Nonostante l’assenza di prove reali su un coinvolgimento diretto del Pakistan nell’attentato di Pahalgam, nel Kashmir sotto controllo indiano, che ha portato alla morte di ventisei persone, Nuova Delhi ha scelto di lanciare l’Operazione Sindoor, aprendo di fatto un “nuovo fronte”[1] all’interno di quello che è stato definito come “conflitto mondiale a pezzi”.
Il contesto
La regione del Kashmir ha una posizione cruciale all’interno dello scacchiere geopolitico globale. Situata tra l’Asia centrale e meridionale, questa regione, divisa fra tre potenze nucleari, è stata a più riprese teatro di conflitti e scaramucce di varia natura. Storicamente, il Kashmir ha vissuto (e continua a vivere) una profonda contraddizione interna. Ad una maggioranza della popolazione di fede islamica e dedita al lavoro della terra ed all’allevamento, ha secolarmente fatto da contraltare una minoranza costituita di pochi notabili indù. Al momento della Partizione indo-pakistana, Muhammad Ali Jinnah (padre politico del Pakistan) ne chiese l’annessione totale allo Stato musulmano, sulla base dell’idea che musulmani e indù dell’Asia meridionale, rappresentando due Nazioni ben distinte, non potessero vivere all’interno del medesimo Stato.
Nell’ottobre del 1947 si scatenarono le prime rivolte contro l’autoritarismo del maharaja indù Hari Singh. Questi, per contrastare le violenze, chiese il diretto intervento indiano in cambio dell’annessione della regione da parte dell’India, seppur con la garanzia di una “speciale autonomia”. Tale garanzia venne inserita direttamente nella Costituzione dell’Unione Indiana all’articolo 370 (abrogato dal governo di Narendra Modi nel 2019).
Il primo conflitto indo-pakistano, iniziato con l’invio dell’esercito pakistano a difesa della popolazione musulmana della Valle del Kashmir, terminò nel gennaio 1949 attraverso una mediazione dell’ONU che cristallizzò le posizioni dei due eserciti. Questa mediazione prevedeva che il popolo kashmiro, tramite referendum, decidesse il proprio destino. Tuttavia, la suddetta votazione non ebbe mai luogo. L’India, sulla base dell’accordo stipulato con il Maharaja, rifiutò di ritirare il proprio esercito, ed il Pakistan fece altrettanto.
Negli ultimi decenni Pakistan e India si sono affrontati più altre volte nella regione. Nel 1965 un nuovo conflitto generato da tensioni interetniche finì con una sostanziale sconfitta pakistana. Ad essa fece seguito da un lato la creazione del Bangladesh e, dall’altro, la denominazione del confine tra Kashmir indiano e pakistano come “Linea di Controllo”.
Una nuova crisi si ebbe nel 1999 (quando entrambi gli Stati si erano già dotati di armi nucleari) a causa dell’avventatezza del comandante militare pakistano Pervez Musharraf, il quale acconsentì allo sconfinamento di alcuni battaglioni nel distretto indiano del Kargil. Lo stesso Musharraf, spaventato da un’eventuale defenestrazione, scelse di attuare un colpo di Stato che lo tenne al potere fino al 2008, in uno dei periodi più bui della storia pakistana: quello dell’aggressione occidentale all’Afghanistan e della capitolazione geopolitica di Islamabad (che proprio nel retroterra afghano vedeva quella profondità strategica che la conformazione geografica dei confini disegnati dalla Partizione le aveva negato).
I fatti che hanno condotto all’aggressione occidentale dell’Afghanistan sono tristemente noti. Qui, tuttavia, sarà utile ricordare che a poche ore dall’inizio dell’operazione a guida nordamericana nel Paese centro-asiatico, l’ISI (il servizio segreto di Islamabad), con il beneplacito della CIA, organizzò il repentino trasferimento del proprio personale dall’Afghanistan al Pakistan. Ed è altrettanto noto che proprio in Afghanistan i servizi pakistani hanno provveduto ad addestrare innumerevoli miliziani (provenienti da diversi Paesi del mondo islamico) da utilizzare nel Kashmir in chiave antiindiana. Lo stesso emiro talebano, il Mullah Omar, sostenne a più riprese la tesi che la lotta per il Kashmir, al pari di quella per la Palestina, fosse un dovere dell’Umma islamica nella sua totalità. Per lungo tempo i politici pakistani di tutti gli schieramenti hanno sostenuto la tesi che una normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele (che pure svolse un ruolo di primo piano nel sostegno della causa afghana contro la presenza sovietica) fosse impossibile proprio in virtù delle analogie tra il caso kashmiro e quello palestinese.
