Introduzione
La Siria di Ahmad Sharaa, noto con il nome di battaglia Abu Mohammad al-Julani, è oggi al centro di una trasformazione tanto rapida quanto destabilizzante. Dopo oltre un decennio di guerra civile, insurrezioni gihadiste e interventi stranieri, il Paese si ritrova sotto la guida di una figura che, fino a pochi anni fa, era considerata parte integrante della galassia salafita radicale e capo indiscusso di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), una delle più potenti milizie islamiste operanti nel nord-ovest della Siria. L’ascesa al potere di Julani, sancita dopo la deposizione di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, segna un evento senza precedenti nella storia politica del Levante: per la prima volta, un attore emerso dal gihadismo armato tenta di trasformarsi in governo riconosciuto, cercando al contempo legittimità internazionale e alleanze strategiche con ex nemici storici.
Al centro di questa svolta c’è l’accordo in via di normalizzazione con Israele, sostenuto dagli Stati Uniti e da alcune monarchie del Golfo. Una mossa che ribalta completamente l’orientamento storico della Siria baathista, un tempo asse portante dell’“Asse della Resistenza” e rifugio per movimenti palestinesi come Hamas e il Jihad Islamico Palestinese. L’intesa, favorita da Washington e legittimata dalla promessa di stabilità regionale e sollevamento delle sanzioni, ha tuttavia un prezzo altissimo: la rinuncia al sostegno della resistenza, la marginalizzazione della causa palestinese e l’esposizione a tensioni interne sempre più pericolose.
Questo testo si propone di analizzare le implicazioni di questa transizione, sul piano geopolitico e interno. Da un lato, l’inserimento della nuova Siria nel blocco israelo-occidentale rischia di sgretolare definitivamente l’Asse della Resistenza e di accentuare le fratture tra attori regionali, rilanciando logiche di guerra per procura. Dall’altro, la trasformazione di HTS in una coalizione di governo mette in luce tutte le contraddizioni di un progetto nato sul terreno dell’insurrezione, privo di coesione ideologica e di una visione statuale condivisa.
Attraverso una ricostruzione dei fatti recenti, un’analisi della natura composita di HTS, e un confronto con precedenti storici come Afghanistan e Libia, il saggio intende mostrare come la Siria post-Assad non sia entrata in una fase di normalizzazione compiuta, ma piuttosto in una nuova stagione di fragilità sistemica, in cui la pace apparente convive con rischi di implosione violenta. Un equilibrio precario che potrebbe trasformare la Siria non in un attore sovrano, ma in un campo di battaglia multilivello, al centro di nuovi assetti di potere e vecchie ambizioni regionali.
La fine dell’Asse della Resistenza?
L’accordo tra Israele e la nuova Siria guidata da Julani, riportato da fonti israeliane come Channel 12 e Kan News, prevede una cooperazione strategica sul piano dell’intelligence e della sicurezza per contrastare Hezbollah e contenere l’influenza iraniana nel Levante[1]. Non si tratta solo di un’intesa diplomatica, ma di un vero e proprio terremoto geopolitico: per la prima volta, uno degli ex membri centrali dell’“Asse della Resistenza” si colloca apertamente al fianco di Israele e dei suoi alleati.
Questo passaggio segna la rottura del fronte che, per anni, aveva unito Teheran, Damasco, Hezbollah e Hamas in una logica di opposizione all’egemonia americana e alla presenza israeliana nella regione. La Siria, che aveva costruito la propria proiezione strategica sul sostegno alla resistenza panaraba e sull’alleanza militare con Hezbollah e con i movimenti palestinesi, abdica ora a quel ruolo storico e si riallinea con il cordone anti-iraniano promosso da Israele, Stati Uniti e le monarchie del Golfo.
Il nuovo governo, nato dalla trasformazione di Hay’at Tahrir al-Sham da coalizione insurrezionale gihadista a soggetto statuale riconosciuto, si presenta come interlocutore funzionale agli interessi israeliani e americani. Non è più la Siria che sosteneva la “lotta armata” contro l’occupazione, ma una Siria che si inserisce pienamente nella strategia regionale avviata con gli Accordi di Abramo: una strategia che punta a integrare regimi arabi filooccidentali nella sfera israelo-statunitense, in funzione antiiraniana[2].
