Introduzione
L’8 dicembre 2024 Bashar al-Assad, al potere da oltre vent’anni in Siria, cade improvvisamente. Il suo regime, sopravvissuto a una lunga guerra civile, alle sanzioni internazionali e al sostegno militare iraniano e russo, si dissolve in pochi giorni. La notizia scuote il Vicino Oriente, ma ancor più colpisce l’opinione pubblica globale per la rapidità e l’apparente imprevedibilità dell’evento.
Poco più di sei mesi dopo, il 1° luglio 2025, il “New York Times” rivela che l’amministrazione Trump ha deciso di sospendere l’invio di sistemi d’arma strategici all’Ucraina, tra cui intercettori Patriot e munizioni per jet F-16. La giustificazione ufficiale riguarda la necessità di tutelare le scorte strategiche americane[1]. Tuttavia, l’intersezione temporale e strategica di questi due avvenimenti può indurre ad un’interpretazione più ampia e sistemica: non è da escludere del tutto che ci si trovi di fronte a un nuovo patto geopolitico tra Stati Uniti e Russia, con la Cina (e l’Iran) relegate sullo sfondo.
Donald Trump ha più volte dichiarato che Cina e Iran rappresentano le principali minacce sistemiche per gli Stati Uniti. In quest’ottica, il confronto diretto con la Russia diventa un ostacolo. Liberarsi di quel fronte consente di concentrare la forza strategica americana su un obiettivo di contenimento più rilevante: l’asse sino-iraniano. L’Ucraina, per Trump, appare dunque come una variabile sacrificabile: un teatro logorante, dai costi crescenti e con prospettive incerte.
Dall’altro lato, anche per Vladimir Putin la situazione si è fatta complessa. La dipendenza della Russia dalla Cina, in termini economici e tecnologici, è aumentata drammaticamente. Ma l’idea di finire sotto la tutela di Pechino è vista al Cremlino come una forma di vassallaggio. Accettare una tregua tattica con Washington può offrire a Mosca un’opportunità per recuperare autonomia strategica e riproporsi come attore indipendente nel sistema multipolare.
Da qui nasce l’ipotesi speculativa di un grande scambio. La formula è semplice, ma potente: Mosca consolida il controllo sull’Ucraina orientale, Washington sospende il sostegno militare a Kiev. In cambio, la Russia non ostacola le mosse americane (o israeliane) contro l’Iran e non rafforza ulteriormente il legame strategico con la Cina. Non si tratta certo di un’alleanza, bensì di una temporanea sospensione delle ostilità, un “cessate il fuoco geopolitico” basato su interessi contingenti.
All’interno di questo quadro, la Siria gioca un ruolo cruciale. La Siria governata da Assad rappresentava il cuore operativo dell’influenza iraniana nel Mediterraneo: ponte logistico verso Hezbollah, base per operazioni antisraeliane, fulcro del corridoio Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut. Tuttavia, era anche un alleato sempre più costoso e problematico per Mosca, impegnata in Ucraina e sotto crescente pressione internazionale. In quest’ottica, la caduta di Assad assume una luce diversa: un possibile sacrificio tattico, funzionale alla rinegoziazione degli equilibri con Washington.
La rapidità e le modalità della sua destituzione suggeriscono l’ipotesi di un’operazione coperta, quanto meno tollerata da potenze internazionali. La Siria esce improvvisamente dall’orbita russo-iraniana, e con essa viene colpita la capacità dell’Iran di proiettare influenza nella regione. Israele ne approfitta per intensificare le operazioni in Libano e su altri fronti. L’Iran resta isolato, senza il “ponte siriano” e privo della copertura strategica che Assad gli garantiva.
Nel frattempo, la sospensione degli aiuti militari a Kiev arriva proprio nel momento in cui le truppe russe rilanciano l’offensiva sul fronte orientale. Il segnale politico è chiaro: Washington non è più disposta a sostenere indefinitamente la resistenza ucraina. In cambio, la Casa Bianca ottiene silenzio e non ingerenza sulle sue mosse contro Teheran. Per Putin, è un compromesso utile: invece di subire la marginalizzazione nel blocco sino-iraniano, può ora tentare un ritorno a una postura più bilanciata, giocando un ruolo di ago della bilancia tra le due grandi potenze.
La Cina osserva con attenzione. Non ha interesse a un collasso dell’asse eurasiatico, ma non può nemmeno impedire a Mosca di seguire una linea più autonoma. Soprattutto, non è in grado di compensare rapidamente la perdita del corridoio strategico siriano. La sua priorità resta Taiwan, e una Russia meno allineata rappresenta un ostacolo tattico per Pechino.
