Il premio Nobel per la pace è parte di quel circolo di meccanismi attraverso i quali il potere occidentale autocelebra sé stesso nelle sue varie forme. Non solo, spesso la sua assegnazione assume dei ben precisi connotati geopolitici. A dimostrazione di ciò si può prendere in considerazione la sua attribuzione al dissidente cinese Liu Xiaobo (premio Nobel per la pace nel 2010). Questi, rispondendo ad una domanda sul futuro della Cina per una radio di Hong Kong nel 1988 (quindi, prima del ritorno della città alla Madrepatria), ebbe modo di affermare che sarebbero serviti “300 anni di colonialismo” per una trasformazione del Paese in senso puramente occidentale. Solo un anno più tardi, pur trovandosi negli Stati Uniti in qualità di professore in visita, tornò in Cina per prendere parte alle proteste di piazza Tienanmen. Un evento che l’allora guida cinese Deng Xiaoping definì “tumulto” nel discorso che tenne il 9 giugno 1989 agli ufficiali di rango superiore in applicazione della legge marziale a Pechino. In quell’occasione, constatando che un manipolo di malintenzionati si era infiltrato tra la folla della piazza, affermò: “non avevamo di fronte le masse popolari, ma facinorosi che hanno tentato di sovvertire il nostro Stato […] Il loro obiettivo era quello di instaurare una repubblica borghese, un vassallo dell’Occidente in tutto e per tutto”. Oltre a piangere i propri “martiri” ed a congratularsi con le forze di sicurezza e con l’esercito per essere riusciti a sedare il “tumulto”, nel medesimo discorso la Guida cinese constatò la necessità di imparare dagli errori del passato e di guardare verso il futuro. “Lo scoppio dell’incidente – affermò Deng Xiaoping – ci dà molto a cui pensare e ci costringe a riflettere a mente lucida sul passato e sul futuro. Forse questo terribile avvenimento ci permetterà di portare a termine le politiche di riforma e apertura al mondo esterno in modo costante e perfino più in fretta, di correggere i nostri errori più rapidamente e di sfruttare meglio i nostri vantaggi […] La cosa importante è non riportare mai la Cina a essere un paese con le porte chiuse”[1].

Xiaobo, inoltre, è stato in ottimi rapporti con Zhao Ziyang (che nei piani occidentali sarebbe dovuto divenire il Gorbaciov cinese). A questo proposito è bene ricordare che l’apertura economica favorita dalle riforme di Deng Xiaoping ha avuto effetti sia positivi che negativi. Se da un lato ha favorito lo sviluppo produttivo ed il sollevamento dalla condizione di povertà di milioni di famiglie cinesi, dall’altro, ha consentito la penetrazione in Cina di organizzazioni non governative che si sono rapidamente rivelate strumenti del “potere morbido” nordamericano. Una menzione particolare in questo senso la meritano l’Open Society del famigerato “filantropo” George Soros, il National Endowment for Democracy e l’Albert Einstein Institute del teorico delle “rivoluzioni colorate” Gene Sharp (il “Machiavelli della non violenza”). A partire dal 1986, tramite il China Fund (legato alla Open Society), Soros ha apertamente finanziato l’Istituto per la Riforma Economica e Strutturale di Zhao Ziyang (un “serbatoio di pensiero” in puro stile occidentale attraverso il quale veniva propugnata la privatizzazione totale delle imprese e delle proprietà statali e la liberalizzazione del mercato cinese). Non a caso, proprio Zhao è divenuto nume tutelare dei rivoltosi di Tiananmen. Altro personaggio di rilievo in questo contesto è stato James Lilley, nominato ambasciatore in Cina negli ultimi mesi dell’amministrazione Reagan e, dal 1951, al servizio della CIA in Asia con il preciso ruolo di “combattere il comunismo”.

Alla pari di quanto avvenuto più recentemente ad Hong Kong, anche in quella occasione l’Ambasciata statunitense è stata l’epicentro del reclutamento degli agenti da infiltrare nelle manifestazioni. Lilley è stato anche una figura chiave dell’operazione CIA Yellowbird che ha consentito a diverse centinaia di dissidenti cinesi di trovare rifugio negli Stati Uniti ed in altri Paesi occidentali; tra loro anche l’astrofisico Fang Lizhi (uno dei volti più conosciuti della protesta) che Deng in diverse occasioni apostrofò come “femminuccia” e “traditore della patria”.