La causa palestinese, già isolata, perde un altro pilastro storico. Damasco, che aveva ospitato per anni le sedi di Hamas e del Jihad Islamico, si ritira di fatto dalla scena della resistenza, indebolendo tanto la legittimità della causa quanto la capacità di coordinamento tra le forze che ancora si oppongono a Israele. Un segnale evidente è arrivato nell’aprile 2025, quando le autorità siriane hanno arrestato due esponenti del Jihad Islamico Palestinese, confermando una svolta repressiva nei confronti delle fazioni storicamente alleate[3]. Il colpo non è solo militare: è soprattutto morale. La “normalizzazione” con Israele da parte di un attore storicamente identificato con la resistenza trasmette un messaggio chiaro: la sopravvivenza dei regimi viene prima della solidarietà panaraba.
Nel nuovo equilibrio che va delineandosi, la Siria rischia di diventare non un alleato secondario, ma un avamposto strategico all’interno del blocco costruito tra Israele e monarchie del Golfo come Emirati, Bahrein e Arabia Saudita, con il sostegno diretto degli Stati Uniti. Di fronte a questo assetto, l’Asse della Resistenza — che unisce attori sciiti come l’Iran e Hezbollah a formazioni sunnite come Hamas e la Jihad Islamica — appare sempre più isolato e vulnerabile. Di fronte a questo assetto, l’Asse della Resistenza — che unisce attori sciiti come l’Iran e Hezbollah a formazioni sunnite come Hamas e la Jihad Islamica — appare sempre più isolato e vulnerabile. Questo fronte regionale alternativo, fondato su milizie, ideologia e deterrenza, si trova oggi sulla difensiva. La sua tenuta è ormai più politica che militare. In questo contesto, il popolo palestinese rimane, ancora una volta, escluso dai nuovi calcoli geopolitici, sacrificato sull’altare della stabilizzazione apparente.
Tuttavia, se il riposizionamento della Siria ha prodotto effetti dirompenti sulla scena regionale, sul piano interno il nuovo regime appare tutt’altro che solido. L’avvicinamento a Israele e l’apertura verso gli Stati Uniti non rappresentano una cesura nella storia di HTS, ma piuttosto l’estensione coerente di una strategia che fin dall’inizio ha privilegiato la caduta di Assad rispetto a qualsiasi visione ideologica organica. HTS non ha mai fatto della lotta all’Occidente la propria bandiera, e già durante il conflitto siriano ha intrattenuto rapporti indiretti o convergenze tattiche con attori occidentali e regionali.
Tuttavia, questa impostazione pragmatica, utile alla sopravvivenza del movimento in contesti fluidi, non è mai stata uniformemente condivisa tra le sue varie anime. Il rischio, oggi, è che questa divergenza esploda proprio nel momento in cui HTS tenta di trasformarsi in autorità di governo. Per comprendere se il nuovo regime potrà effettivamente consolidarsi, è necessario partire dall’interno: dalla struttura, dalla logica e dalle contraddizioni costitutive di Hay’at Tahrir al-Sham.
La legittimità fragile del nuovo regime
Per comprendere le fragilità che minacciano la tenuta politica del regime di Julani, è essenziale partire dalla composizione interna di Hay’at Tahrir al-Sham. La coalizione non è mai stata un attore ideologicamente unitario, ma piuttosto una struttura militare flessibile che ha aggregato milizie provenienti da percorsi, territori e visioni differenti. Alla sua formazione nel 2017, HTS unì fazioni salafite-gihadiste, gruppi tribali locali, ex combattenti di al-Nusra con ambizioni regionali, e formazioni di orientamento più pragmatico, interessate a preservare potere territoriale e influenza sociale.
Questa eterogeneità ha creato una costante tensione tra l’autorità centrale — incarnata dalla figura di Julani — e i vari comandi locali. Alcune brigate sono rimaste legate a un’ideologia panislamica transnazionale, altre si sono adattate alle logiche del potere locale, trasformandosi in attori ibridi tra guerra e amministrazione. Il controllo del territorio — in particolare nella provincia di Idlib — è spesso garantito più dal consenso clanico e dalla forza militare che da una reale adesione a un progetto politico comune.