La politica estera di Trump appare così come una strategia di semplificazione dei fronti: dividere i nemici, chiudere i conflitti secondari, concentrare la forza sul nucleo della minaccia percepita. Se Assad e l’Ucraina sono diventati pedine sacrificabili, è perché il vero obiettivo è ridefinire l’ordine globale, contenendo l’espansione dell’asse sino-iraniano.
La caduta del governo di Assad e lo stop agli armamenti per Kiev non sono episodi scollegati, ma due facce della stessa manovra strategica. Una triangolazione in cui Trump offre a Putin un’uscita dall’abbraccio cinese in cambio del disimpegno russo sui teatri più sensibili per l’Occidente. Una pausa tattica nelle ostilità globali, destinata a ridisegnare le linee di faglia del sistema internazionale.
Si tratta, è bene precisarlo, di un’ipotesi analitica e speculativa, che non pretende di descrivere fatti accertati, ma di offrire una possibile chiave di lettura strategica degli avvenimenti.
La dottrina Trump e la gerarchia delle minacce
Donald Trump ha più volte ribadito, sia durante il suo primo mandato che nel corso della nuova presidenza, che la vera minaccia sistemica agli Stati Uniti è rappresentata da due attori: la Cina e l’Iran. La prima è vista come una superpotenza emergente intenzionata a sovvertire l’ordine liberale internazionale; la seconda come uno “Stato canaglia” in grado di destabilizzare il Vicino Oriente e minacciare gli alleati regionali degli Stati Uniti, in primis Israele e Arabia Saudita.
Le motivazioni di questa visione risiedono in una lettura neorealista e transazionale dell’interesse nazionale. La Cina, con la sua capacità di competere in ambito tecnologico, commerciale e militare, rappresenta per Trump una minaccia esistenziale all’egemonia statunitense. Il suo espansionismo nel Mar Cinese Meridionale, il progetto della Belt and Road Initiative, la crescita della sua influenza in Africa e in America Latina: tutti questi elementi contribuiscono a dipingerla come il principale rivale strategico. La guerra commerciale avviata da Trump nel suo primo mandato e il blocco di forniture tecnologiche a Huawei ne sono testimonianza concreta.
Per quanto riguarda l’Iran, la visione trumpiana è fortemente condizionata dalla sua alleanza con Israele e dalla volontà di limitare la capacità di Teheran di esercitare influenza nella regione. Tale impostazione si fonda su diverse motivazioni strategiche, ideologiche e politiche. Dal punto di vista strategico, Washington considera l’Iran una potenza regionale in grado di proiettare influenza attraverso una rete di alleanze, partenariati e presenze in teatri critici come Libano, Siria, Iraq e Yemen. Sul piano ideologico, l’amministrazione Trump ha interpretato il sistema di governo iraniano come incompatibile con gli interessi statunitensi, soprattutto per il sostegno fornito da Teheran ad attori armati non statali e per la sua retorica ostile verso gli Stati Uniti e Israele. Infine, sul piano politico interno, la durezza verso l’Iran ha sempre rappresentato un elemento di consenso per la base elettorale repubblicana, particolarmente attenta al sostegno agli alleati storici americani nella regione e a una proiezione di forza in politica estera.
L’amministrazione Trump ha abbandonato il JPCOA, ha promosso una politica di “massima pressione” economica, e ha autorizzato operazioni mirate come l’uccisione del generale Qassem Soleimani nel 2020. Tuttavia, il culmine di questa linea si è verificato nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, quando Trump, smentendo clamorosamente le sue stesse dichiarazioni ufficiali – “deciderò entro due settimane se attaccare l’Iran” – ha ordinato un attacco militare a sorpresa contro tre impianti nucleari iraniani.
L’operazione, battezzata “Midnight Hammer”, è stata condotta da bombardieri stealth B-2 Spirit decollati da basi nel Golfo e da missili Tomahawk lanciati da sottomarini statunitensi nel Mare Arabico. Gli obiettivi erano i siti di Fordow, Natanz ed Esfahan, colpiti con bombe bunker buster GBU-57 progettate per penetrare strutture sotterranee fortificate. Trump ha celebrato l’attacco come “un momento storico per gli Stati Uniti, Israele e il mondo”. Tuttavia, l’efficacia militare dell’operazione è rimasta oggetto di dibattito: Fordow, ad esempio, è situato sotto oltre 90 metri di roccia e cemento armato, e persino fonti interne al Pentagono riconoscono che un solo raid difficilmente può aver compromesso in modo decisivo le capacità di arricchimento dell’uranio dell’Iran[2].