Un altro caso interessante di attribuzione geopolitica del Nobel per la pace è quello legato a Yithzak Rabin e Yasser Arafat. Il primo, da Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano è stato protagonista della cosiddetta “guerra dei sei giorni” del 1967: di fatto, una vera e propria aggressione ai Paesi vicini. Sebbene venga spesso definita nei termini di “guerra preventiva”, lo stesso Rabin, in un’intervista rilasciata al quotidiano francese Le Monde nel 1968, ammise che i vertici politici di Tel Aviv erano perfettamente a conoscenza del fatto che Nasser (già impantanato nel conflitto nello Yemen) non stesse in alcun modo cercando uno scontro diretto con Israele. Anche i movimenti di truppe egiziane nel Sinai non implicavano l’imminenza di un attacco. Nonostante ciò, Israele scelse comunque di aggredire l’Egitto per portare a termine il lavoro che non poté concludere nel 1956 con l’attacco congiunto franco-britannico-israeliano seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez[2]. Ancora, non bisognerebbe dimenticare che Rabin (poi assassinato ad un estremista del sionismo religioso in quanto colpevole di aver ceduto territori del “Grande Israele”) fu colui che, durante la Prima Intifada, invitava gli uomini dell’IDF a spezzare le braccia dei giovani palestinesi che lanciavano pietre contro le forze di occupazione israeliane e contro i coloni.

Più interessante il caso di Arafat, al quale il premio venne conferito semplicemente per aver accettato un accordo che, di fatto, attribuiva ad Israele l’80% del territorio della Palestina storica e non dava alcuna garanzia reale sulla creazione di uno Stato palestinese o sul diritto al ritorno dei profughi. In questo senso, sarebbe anche utile ricordare il Nobel conferito al già citato Mikhail Gorbaciov, premiato per aver a tutti gli effetti dato avvio alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Non meno rilevante il premio attribuito a Barack Obama, che ha allargato al Pakistan nord-occidentale il conflitto in Afghanistan; ha posto le basi sia per l’attuale conflitto in Ucraina (con il colpo di Stato del 2014), sia all’aggressione della coalizione a guida saudita contro lo Yemen del 2015 (che ha generato una delle crisi umanitarie più gravi del XXI secolo, insieme a quella di Gaza); ha sostenuto gli sforzi dei “ribelli moderati” in Siria (si pensi all’Operazione Timber Sycamore, ben rappresentata dalla cordialità tra l’ex Direttore della CIA David Petraeus e l’ex qaidista Ahmad al-Shaara, ora presidente di ciò che rimane della Siria) e la distruzione della Libia.

Maria Corina Machado, Nobel per la pace del 2025, è indubbiamente in buona compagnia. E non sorprende che, dopo essere venuta a conoscenza del premio, abbia riservato la sua prima dichiarazione  alla “comunità internazionale”, con l’auspicio che questa la smetta di seguire passivamente la via del dialogo e si adoperi per il “rovesciamento dell’attuale regime” in Venezuela[3]. Una dichiarazione in perfetta linea con quella di Pete Hegseth, a capo del “nuovo” Dipartimento della Guerra, che ha fatto sapere come le forze armate USA siano pronte a sostenere il cambio di regime a Caracas. Ciò che manca è solo il via libera del presidente Trump, che già ha acconsentito ad operazioni al largo delle coste venezuelane in linea teorica rivolte alla lotta al narcotraffico (sono già state affondate quattro imbarcazioni civili che Washington ha indicato come legate ai cartelli della droga) ma che assomigliano di più ad un preludio all’aggressione o almeno ad una rinnovata strategia di massima pressione.