HTS nasce il 28 gennaio 2017 dall’unione di vari gruppi salafiti‑gihadisti tra cui Jabhat Fateh al‑Sham (ex‑Fronte al‑Nusra), Jaysh al‑Ahrar, Liwa al‑Haqq, Jaysh al‑Sunna, oltre a frammenti di Nour al‑Din al‑Zenki e altri piccoli gruppi. Al momento della sua formazione, HTS rappresentava il tentativo di riunificare una galassia gihadista siriana profondamente frammentata, riducendo la competizione interna e rafforzando il fronte contro il regime di Assad e gli attori internazionali a lui alleati.
La natura composita di HTS si riflette in una struttura che è più simile a una federazione tattica di milizie che a un’organizzazione centralizzata. Le brigate che ne fanno parte conservano spesso proprie catene di comando, territori di riferimento e specificità ideologiche. Alcune sono fortemente radicate nei sobborghi rurali di Idlib e Aleppo, mentre altre operano con maggiore autonomia in zone periferiche o montane. Questo mosaico di entità armate, pur formalmente sottoposto alla guida di Julani, agisce con gradi variabili di coordinamento e disciplina.
Inoltre, la coalizione ha attraversato nel tempo varie fasi di assestamento: ha assorbito nuovi gruppi, ne ha espulsi altri, ha sofferto defezioni e riconfigurazioni. Alcune fazioni si sono distaccate per divergenze strategiche o per accuse di deviazione ideologica, mostrando come HTS sia più una piattaforma flessibile che una struttura rigida.
Prima di giungere alla guida del nuovo regime, HTS ha rappresentato un laboratorio militare e ideologico dove convivevano anime profondamente diverse. Alcune brigate provenivano dall’universo salafita più radicale, con un’impostazione ideologica rigidamente antioccidentale e orientata verso una visione teocratica dello Stato islamico. Altre formazioni, pur condividendo l’ostilità verso Assad, erano mosse da logiche pragmatiche e locali, più attente al controllo del territorio che a un progetto dottrinale coerente. C’erano poi gruppi con una forte identità tribale o regionale, radicati in specifiche comunità montane o rurali, per i quali l’appartenenza a HTS era funzionale a protezione, risorse o prestigio.
La coesistenza di questi attori ha sempre imposto un equilibrio instabile, con tensioni latenti tra i fautori di un progetto politico centralizzato sotto Julani e quelli che miravano a conservare margini di autonomia locale. Queste tensioni non sono mai del tutto sopite e potrebbero facilmente riemergere ora che HTS tenta la transizione da attore insurrezionale a potere statuale. Il nuovo regime guidato da Julani è quindi il risultato di un compromesso politico e militare tra componenti molto eterogenee, unite dalla comune opposizione ad Assad ma profondamente divise su visione dello Stato, rapporti con l’esterno e gestione del potere. HTS, da sempre più coalizione opportunistica che movimento ideologicamente monolitico, non possiede le strutture di legittimità tipiche di uno Stato moderno: manca di consenso popolare unificato, istituzioni civili solide, e una visione condivisa del futuro siriano.
Il radicamento territoriale di queste componenti varia: nella provincia di Idlib HTS mantiene ancora un controllo sostanziale, mentre in altre aree — come Hama, Aleppo o la campagna di Latakia — l’influenza si è ridotta o frammentata, lasciando spazio a gruppi rivali o ad amministrazioni parallele. Le divisioni interne ad HTS si riflettono anche nelle divergenze sulla gestione dei servizi, del potere giudiziario e dell’educazione religiosa, elementi che minano la credibilità dello sforzo istituzionale.
A complicare il quadro, al di fuori di quest’area centrale, esistono attori che sfuggono completamente al controllo di Julani, in primis le forze curde nel nord-est (SDF/YPG), sostenute dagli Stati Uniti. Questi gruppi, pur opposti ideologicamente a HTS, costituiscono un blocco territoriale alternativo con strutture amministrative più stabili e relazioni internazionali più consolidate. La presenza curda, assieme a sacche di resistenza lealista, contribuisce a definire un quadro geopolitico in cui Julani non può governare né con piena sovranità, né con legittimità universale.
In questo contesto, il passaggio da gruppo insurrezionale gihadista a governo riconosciuto sul piano internazionale segna una frattura di legittimità che non può essere colmata semplicemente con l’acquisizione del potere formale. L’adesione agli interessi occidentali e israeliani, concretizzata con la rinuncia formale alla rivendicazione del Golan e l’espulsione delle storiche organizzazioni palestinesi da Damasco, potrebbe essere letta da molte frange interne come un tradimento ideologico. Il governo Julani, dunque, è esposto a una doppia erosione: da un lato perde il sostegno delle masse islamiste più radicali, dall’altro non riesce a costruire una nuova base sociale ampia e condivisa. La mancanza di un processo di transizione istituzionale inclusivo amplifica questa fragilità, ponendo le basi per una potenziale crisi di governabilità.