Un segnale ulteriore di questa postura è rappresentato da una proposta di legge bipartisan presentata alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti: il cosiddetto “Bunker Buster Act”. Il disegno di legge, introdotto dai deputati Josh Gottheimer (D-N.J.) e Mike Lawler (R-N.Y.), prevede la possibilità per il presidente Trump di autorizzare il trasferimento a Israele di bombardieri stealth B-2 e di bombe da 30.000 libbre, nel caso in cui l’Iran riprenda lo sviluppo del proprio programma nucleare.
Il trasferimento di B-2, attualmente esclusivo degli Stati Uniti, costituirebbe un precedente militare senza pari, aumentando la pressione su Teheran e rafforzando la deterrenza regionale[3].
In tale quadro, la Russia assume un ruolo più ambiguo: potenza revisionista e autoritaria, ma che non possiede le capacità sistemiche della Cina né la carica ideologica dell’Iran. Trump considera il confronto diretto con Mosca un ostacolo strategico: un “fronte secondario” che distoglie risorse e attenzione dalla vera competizione. Liberarsi di quel fronte – anche a costo di sacrificare l’Ucraina – consente, nella logica trumpiana, di semplificare la scacchiera e concentrare la forza americana sull’asse sino-iraniano.
Tale approccio rappresenta un netto cambiamento rispetto alla visione dei Democratici, che hanno storicamente privilegiato una politica più assertiva nei confronti della Russia. L’amministrazione Biden, ad esempio, ha sostenuto senza riserve la resistenza ucraina, mantenuto sanzioni severe contro Mosca e tentato di riattivare il JPCOA (Joint Comprehensive Plan of Action) con l’Iran, nel tentativo di contenere il programma nucleare iraniano attraverso strumenti diplomatici.
I Democratici, inoltre, hanno cercato di frenare le iniziative più aggressive di Israele contro Teheran, temendo un imasprimento militare regionale. L’amministrazione Biden ha esercitato, per un certo tempo, un contenimento politico deciso delle pressioni israeliane per un attacco diretto all’Iran. In particolare, nella primavera del 2024, dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco e la conseguente risposta missilistica di Teheran, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu premeva per colpire i siti nucleari iraniani. Tuttavia, fu dissuaso dagli Stati Uniti. La Casa Bianca, attraverso contatti diretti e intermediari regionali come il Qatar e l’Oman, attivò canali di attenuazione dello scontro. Il Dipartimento della Difesa si oppose fermamente a qualsiasi coinvolgimento americano in un conflitto diretto con l’Iran, e il segretario alla Difesa Lloyd Austin espresse pubblicamente e privatamente la contrarietà a un’azione israeliana su obiettivi nucleari. Biden, consapevole del rischio di trascinare gli Stati Uniti in una guerra regionale, mise in chiaro che Washington non avrebbe sostenuto un’azione preventiva di quel tipo, né politicamente né militarmente.
Al netto delle differenze stilistiche e retoriche, ciò che accomuna le due principali tradizioni politiche americane – democratica e repubblicana – è la volontà condivisa di preservare la posizione dominante degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Le differenze tra i due schieramenti si concentrano su temi di politica interna – tassazione, diritti civili, sanità – cruciali per l’elettorato nazionale, ma marginali nel contesto geopolitico globale. Sul piano internazionale, invece, la continuità strategica è impressionante: cambiano i volti, le retoriche e le giustificazioni, ma resta intatta la logica imperiale che guida da decenni le scelte fondamentali degli Stati Uniti. La narrativa trumpiana del presidente di pace è, in questo contesto, pura propaganda elettorale: l’America di Trump non chiude le guerre, semplicemente ne apre di nuove.
La Siria di Julani. Da retrovia dell’Asse della Resistenza ad avamposto antiraniano
La caduta del regime di Bashar al-Assad ha aperto la strada a una nuova configurazione geopolitica della Siria. In pochi mesi, il paese si è trasformato da bastione dell’Asse della Resistenza a piattaforma strategica per la cooperazione con Israele e gli Stati Uniti. Al centro di questa transizione vi è Ahmad al-Sharaa, noto come Abu Mohammad al-Julani, ex capo di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), oggi guida politica del nuovo governo siriano post-Assad. La sua ascesa rappresenta non solo un cambio di dirigenza, ma una vera e propria rivoluzione ideologica e diplomatica.
Secondo fonti israeliane come Channel 12 e Kan News, il nuovo esecutivo siriano ha siglato un accordo strategico con Israele che prevede cooperazione in materia di sicurezza e intelligence, con l’obiettivo di contrastare Hezbollah e contenere l’influenza iraniana nel Levante[4]. Non si tratta di una semplice intesa diplomatica, ma di un vero e proprio terremoto geopolitico: per la prima volta, uno degli ex membri centrali dell’Asse della Resistenza si schiera apertamente al fianco di Israele e dei suoi alleati regionali.