Ma chi è Maria Corina Machado? Educata negli Stati Uniti e lautamente finanziata dal già citato National Endowment for Democracy, la guida dell’opposizione venezuelana propone per il futuro del Paese latinoamericano la consueta miscela di neoliberismo esasperato e non meglio identificati “valori occidentali” (in questo è del tutto in linea con altri esponenti della “destra” sudamericana, da Jair Bolsonaro a Javier Milei). Non sorprende inoltre il fatto che la sua figura è stata esaltata a più riprese dal Project Syndicate (organizzazione mediatica internazionale no profit legata sia a George Soros che alla Bill and Melinda Gates Foundation). Antichavista della prima ora, la Machado non si è mai distinta né per democraticità né per pacifismo. Nel 2002 sostenne il colpo di Stato contro Hugo Chavez (democraticamente eletto) ed il brevissimo governo fantoccio di Carmona Estagna (capo della locale Confindustria e risorsa della CIA). Ancora, ha ampiamente sostenuto, insieme con Leopoldo Lopez e Antonio Ledezma, le assai poco pacifiche manifestazioni di protesta del 2014, che hanno provocato 43 morti ed oltre 800 feriti (quasi tutti tra le forze di sicurezza), e quelle del 2017 (150 morti e oltre 1000 feriti)[4]. Nel 2020 (nel corso del primo mandato trumpista), invece, è stata la volta dell’Operazione Gedeone: il tentativo di alcuni “dissidenti” venezuelani e della compagnia militare privata statunitense Silvercorp USA di addentrarsi via mare in Venezuela e di rovesciare il governo Maduro in favore del tristemente noto Juan Guaidò. Bisogna comunque sottolineare che i rapporti tra Machado e Guaidò non sono stati sempre ottimi. Questo ad ulteriore dimostrazione che l’opposizione venezuelana non è esattamente un blocco compatto. Nonostante ciò, proprio Juan Guaidò, nel 2024, affermò la necessità di appoggiare politicamente Machado e di mobilitare il popolo venezuelano contro il “regime” (ennesimo appello rimasto senza risposta)[5].

Si è fatto riferimento in precedenza a Javier Milei e Jair Bolsonaro. Con questi, la Machado condivide anche la “passione” e vicinanza allo “Stato ebraico” ed in particolare al Partito Likud di Benjamin Netanyahu. Il 21 luglio 2020, infatti, lo stesso Likud ed il Partito Vente Venezuela di Maria Corina Machado hanno siglato un accordo di cooperazione internazionale volta a “formare un’alleanza per lavorare in modo congiunto su questioni politiche, ideologiche e sociali, ed anche per migliorare la cooperazione sui temi collegati alla strategia, alla geopolitica ed alla sicurezza”. Il testo dell’accordo, infine, indica come obiettivo quello di “portare i popoli di Israele e Venezuela più vicini in modo da favorire l’affermazione dei valori occidentali, alla base di entrambi i Partiti, come la libertà e l’economia di mercato”. Questo dopo che, nel 2019, la stessa Machado aveva avuto modo di affermare che la lotta del Venezuela è la lotta di Israele[6].

Sempre la Machado, nel 2021, in occasione dell’ennesima aggressione sionista contro Gaza (esito delle proteste palestinesi per l’occupazione coloniale del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme che, di fatto, avrebbe accerchiato il cuore palestinese della città), dichiarò: “Oggi, tutti noi che difendiamo i valori dell’Occidente, stiamo con Israele; un genuino alleato della libertà”.

Qui, la linea della Machado è assolutamente schiacciata su quella della nuova amministrazione Trump, nonostante alcune frizioni iniziali dovute al tentativo (avviato da Biden) di riavvicinarsi al Venezuela in chiave antirussa ed anticinese. Emblematiche, in questo senso, le parole del già citato segretario alla guerra che, nella “summa” del suo pensiero (un polpettone ricco dei consueti luoghi comuni della destra nordamericana dall’imbarazzante titolo “American Crusade”), scrive: “La prima linea dell’America, la prima linea della nostra fede, è Gerusalemme e Israele. Israele è il simbolo della libertà, ma ancor di più, ne è l’incarnazione vivente. Israele è la prova, in prima linea nella civiltà occidentale, che la ricerca della felicità e della libertà può trasformare una regione impantanata e garantire uno standard di vita senza pari in Medio Oriente. Israele incarna l’arma della nostra crociata americana. Il ‘cosa’ del nostro ‘perché’. Fede, famiglia, libertà e libera impresa. Se amate queste cose, imparate ad amare lo Stato di Israele e trovate un posto dove poter combattere per esso”[7].