Frammentazione e rischio di golpe: i precedenti storici
La Siria post-Assad si trova ora a fronteggiare una delle transizioni più complesse del mondo arabo contemporaneo. Le esperienze storiche dimostrano come la caduta di un regime autoritario, in assenza di un progetto politico condiviso e di una struttura istituzionale credibile, possa aprire scenari di violenza prolungata, anarchia militare e guerre intestine.
Un primo caso emblematico è l’Afghanistan post-1992. Dopo il crollo del regime filosovietico di Najibullah, le varie fazioni dei mujahidin — un fronte che per oltre un decennio aveva resistito all’occupazione dell’Armata Rossa — si trovarono improvvisamente senza un nemico comune. Il vuoto lasciato dallo Stato centrale non fu colmato da alcuna autorità unificata: il governo provvisorio guidato da Burhanuddin Rabbani non fu mai accettato da tutte le componenti armate.
Il conflitto tra le principali fazioni — Jamiat-e Islami (guidata da Massoud), Hezb-e Islami (di Hekmatyar), Junbish-e Milli (di Dostum) e le formazioni sciite hazara come Hezb-e Wahdat — degenerò rapidamente in una guerra civile generalizzata. Kabul fu letteralmente ridotta in macerie tra il 1992 e il 1995, bersagliata da razzi, assedi e vendette settarie. Le differenze etniche (tra pashtun, tagiki, hazara e uzbeki) si sovrapposero alle rivalità politiche e alle ambizioni personali, mentre ciascun signore della guerra riceveva appoggio da potenze esterne: Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Russia, India.
In questo contesto di caos e frammentazione, i Talebani emersero nel 1994 nel sud del paese, presentandosi come forza moralizzatrice e unificatrice. Sostenuti dal Pakistan e da settori religiosi conservatori, riuscirono ad avanzare rapidamente. Nel 1996 presero Kabul, giustiziarono pubblicamente Najibullah e instaurarono un emirato islamico fondato su una rigida interpretazione della shari‘a. La guerra civile afghana non solo continuò, ma si trasformò in un conflitto tra l’autorità centralizzata dei Talebani e l’Alleanza del Nord, in un ciclo di violenza che durerà fino all’intervento americano del 2001.
Un secondo esempio, più recente, è quello della Libia post-2011. La rivolta contro Gheddafi, inizialmente unita sotto la bandiera del Consiglio Nazionale di Transizione, si sgretolò subito dopo la sua caduta. Il problema centrale fu la proliferazione incontrollata di milizie locali — islamiste, tribali, regionali — che avevano preso parte al conflitto e che, una volta conclusa la guerra, si rifiutarono di deporre le armi o di integrarsi in un esercito nazionale. Ciascuna milizia divenne attore autonomo, controllando quartieri, aeroporti, arsenali, rotte commerciali e carceri improvvisate.
A partire dal 2014, il Paese si spaccò politicamente e territorialmente: da un lato il governo di Tripoli, sostenuto da milizie islamiste e appoggiato dalla Turchia; dall’altro, il governo di Tobruk, legato all’Esercito Nazionale Libico di Khalifa Haftar, sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia. Questo dualismo si aggravò con il tempo, trasformando la Libia in un teatro permanente di guerra per procura, dove le potenze regionali e internazionali si confrontano indirettamente per influenza e risorse (petrolio, traffici migratori, armi).
Nel frattempo, in mancanza di un’autorità unificata, si è sviluppata un’economia informale dominata da racket, milizie criminali e traffico di esseri umani. Intere aree urbane (come Bengasi o Misurata) sono state distrutte o militarizzate, mentre le istituzioni statali — dalla sanità alla giustizia — si sono dissolte o sopravvivono solo sulla carta. Anche i tentativi di mediazione ONU si sono scontrati con la mancanza di un attore sufficientemente forte da imporre un compromesso duraturo.