Questo passaggio segna la rottura del fronte che, per anni, aveva unito Teheran, Damasco, Hezbollah e Hamas in una logica comune di opposizione all’egemonia americana e alla presenza israeliana. La Siria, che aveva costruito la propria proiezione strategica sul sostegno alla Resistenza panaraba e sull’alleanza militare con Hezbollah e con i movimenti palestinesi, abdica ora a quel ruolo storico e si riallinea con il cordone antiraniano promosso da Israele, Stati Uniti e monarchie del Golfo.
Il governo nato dalla trasformazione di HTS da coalizione insurrezionale gihadista a soggetto politico riconosciuto si presenta come un associato funzionale agli interessi israelo-americani. La Siria non è più uno spazio di sostegno alla “lotta armata” contro l’occupazione, ma un tassello attivo nella strategia regionale avviata con gli Accordi di Abramo, finalizzata a integrare regimi arabi filooccidentali nella sfera d’influenza di Israele e Washington[5].
Il mutamento ha conseguenze profonde anche sulla questione palestinese. Damasco, che per anni aveva ospitato sedi e dirigenza di Hamas e Jihad Islamica, si ritira dalla scena della Resistenza, contribuendo al progressivo isolamento della causa palestinese. L’arresto, nell’aprile 2025, di due esponenti del Jihad Islamico da parte delle autorità siriane ha confermato l’inversione di rotta: non più tolleranza o complicità, ma repressione attiva delle fazioni ostili a Israele[6].
Nel nuovo assetto regionale, la Siria rischia di diventare non un alleato minore, ma un avamposto strategico all’interno del blocco costruito tra Israele, Emirati Arabi, Bahrein e Arabia Saudita, con il sostegno diretto degli Stati Uniti. Di fronte a questo schieramento, l’Asse della Resistenza — che unisce attori sciiti come l’Iran e Hezbollah a formazioni sunnite come Hamas e il Jihad Islamico — appare sempre più isolato e vulnerabile. Il passaggio di Damasco nel campo avversario ne rappresenta la perdita territoriale e simbolica più grave dall’inizio delle rivolte arabe.
Nel quadro strategico delineato dalla nuova amministrazione Trump, la Siria post-Assad guidata da Julani si configura come una pedina funzionale a una più ampia architettura di contenimento. La logica trumpiana, imperniata sulla concentrazione dello sforzo geopolitico contro il cosiddetto asse sino-iraniano, trova nella riconversione della Siria un successo simbolico e operativo: un’ex roccaforte della Resistenza trasformata in alleato strategico. In questa chiave, il nuovo governo siriano non è solo tollerato, ma potenzialmente sostenuto da Washington, proprio perché consente di ottenere due risultati in un colpo solo: l’erosione della proiezione regionale iraniana e il ridimensionamento dell’influenza russa nel Levante.
La Siria di Julani diventa così una piattaforma avanzata di una nuova alleanza, informale ma concreta, che coinvolge Israele, le monarchie sunnite del Golfo e gli Stati Uniti. La sua collocazione geografica la rende un punto d’appoggio strategico nella guerra di contenimento all’Iran, mentre la sua rottura con il fronte della Resistenza fornisce a Trump un argomento forte per presentare la propria strategia come vincente. È la logica del disimpegno selettivo e della riallocazione della forza: invece di disperdere le risorse su più teatri, gli Stati Uniti scelgono di sostenere attori locali compatibili con i propri obiettivi, anche se provenienti da matrici ideologiche precedentemente ostili.
In quest’ottica, il consolidamento della Siria all’interno del blocco israelo-statunitense non è un effetto collaterale della caduta di Assad, ma un obiettivo perseguito e funzionale alla strategia globale della nuova amministrazione.
Cina- La guerra dei dazi e la strategia di contenimento economico
La presidenza Trump ha elevato la Cina a principale sfidante strategico degli Stati Uniti, interpretando la competizione con Pechino come una partita per l’egemonia globale. La “guerra dei dazi” avviata già nel primo mandato ha conosciuto un nuovo inasprimento nel 2025, diventando il fulcro di una strategia di contenimento economico e tecnologico.
Nel febbraio 2025 Trump ha dichiarato una nuova emergenza nazionale e imposto tariffe generalizzate fino al 145% su una vasta gamma di beni cinesi. Pechino ha risposto con dazi del 125% su prodotti agricoli e tecnologici statunitensi[7]. Dopo una breve tregua negoziale di 90 giorni, le tariffe sono state parzialmente ridotte, ma l’impatto economico era già evidente: le imprese americane hanno sostenuto costi aggiuntivi stimati in oltre 82 miliardi di dollari, colpendo soprattutto le piccole e medie imprese[8].