Ed è noto anche il fatto che l’India non ha mai tenuto un comportamento cristallino sulla questione del Kashmir e sul rapporto con la minoranza musulmana (oltre 100 milioni di cittadini) all’interno dei propri confini nazionali. L’autonomia del Jammu e Kashmir, prevista dal suddetto art. 370 della Costituzione, ad esempio, non è mai stata rispettata in pieno.
Nel 1947 Sheikh Abdullah, guida musulmana del partito kashmiro Conferenza Nazionale, optò (paradossalmente) per l’adesione all’India, nella mal riposta speranza di ottenere maggiore autonomia all’interno di un’India laica e federale che non in un Pakistan “feudale” e “oscurantista”.
Il Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru, in effetti, promise di rispettare tale autonomia. Il Kashmir, dopo tutto, è stato l’unico Stato indiano ad aver avuto un’Assemblea Costituente incaricata di redigere una Costituzione separata da quella indiana. Questa, tuttavia, concedeva all’India pieni poteri in materia di difesa, politica estera e comunicazioni. Con l’inevitabile risultato che, a più riprese, Nuova Delhi ha amministrato direttamente il Kashmir posto sotto suo controllo, fino a considerare l’impossibilità di un qualsiasi negoziato che potesse portare all’autodeterminazione o, addirittura, alla secessione di questa regione dall’alto valore geostrategico.
Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che la regione fu protagonista della breve guerra sino-indiana del 1962, che portò all’annessione dell’Aksai Chin alle Regioni autonome dello Xinjiang e del Tibet. Nel maggio 2020 l’area della Valle del Galwan, al confine tra Cina ed India, è stata teatro di alcune scaramucce tra le rispettive guardie di frontiera in cui sono morti 20 soldati indiani e un numero imprecisato di soldati cinesi (forse più di 40)[2].
Ora, a prescindere dagli aspetti prettamente geopolitici che verranno esaminati a breve, appare evidente che la decisione del governo nazionalista indiano di abrogare l’articolo 370 aveva tra i suoi obiettivi quello di modificare il bilanciamento demografico della regione in modo tale che non vi fosse alcuna entità a maggioranza musulmana all’interno della Federazione. L’art. 370, infatti, vietava ai cittadini indiani di altri Stati di comprare proprietà immobiliari nel Jammu e Kashmir. Con la sua cancellazione, il governo di Nuova Delhi apre la strada alla possibilità di una colonizzazione indù del Kashmir, individuando come modello di riferimento il processo di colonizzazione sionista della Cisgiordania.
Sempre nel 2019, con il Citizenship Amendment Act, il governo indiano ridusse ulteriormente gli spazi di azione della comunità musulmana presente sul proprio territorio, garantendo piena cittadinanza a rifugiati (non musulmani) dalle Nazioni vicine e, con essa, diritti di proprietà. Una scelta perfettamente in linea con l’ideale islamofobico di cui è portatore il Bharatiya Janata Party e la sua guida politica. Quando nel 2002 Narendra Modi era ancora Primo Ministro dello Stato federato del Gujarat, la sua amministrazione si rese direttamente colpevole di veri e propri massacri contro la popolazione musulmana della regione. Questa istigazione alla violenza, a causa della quale morirono quasi 800 persone, fece seguito al rogo di un treno nel quale persero la vita 58 pellegrini indù[3].
In quell’occasione, la messa in stato d’accusa della comunità musulmana venne favorita anche dalla complicità dei mezzi di informazione, che contribuirono in modo determinante alla diffusione di notizie false quando non ad un vero e proprio incitamento all’odio[4].
Quella di utilizzare la stampa ed i mezzi di informazione in modo quanto meno controverso per creare consenso intorno alle proprie azioni è una strategia che il nazionalismo hindutva ha spesso fatto propria e che, nel caso del Kashmir, come si vedrà più avanti, ha delle precise finalità geopolitiche.
L’hindutva (termine traducibile in italiano come “induità”) è l’ideologia fatta propria dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (Società Nazionale Volontaria): gruppo paramilitare del Bharatiya Janata Party (di cui Narendra Modi è stato a lungo dirigente) sostenitore del progetto della “Grande India” (dall’Afghanistan al fiume Mekong) attraverso un potenziamento militare in chiave soprattutto anticinese ed antipakistana.
