È se abbiamo finalmente il coraggio di guardare in faccia il progetto di cui lui è solo l’espressione più brutale ma più sincera.

La tragedia palestinese non ci interpella solo come spettatori. Ci interpella come complici, come eredi di un ordine internazionale che ha legittimato la colonizzazione sotto il mantello dei diritti, della democrazia, della memoria selettiva. Non sarà un cambio di governo a cambiare la realtà sul campo. Serve un cambio di paradigma, che cominci col riconoscere che non può esserci giustizia senza decolonizzazione.

Se il mondo ha davvero aperto gli occhi, ora non può più chiuderli. La Palestina non chiede pietà: chiede giustizia, riconoscimento e libertà. Non per tornare indietro, ma per costruire finalmente un futuro che non sia fondato sull’esclusione, sulla violenza e sul mito della superiorità etnica. Un futuro libero, uguale e condiviso, dal fiume al mare.


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