Oltre ai dazi, l’amministrazione Trump ha rilanciato misure di contenimento tecnologico: restrizioni agli investimenti cinesi nei settori avanzati, limiti all’esportazione di semiconduttori e misure contro giganti come Huawei e TikTok. Il “disaccoppiamento” tecnologico tra Washington e Pechino si è intensificato, spingendo le catene di distribuzione globali verso una riconfigurazione strategica[9].
Il secondo fronte della strategia trumpiana è stato diplomatico e commerciale. Trump ha stretto accordi mirati con Paesi del Sud-Est asiatico (in primis il Vietnam) per scoraggiare l’uso di triangolazioni cinesi e rafforzare alternative alle filiere sinocentriche. Parallelamente, sono stati riattivati i negoziati con il Regno Unito e altri interlocutori transatlantici per costruire un blocco anti-Pechino all’interno dell’economia globale[10].
Gli obiettivi di questa politica sono molteplici: ridurre l’interdipendenza con la Cina, frenare l’espansione industriale cinese, contenere l’ascesa geopolitica del Partito Comunista e, non da ultimo, finanziare parte della spesa pubblica interna grazie ai proventi tariffari. Per Trump, si tratta di un’estensione della dottrina “America First” sul piano economico: la pressione commerciale diventa lo strumento per piegare un avversario sistemico, senza ricorrere allo scontro militare diretto.
Tuttavia, la strategia non è priva di rischi. Le tariffe hanno generato rincari per i consumatori americani, rallentato la crescita industriale e alimentato una nuova ondata inflattiva. Il Fondo di Stabilità Globale ha previsto un impatto negativo sul PIL mondiale pari allo 0,2% e un aumento delle tensioni sistemiche nei mercati emergenti[11]. Sul piano geopolitico, la Cina ha rafforzato i suoi legami economici con Russia, Iran e Paesi del Sud Globale, accentuando la polarizzazione del sistema internazionale.
In questo contesto, la guerra dei dazi non appare come un episodio isolato, ma come parte integrante della strategia trumpiana di semplificazione dei fronti: contenere la Russia con una tregua, isolare l’Iran con la forza e logorare la Cina attraverso la pressione economica. Il rapporto Trump–Putin–Xi si compone anche di questi elementi non militari, che mostrano come la politica estera americana, pur evitando guerre convenzionali, non rinunci all’esercizio della coercizione globale.
La risposta cinese a questa strategia è stata duplice: da un lato, un irrigidimento della postura sovrana, con misure restrittive su investimenti occidentali, una maggiore sorveglianza sul settore privato e l’accelerazione di progetti come lo yuan digitale per limitare l’esposizione al dollaro; dall’altro, una rafforzata diplomazia Sud-Sud. Pechino ha intensificato la cooperazione con Russia, Iran, Brasile, Sudafrica e i Paesi ASEAN, promuovendo forum multilaterali alternativi al G7 e stringendo nuovi accordi commerciali in Africa e Medio Oriente.
Dal punto di vista ideologico, il Partito Comunista ha incorniciato il conflitto commerciale con gli Stati Uniti come uno scontro fra modelli: da un lato il multipolarismo asiatico, dall’altro l’unilateralismo occidentale. In questo schema, la “sovranità digitale” e la tenuta industriale diventano pilastri del nazionalismo cinese. Il confronto con gli Stati Uniti viene presentato come inevitabile, non solo sul piano economico ma anche valoriale: una battaglia per ridefinire le regole dell’ordine globale.
Gli effetti sistemici sono tuttavia ambivalenti. Mentre alcune economie emergenti beneficiano della rilocalizzazione produttiva occidentale, la pressione tariffaria ha danneggiato la crescita globale, ridotto gli scambi multilaterali e indebolito istituzioni come il WTO. Il rischio di un’economia globale frammentata in blocchi rivali – con regole, valute e standard tecnologici distinti – si fa sempre più concreto.
Infine, nella logica del “grande scambio” tra Stati Uniti e Russia, la Cina si trova in una posizione scomoda. Se Mosca scegliesse una linea più autonoma rispetto a Pechino, la pressione americana potrebbe riuscire nel suo intento: disarticolare l’asse eurasiatico. Per Xi Jinping, questo scenario rappresenta una minaccia strategica, perché riduce la leva diplomatica della Cina e isola ulteriormente la sua posizione in caso di crisi su Taiwan. La guerra dei dazi, letta in questa luce, non è solo un conflitto commerciale: è uno strumento per indebolire la saldatura geopolitica fra Cina, Russia e Iran, cuore dell’ordine multipolare alternativo immaginato a Pechino.