La Siria corre oggi un rischio analogo. L’alleanza interna ad HTS è fragile e potrebbe dissolversi non appena il collante anti-Assad perde forza. La percezione che Julani abbia tradito la causa gihadista o stretto patti troppo spinti con Israele e gli Stati Uniti potrebbe spingere fazioni dissidenti a rivoltarsi. Questo potrebbe sfociare in un conflitto intragihadista o in un’insurrezione frammentaria. La “guerra dentro la rivoluzione” — come già avvenuto in Afghanistan e Libia — rischia di aprire una nuova stagione di instabilità, con un ritorno alla logica dei feudi armati.
A livello geopolitico, la disgregazione di HTS e del nuovo governo aprirebbe spazi per interventi esterni. Potenze regionali come l’Iran o attori residuali legati al vecchio regime potrebbero tentare di sfruttare la situazione per ristabilire influenza, mentre Stati come Arabia Saudita ed Emirati potrebbero scegliere di sostenere fazioni rivali per garantirsi una leva negoziale. In sintesi, la Siria post-Assad potrebbe trasformarsi in un nuovo campo di battaglia per milizie concorrenti e potenze straniere, vanificando ogni prospettiva di stabilizzazione e compromettendo il futuro politico del Paese.
Reazione a catena: il ritorno della guerra per procura
L’Iran è il grande sconfitto della transizione siriana. A differenza della Russia, il cui coinvolgimento in Siria ha sempre avuto un carattere pragmatico e circoscritto — volto a preservare basi militari e un punto d’appoggio nel Mediterraneo — Teheran ha investito nel Paese risorse ben più profonde, vedendo nella Siria un nodo essenziale dell’“Asse della Resistenza”. Per Mosca, la Siria è sempre stata una piattaforma di proiezione strategica; per l’Iran, una frontiera ideologica, un corridoio operativo verso Hezbollah, e un territorio dove consolidare la propria visione dell’ordine regionale. La caduta di Assad e la normalizzazione con Israele minano alle radici questo impianto, segnando una sconfitta ben più strutturale per Teheran. e un corridoio operativo vitale verso Hezbollah in Libano. e un corridoio operativo vitale verso Hezbollah in Libano[4]. Per oltre un decennio, la Siria ha rappresentato per l’Iran una piattaforma logistica, ideologica e militare per la proiezione della sua influenza nel Levante. Teheran vi ha investito ingenti risorse economiche, ha mobilitato milizie sciite transnazionali (irachene, afghane, libanesi), ha costruito infrastrutture e ha stabilito una rete di influenza che andava ben oltre la semplice alleanza con Assad.
La nuova Siria guidata da Julani, alleata con Israele e inserita in una cornice occidentale, rappresenta un’inversione di rotta strategica che mina alle fondamenta l’asse sciita nella regione. In questo scenario, l’Iran potrebbe reagire come ha già fatto in passato con attori sunniti, anche ostili dal punto di vista ideologico, come i Talebani dopo il 2001: sostenendoli temporaneamente per colpire un nemico più grande. Dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan, nonostante lo storico antagonismo tra Teheran e il regime talebano (sfociato nel 1998 quasi in un conflitto armato dopo l’uccisione di diplomatici iraniani a Mazar-i-Sharif), l’Iran stabilì contatti tattici con la nuova insurrezione talebana. Offrì rifugio a dirigenti, fornì armamenti selettivi e facilitò il transito logistico in alcune aree occidentali del Paese, nel tentativo di logorare la presenza americana e riequilibrare l’influenza pakistano-saudita. Questo precedente dimostra come Teheran sia disposta, in casi estremi, a collaborare con nemici ideologici quando la posta strategica lo giustifica[5]. Frange gihadiste ostili a Julani potrebbero ricevere sostegno militare, logistico e propagandistico da Teheran nel tentativo di destabilizzare il nuovo ordine siriano.
Tuttavia, un eventuale intervento iraniano non si esaurirebbe in una manovra unilaterale: potrebbe scatenare una reazione a catena. Gli attori regionali ostili all’Iran — Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Israele stesso — potrebbero rispondere alimentando il conflitto siriano con ulteriori risorse, armi e ingerenze. La Turchia, temendo un ritorno dell’influenza sciita vicino ai suoi confini, potrebbe rafforzare il suo appoggio a fazioni antiraniane o tentare un’azione diretta per proteggere i suoi interessi nel nord del paese. Gli Stati Uniti, già patroni della normalizzazione, potrebbero intensificare l’assistenza a Julani nel nome del contenimento dell’Iran.
