Nei giorni in cui Hillary Clinton ha pubblicamente gettato benzina sul fuoco che da mesi incendia la società siriana e Sarkozy pare abbia innestato una brusca marcia indietro rispetto alla posizione oltranzista propugnata finora in relazione all’affaire libico, la rivolta del Bahrein continua ad essere oggetto del più totale oscuramento mediatico.

Definire angusto lo spazio dedicato dagli organi di informazione ai moti che hanno agitato il piccolo arcipelago del Golfo Persico risulta infatti a dir poco eufemistico.

Non a caso, mentre la Siria – che nonostante tutto vede ancora il Baath retto dal presidente Bashar Assad mantenere saldamente le redini del governo – e la Libia – con Gheddafi che continua a tenere in scacco tanto gli aggressori francesi, inglesi e statunitensi (e italiani) quanto i sedicenti “ribelli di Bengasi” loro assistiti – sono state oggetto della più assidua attenzione mediatica e di inaudite campagne mistificatorie atte a screditare i loro legittimi governi impegnati a fronteggiare la note turbolenze sociali che hanno scosso buona parte del complesso universo arabo, sul Bahrein è calata una coltre di silenzio letteralmente assordante.

Le ragioni che hanno dettato tale doppiopesismo hanno  effettivamente assunto, in particolare alla luce degli ultimi sviluppi internazionali, un peso assai consistente sul piatto della bilancia regolatrice dei rapporti di forza all’interno della regione del Vicino e Medio Oriente, i quali sono a loro volta storicamente suscettibili di sortire decisive ripercussioni sugli assetti geopolitici mondiali.

Il Bahrein è un piccolo paese situato a ridosso delle coste dell’Arabia Saudita che supera di poco il milione di abitanti, ma è sede della più grande raffineria della regione ed è dotato di consistenti risorse petrolifere, pur se in via di esaurimento.

I suoi porti ospitano inoltre la poderosa Quinta Flotta statunitense, stanziata in loco allo scopo di dominare l’area strategicamente cruciale del Golfo Persico.

Il fatto poi che circa due terzi della popolazione del Bahrein professi la versione sciita dell’Islam, cosa che favorirebbe la naturale gravitazione del paese attorno all’orbita dell’Iran, costituisce un fattore fortemente destabilizzante in grado di alterare i precari equilibri su cui si regge l’intera area del Golfo.

Nonostante la soverchiante preponderanza sciita il paese è governato col pugno di ferro dal monarca sunnita Salman Ali Khalifa, fedele alleato dell’Arabia Saudita.

Non stupisce quindi che la sollevazione di piazza delle Perle, prontamente emulata in svariate zone del paese, nell’ambito della quale svariate fazioni sciite hanno protestato congiuntamente contro l’ordine costituito, abbia destato forti preoccupazioni nei vicini sauditi che non hanno esitato a sostenere direttamente la repressione messa in atto dal re Khalifa.

L’intervento ordinato dal governo di Riad è stato dettato dal timore che le proteste del Bahrein si sarebbero espanse a macchia d’olio, raggiungendo l’Arabia Saudita.

Ciò avrebbe sortito ripercussioni pesantissime specialmente sul territorio costiero saudita contiguo al Bahrein, nel quale è situato l’immenso giacimento petrolifero di Ghawar e in cui si annida il nocciolo duro della forte minoranza sciita del paese.

Qualora l’onda d’urto provocata dalle proteste della maggioranza sciita del Bahrein si fosse rivelata incontenibile e avesse conseguentemente travolto il governo in carica di Manama le frange professanti il medesimo credo supportate da numerose altre fazioni subordinate della vicina Arabia Saudita si sarebbero presumibilmente spinte a fare altrettanto, nel tentativo di rovesciare l’establishment e detronizzare il dispotico re Saud.

L’Iran si sarebbe indubbiamente inserito nella contesa, brandendo la spada dello sciismo per estendere la propria egemonia sui paesi che si affacciano sul Golfo Persico e assestandosi quindi su chiare posizioni di forza.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, non possono tollerare che l’Iran acquisisca ulteriore peso sullo scenario internazionale e hanno quindi tutto l’interresse a che la solidità degli ordini costituiti in Bahrein e Arabia Saudita non venga intaccata, trattandosi dei due più fidi garanti dell’atlantismo nella regione.

Per questi motivi la repentina e brutale ingerenza dell’Arabia Saudita in soccorso dell’alleato Khalifa non è stata oggetto di alcunché, in termini di pressioni e condanne internazionali, lontanamente paragonabile a ciò che hanno dovuto subire regimi come quello di Gheddafi e di Assad.

Il che è assai eloquente sullo stato comatoso dell’informazione e sull’ipocrisia che domina il dibattito politico internazionale, incardinato sulla retorica di quegli stessi diritti umani il cui rispetto viene preteso dai regimi retti dai vari Gheddafi, Assad, Ahmadinejad (l’elenco sarebbe lunghissimo) e la cui violazione viene parallelamente tollerata, quando non sostenuta, se ascrivibile ai governi presieduti dai propri alleati che rispondono al nome di Saud, Khalifa, Netanyahu.


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