Perché Putin è attratto dalla prospettiva Trump
Il rinnovato interesse di Vladimir Putin verso un dialogo con l’amministrazione Trump non è soltanto il frutto di un calcolo tattico, ma si inserisce in una più ampia dinamica di riconfigurazione delle priorità geopolitiche della Russia. Da oltre un decennio, Mosca ha progressivamente avvicinato le proprie strutture economiche e diplomatiche alla Cina, spinta dalle sanzioni occidentali, dall’isolamento post-Crimea e dalla necessità di aggirare la dipendenza dal mercato europeo. Tuttavia, questo riavvicinamento ha assunto, nel tempo, tratti sempre più sbilanciati: la Russia è divenuta esportatore di materie prime a basso valore aggiunto, mentre la Cina ha imposto i termini delle relazioni, sia nei settori energetici che in quelli tecnologici.
In questo contesto, la proposta implicita della linea Trump — una “tregua” sul fronte ucraino in cambio della neutralità russa verso la Cina e l’Iran — rappresenta per Putin un’opportunità strategica. Mosca può immaginare di recuperare margini di autonomia strategica, reinserirsi nei circuiti economici europei, e soprattutto evitare la completa subordinazione all’asse sinocentrico. La logica è quella dell’”equilibrismo neosovietico”: non rompere con Pechino, ma ribilanciare i rapporti con l’Occidente per rafforzare la propria posizione negoziale su entrambi i fronti.
Dal punto di vista energetico, un parziale disgelo con l’Europa consentirebbe alla Russia di riattivare canali di esportazione verso mercati ad alto rendimento, aggirando l’eccessiva dipendenza dal mercato cinese, dove i prezzi sono più bassi e le condizioni contrattuali meno favorevoli. Sul piano tecnologico, la cooperazione con la Cina ha mostrato limiti evidenti, soprattutto nel settore dei semiconduttori, delle infrastrutture cloud e della produzione di droni ad alta precisione. La riapertura, anche selettiva, ai mercati e agli standard occidentali offrirebbe a Mosca margini per colmare questi divari.
C’è poi una dimensione simbolica e sistemica. Il ritorno al tavolo con Washington — non più come “nemico sistemico”, ma come interlocutore critico — rilancerebbe il prestigio internazionale della Russia, permettendole di uscire dall’angolo diplomatico nel quale è stata confinata dalla guerra in Ucraina. Per Putin, che da sempre aspira a un ruolo di mediatore tra i blocchi, questa potrebbe essere un’opportunità per riaccreditarsi come attore globale.
La visione trumpiana, con la sua enfasi su transazioni e accordi bilaterali, è più compatibile con l’approccio del Cremlino rispetto alla cornice valoriale e multilaterale adottata dalle amministrazioni democratiche. In questo senso, Trump offre a Putin qualcosa che i Democratici statunitensi non offrono: un’uscita dignitosa dal conflitto, senza precondizioni morali e senza necessità di abiure strategiche.
Naturalmente, questa prospettiva è carica di ambiguità e rischi. Un riavvicinamento a Washington implicherebbe tensioni con Pechino, possibili ripercussioni sulla cooperazione in ambito BRICS, e una ridefinizione delicata dei legami con l’Iran. Ma per il Cremlino, stretto tra la stagnazione interna e il rischio di vassallaggio asiatico, la prospettiva trumpiana rappresenta un orizzonte di flessibilità e rilancio strategico che nessun altro attore internazionale oggi è disposto a offrire.
L’Europa, la grande assente
Nel quadro del rapporto globale tra Stati Uniti, Russia e Cina, l’Unione Europea appare come il grande assente. Pur essendo geograficamente prossima al conflitto ucraino, economicamente interdipendente con Cina e Russia, e alleata strategica degli Stati Uniti, l’Europa non riesce ad affermare una propria linea autonoma di politica estera. Sia sotto l’egida della dirigenza liberal-atlantista di Biden, sia nel contesto della visione sovranista trumpiana, Bruxelles continua ad oscillare tra l’adeguamento alle agende statunitensi e l’impotenza decisionale interna.
Il problema è innanzitutto strutturale: l’Unione non dispone di un esercito comune, né di una politica estera realmente condivisa. Le divergenze interne paralizzano ogni tentativo di visione unitaria. Da un lato, i Paesi dell’Est — in particolare Polonia e repubbliche baltiche — spingono per una linea dura e frontalmente antirussa, alimentata da timori storici e legami militari diretti con Washington. Dall’altro lato, troviamo governi più ambigui o apertamente simpatetici verso Mosca, come quello di Viktor Orbán in Ungheria o di Robert Fico in Slovacchia, che criticano l’embargo energetico e ostacolano l’invio di armi a Kiev.