Sorvolando sul fatto che lo “standard di vita senza pari” è stato raggiunto sottraendo terra e risorse alle popolazioni indigene, l’affermazione di Hegseth andrebbe letta anche tenendo in considerazione il fatto che nelle file dell’esercito israeliano combattono 23.000 cittadini statunitensi e che sono cittadini statunitensi il 15% dei coloni tra Cisgiordania e Gerusalemme (forse attirati anche dalla tassazione agevolata ad essi garantita). Uno di loro, in relazione ai citati fatti di Sheikh Jarrah, divenne famoso per la frase rivolta ad una famiglia palestinese: “Se non vi prendo la casa io, lo farà qualcun altro”[8].

Questa particolare relazione con Israele lega la Machado anche ai “patriots” europei (il conglomerato dei Partiti e movimenti “trumpisti” nel Vecchio Continente). Proprio nel febbraio 2025, sia la Machado che Milei hanno avuto modo di partecipare ad un convegno del gruppo. Allo stesso tempo, suddetto rapporto con Israele, nasconde anche delle ambiguità. Milei, ad esempio, è un sincero ammiratore di quella giunta militare argentina che è stata spesso accusata di atteggiamenti antisemiti, se non addirittura indicata come responsabile dell’“olocausto meridionale”: l’uccisione/sparizione di molti esponenti di sinistra di origine ebraica. Inoltre, è curioso osservare il fatto che il governo Maduro ha acquistato un sistema di spionaggio digitale dalla compagnia israeliana Cellebrite[9], nonostante i rapporti diplomatici tra i due Paesi siano stati interrotti nel 2009, a seguito dell’operazione “Piombo Fuso” su Gaza, dove morirono oltre 1400 palestinesi (soprattutto, ancora una volta, civili). Un fatto, questo, che mostra come lo stesso governo Maduro non sia estraneo ad ambiguità e colpe per la sua condizione attuale[10].

In conclusione, tornando al premio Nobel, una certa ambiguità si riscontra anche nella sua assegnazione in campo letterario. Anche quest’anno, come nel 2002, quando fu premiato Imre Kertész, la scelta è caduta su un ebreo ungherese; stavolta si tratta di László Krasznahorkai, autore di testi come Sátántangó portati sul grande schermo dal regista Béla Tarr. Krasznahorkai ha dichiarato di essere pronto a migrare in Israele per “divenire interamente ebreo”[11]. Evidentemente non lo imbarazza il fatto che al governo dell’entità sionista ci sia Benjamin Netanyahu, alleato di Orban, del quale Krasznahorkai è oppositore in Ungheria (sic!).


NOTE

[1]Deng Xiapoing, Il tumulto di Piazza Tian’anmen, contenuto in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 3/2019.

[2]A. Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl ad oggi, Carocci, Roma 2017, pp. 101-102.

[3]Si veda Machado, contiamo su Trump per raggiungere la libertà, 10 ottobre 2025, www.ansa.it.

[4]Si veda G. Colotti, La grande congiura per far crollare il Venezuela, 18 gennaio 2018, www.farodiroma.it.

[5]Juan Guaidò: “tenemos que enfrentar la dictatura y movilizar a la gente en la calle para apoyar a Maria Corina Machado, 18 aprile 2024, www.clarin.com.

[6]Si veda What does Maria Corina Machado’a alliance with the European and Israeli ultra-right imply for the Venezuelan people?, 2 aprile 2025, www.venezuelanvoices.org.

[7]P. Heghseth, American Crusade: our fight to stay free, Center Street, New York 2020, p. 46.

[8]Video shows Israeli settler trying to take over Palestinian house, www.aljazeera.com.

[9]Israel’s Pegasus spayware: tested in Palestine, sold to the world, 4 agosto 2021, www.newarab.com.

[10]Di questo aspetto si è parlato nell’articolo Scontro aperto USA-Venezuela, 28 agosto 2025, www.eurasia-rivista.com.

[11]Laszlo Krasznahorkai, grim Hungarian author whose family hid jewish roots, wins literature Nobel, 9 ottobre 2025, www.jta.org.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).