Si aprirebbe così un nuovo fronte di guerra per procura, dove la Siria tornerebbe ad essere un campo di battaglia multilivello tra potenze rivali, vanificando ogni tentativo di stabilizzazione. In questo scenario, la lotta non sarebbe solo tra Julani e i suoi oppositori interni, ma tra interi blocchi geopolitici, con la popolazione siriana ancora una volta intrappolata tra alleanze esterne, ambizioni ideologiche e calcoli di potenza.
Conclusione
La transizione siriana verso il governo guidato da Julani non rappresenta soltanto una nuova fase politica per il Paese, ma un profondo mutamento dell’equilibrio regionale mediorientale. La Siria non è più la roccaforte ideologica della Resistenza, né il corridoio strategico dell’asse Teheran–Beirut; è ora una pedina riallineata all’interno di un sistema promosso da Israele e dagli Stati Uniti, sostenuto da alcune monarchie del Golfo, e costruito per contenere l’Iran e sradicare le sue reti militari nella regione.
Tuttavia, questa trasformazione ha un carattere fragile e irrisolto. La legittimità del nuovo regime siriano non si fonda su un consenso popolare esteso né su un’architettura istituzionale solida, ma su un equilibrio precario tra le varie anime di Hay’at Tahrir al-Sham, coagulatesi nel tempo intorno a una dirigenza più militare che politica. Le differenze ideologiche, territoriali e strategiche che attraversano la coalizione potrebbero esplodere nel momento in cui verranno meno le condizioni straordinarie della guerra o in presenza di scelte troppo divisive da parte della dirigenza. L’apertura a Israele, la marginalizzazione della causa palestinese e l’espulsione delle storiche formazioni della Resistenza sono decisioni che rischiano di innescare fratture irreversibili.
Lo scenario peggiore — ma non irrealistico — è quello di una nuova implosione siriana, questa volta non più lungo la faglia tra regime e opposizione, ma all’interno dello stesso campo che ha conquistato il potere. Come dimostrano i casi storici dell’Afghanistan post-1992 o della Libia post-2011, la caduta di un regime non garantisce la nascita di uno Stato; al contrario, in assenza di un vero patto politico nazionale, rischia di produrre ulteriori fasi di guerra civile, dominio delle milizie, e interferenze esterne.
L’Iran, grande sconfitto di questa transizione, potrebbe tentare di sabotare il nuovo equilibrio siriano sostenendo fazioni dissidenti o promuovendo forme di destabilizzazione asimmetrica. Ma ogni reazione iraniana sarebbe solo l’innesco di una risposta più ampia: Arabia Saudita, Israele, Turchia e Stati Uniti potrebbero tornare a operare attivamente sullo scacchiere siriano, riattivando la logica della guerra per procura che ha già devastato il Paese negli anni passati.
Alla fine, la Siria rischia di essere nuovamente ridotta a spazio conteso, più che a soggetto sovrano. Un laboratorio geopolitico in cui si giocano partite più grandi del suo destino interno, e dove la stabilizzazione promessa dalla “normalizzazione” si rivela, ancora una volta, un fragile velo sopra tensioni irrisolte. La pace, come nel passato recente, potrebbe rivelarsi solo una tregua apparente.
NOTE
[1] Israel confirms direct normalization talks with Syria, in «The Cradle», 30 giugno 2025, https://thecradle.co
[2] Israel holding talks with Syria on ‘Sharaa regime’ joining Abraham Accords, in «The Times of Israel», 29 giugno 2025: http://www.timesofisrael.com/report-israel-holding-talks-with-syria-on-sharaa-regime-joining-abraham-accords/
[3] Syria detains two leaders of Palestinian Islamic Jihad, in «Reuters», 22 aprile 2025: https://www.reuters.com/world/middle-east/syria-detains-two-leaders-palestinian-islamic-jihad-2025-04-22/
[4] Gabriele Repaci, La Siria dopo Assad, in «Eurasia. Rivista di studi geopolitici», n. LXXVIII – Nel mirino dell’Occidente, maggio 2025.
[5] Iran’s Cooperation with the Taliban Could Affect Talks on U.S. Withdrawal, RAND Corporation, 9 agosto 2019: https://www.rand.org/pubs/commentary/2019/08/irans-cooperation-with-the-taliban-could-affect-talks.html
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