Nel mezzo, l’Italia di Giorgia Meloni adotta una posizione opportunistica. Pur mantenendo una retorica filoatlantica, Roma ha cercato di posizionarsi come interlocutore moderato, attento sia agli umori della NATO sia alle dinamiche interne dell’UE. Questa posizione riflette tanto la prudenza strategica quanto i vincoli economici di un Paese dipendente dal gas e dalle esportazioni, ma con scarse capacità coercitive autonome.
In tale contesto, l’Europa si ritrova schiacciata tra due visioni americane contrapposte: da un lato l’internazionalismo multilaterale liberal, che le assegna il ruolo di cinghia di trasmissione dell’ordine liberale; dall’altro, l’unilateralismo sovranista trumpiano, che la considera un’alleata subordinata, utile solo se funzionale ai propri obiettivi. In entrambi i casi, la mancanza di un’agenda geopolitica propria condanna l’UE a un ruolo subalterno.
La guerra in Ucraina, la crisi energetica, la dipendenza tecnologica e il nuovo disordine mondiale avrebbero potuto rappresentare uno spartiacque per rilanciare l’autonomia strategica europea. Ma la frammentazione interna, l’assenza di una direzione condivisa e la paura del disallineamento da Washington hanno prevalso. L’Europa resta quindi una potenza economica senza proiezione geopolitica, prigioniera della sua natura intergovernativa e della sua storica sudditanza transatlantica.
Questa condizione si riflette nella sua incapacità di gestire dossier strategici autonomamente: dalla Libia al Sahel, dai Balcani all’Ucraina, l’Unione Europea appare incapace di sviluppare una visione strategica coesa, limitandosi a reazioni frammentarie o a interventi subordinati alle iniziative americane. Il fallimento della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) è sotto gli occhi di tutti: priva di una forza armata integrata e di una catena di comando unica, l’Europa resta dipendente dalla NATO per la sua sicurezza e da Washington per la sua direzione.
La crisi ucraina ha amplificato queste contraddizioni. Gli Stati dell’Est, memori dell’occupazione sovietica e animati da un fervente atlantismo, hanno spinto per un inasprimento militare e per una rottura totale con Mosca. Al contrario, altri Paesi – Francia, Italia, Spagna – hanno cercato di mantenere margini di dialogo e di preservare i propri interessi economici. Questo scollamento ha reso impossibile una posizione unitaria.
Particolarmente emblematica è l’ambiguità della Germania, ex cuore della relazione euro-russa: dopo la crisi legata alla dipendenza energetica da Mosca, Berlino si è avvicinata alla linea dura di Washington senza però sviluppare una vera visione geopolitica autonoma. L’attuale dirigenza politica tedesca, più debole e meno influente rispetto all’era Merkel, si muove con cautela, oscillando tra sostegno all’Ucraina e tutela dei propri interessi industriali.
Il quadro europeo è dunque segnato da una polarizzazione interna: da un lato, l’asse russofobo dei Paesi baltici e della Polonia, pronti ad abbracciare anche la variante trumpiana del potere americano; dall’altro, governi più pragmatici o apertamente russofili, come l’Ungheria di Orbán o la Slovacchia di Fico, che vedono in Trump un’opportunità per svincolarsi dall’ortodossia europea a guida tedesca. In mezzo, l’Italia della Meloni, che prova a giocare su più tavoli senza assumere una direzione strategica definita.
In sintesi, l’Europa non ha una sua “dottrina” di politica estera. Le scelte dipendono dal contesto e dall’amministrazione statunitense di turno: con i Democratici, l’UE fa da spalla multilaterale; con i Repubblicani, si adatta a una logica bilaterale e funzionale. In entrambi i casi, manca un’autonoma capacità di dettare le regole del gioco.
Questa crisi di sovranità strategica ha conseguenze di lungo periodo: l’UE rischia di essere marginalizzata in un sistema internazionale ridefinito dalle potenze globali. Se non verrà risolta la contraddizione tra ambizione politica e fragilità istituzionale, l’Europa continuerà a essere più oggetto che soggetto della storia.
Conclusione
La parabola geopolitica qui delineata suggerisce che la presidenza Trump – e la dottrina che essa incarna – stia contribuendo alla trasformazione dell’ordine internazionale da architettura ideologica a geometria variabile di potenze. Al centro non c’è un asse rigido, ma un insieme di convergenze tattiche, scambi impliciti, sospensioni temporanee delle ostilità e riposizionamenti strategici. Il risultato è un sistema fluido, adattivo, spesso opaco: non ancora multipolare in senso pieno, ma certamente postunipolare.
Trump non cerca un equilibrio stabile, ma una semplificazione dei fronti che gli consenta di concentrare risorse contro quella che egli considera la principale minaccia sistemica: la Cina. In questa logica, l’Ucraina può essere sacrificata, l’Iran colpito e represso, e la Russia recuperata come interlocutore funzionale. Il “grande scambio” – se esiste – non è un trattato, ma un’intesa tacita: un cessate il fuoco geopolitico in cambio di spazi d’azione.
Per Putin, questa configurazione offre l’opportunità di uscire dalla dipendenza da Pechino, di rientrare nel mercato europeo e di rilanciarsi come attore globale svincolato da un’alleanza obbligata. Per Trump, rappresenta l’ennesima espressione della sua dottrina transazionale: priva di rigidità ideologica, fondata su rapporti bilaterali di forza, orientata alla massimizzazione dell’interesse strategico americano.
Sul piano sistemico, ciò che emerge è un ordine instabile e negoziabile, fondato su rapporti di potenza flessibili, più che su regole condivise. L’Europa, in questo contesto, resta geoeconomica ma non geopolitica; l’Iran isolato e vulnerabile; la Cina sotto pressione strategica e tecnologica.
Resta aperta una questione cruciale: se questo ordine fluido rappresenti un passaggio verso una nuova architettura più stabile, o l’inizio di una fase di competizione permanente. La storia suggerisce che i sistemi postegemonici non trovano equilibrio facilmente. La “pace trumpiana”, se tale si può definire, non è un ritorno all’ordine, ma una gestione asimmetrica del disordine. È il realismo di potenza adattato al XXI secolo: meno ideologico, più transazionale; meno universalista, più selettivo. Una logica che, piaccia o no, si impone come paradigma operativo della politica internazionale contemporanea.
NOTE
[1] Trump Pauses Some Weapons Transfers to Ukraine, Eric Schmitt, David E. Sanger e Tyler Pager – The New York Times, 1° luglio 2025. https://www.nytimes.com/2025/07/01/us/politics/trump-ukraine-weapons.html
[2] CNN, “Intel assessment casts doubt on impact of US strikes on Iran nuclear sites,” 24 giugno 2025. https://www.cnn.com/2025/06/24/politics/intel-assessment-us-strikes-iran-nuclear-sites
[3] Fox News, “Trump could arm Israel with US B-2s, bunker busters if Iran tries to go nuclear under new proposal,” https://www.foxnews.com/politics/trump-could-arm-israel-us-b2s-bunker-busters-iran-tries-go-nuclear-under-new-proposal
[4] Israel confirms direct normalization talks with Syria, in «The Cradle», 30 giugno 2025. https://thecradle.co/articles/israel-confirms-direct-normalization-talks-with-syria
[5] Israel holding talks with Syria on ‘Sharaa regime’ joining Abraham Accords, in «The Times of Israel», 29 giugno 2025. http://www.timesofisrael.com/report-israel-holding-talks-with-syria-on-sharaa-regime-joining-abraham-accords/
[6] Syria detains two leaders of Palestinian Islamic Jihad, in «Reuters», 22 aprile 2025. https://www.reuters.com/world/middle-east/syria-detains-two-leaders-palestinian-islamic-jihad-2025-04-22/
[7] Reuters, “Trump’s global trade war may defeat US strategic goals on China,” 3 aprile 2025. https://www.reuters.com/world/trumps-global-trade-war-may-defeat-us-strategic-goals-china-2025-04-03/
[8] Associated Press, “Analysis shows Trump’s tariffs would cost US employers $82.3 billion,” giugno 2025. https://apnews.com/article/6fef729ff39ce24fcd46bbb60134b032
[9] Global Panorama, “Trump 2.0 and the China Containment Strategy: Continuity or Change?” marzo 2025. https://www.globalpanorama.org/en/2025/03/trump-2-0-and-the-china-containment-strategy-continuity-or-change-samim-aktar/
[10] Business Insider, “Trump’s new deal with Vietnam aims to undercut Chinese supply chains,” luglio 2025. https://www.businessinsider.com/trump-trade-tariff-deal-vietnam-target-china-transshipment-supply-chain-2025-7
[11] Axios Macro, “Inflationary spillovers and the global outlook under Trump tariffs,” giugno 2025. https://www.axios.com/newsletters/axios-macro-c4b0a2d0-573c-11f0-b613-efa15db15646
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