Il termine hindutva fu reso popolare negli anni ’20 del XX secolo dall’attivista e politico indiano Vinayak Damodar Savarkar per mezzo di un opuscolo intitolato Hindutva: chi è indù?. Il breve scritto identificava tre pilastri portanti dell’ideologia hindutva: a) la nazione comune (rashtra); b) la razza comune (jati); c) una cultura e civiltà comune (sanskriti)[5]. Sebbene si dichiarasse apertamente ateo, Savarkar sosteneva che l’hindutva include al suo interno tutte le religioni “indiane” (induismo, giainismo, buddismo e sikhismo) intese propriamente come religioni originatesi nel subcontinente indiano, con la più che ovvia esclusione dell’Islam. Egli, infatti, era convinto che il reale nemico dell’India, più ancora del colonialismo britannico (sic!), fosse proprio l’Islam, considerato alla stregua di “fede dell’estraneo”[6]. La convinzione di essere una Nazione prodotta da una partizione coloniale, circondata dal “nemico islamico”, ha portato il governo nazionalista di Modi ad una convergenza ideologica col neosionismo professato nella Palestina occupata soprattutto dal Likud di Benjamin Netanyahu e dai gruppi religiosi radicali di “estrema destra”. Ad onor del vero, già negli anni ’20 del secolo scorso il citato Savarkar ebbe modo di affermare: “Se i sogni sionisti saranno mai realizzati – se la Palestina diverrà uno Stato ebraico – questo ci renderà così felici quasi quanto i nostri amici ebrei”[7]. Su queste basi, India ed entità sionista, dopo diversi decenni di rapporti altalenanti, hanno sviluppato almeno a partire dal 1992 (ma con un deciso passo in avanti nel momento della salita al potere del BJP) una relazione che va ben oltre i meri interessi economico-commerciali.
L’India, già nel 2017, è stato il più grande cliente dell’entità sionista nel settore degli armamenti. Essa rappresenta il più grande mercato per la tecnologia militare israeliana. India e Israele, inoltre, condividono un notevole interesse nel miglioramento dei loro rapporti con le monarchie wahhabite del Golfo, tanto che lo stesso Modi, nel momento dell’attentato di Pahalgam (il 22 aprile), si trovava in Arabia Saudita. (Curioso anche il fatto che l’attentato sia avvenuto nel corso della visita in India del vicepresidente USA J.D. Vance, in ottimi rapporti con Modi).
Le potenzialità di questo insolito connubio tra sionismo, wahhabismo e ideologia hindutva sono state immediatamente colte dagli strateghi nordamericani. Dai primi anni 2000 la sovrastruttura ideologica dell’“Occidente” a guida nordamericana è stata costruita lungo le linee dello “scontro delle civiltà” teorizzato da Bernard Lewis e Samuel P. Huntington. Soprattutto nell’era Obama, e successivamente con Trump, si è rapidamente individuato nell’India il pivot geopolitico per combattere da vicino i nemici dell’“Occidente”: Islam (non omologato) e confucianesimo (considerate alla stregua di culture naturalmente estranee a quella occidentale) ed ogni progettualità geopolitica volta all’integrazione del continente eurasiatico[8].
Non sorprende, dunque, che Steve Bannon, ideologo del primo trumpismo, abbia alternativamente etichettato Narendra Modi come il “Reagan indiano”, o come un “Trump prima di Trump”, ed abbia a più riprese espresso fiducia nel fatto che le sue vittorie (e riconferme) elettorali avrebbero potuto portare ad un netto miglioramento dei rapporti tra USA ed India[9].
Verso un nuovo conflitto. Cui prodest?
Onde evitare inutili incomprensioni è bene anticipare che l’India odierna sta cercando di ritagliarsi un ruolo di primo piano nel futuro mondo multipolare: si pensi alla partecipazione al gruppo BRICS – dove comunque l’India opera spesso come una sorta di “cavallo di Troia” dell’Occidente” – oppure al poderoso aumento degli scambi commerciali tra Mosca e Nuova Delhi a seguito dell’imposizione del regime sanzionatorio alla Russia. Questo fattore viene spesso frainteso, in quanto si considera (erroneamente) il “Paese-Continente” come un attore protagonista del processo di integrazione eurasiatica. Al contrario, l’India odierna non aspira affatto ad essere parte di questo processo, ma vuole semplicemente costruirsi una propria “polarità” indipendente. Lungi dal voler criticare tale scelta (condivisibile sotto molteplici aspetti), non si può fare a meno di constatare che, per il raggiungimento di tale obiettivo, soprattutto nel corso degli ultimi anni, l’India ha assunto una posizione ostruzionistica nei confronti della suddetta progettualità di integrazione; si consideri, ad esempio, il suo ruolo attivo nell’iniziativa nordamericana di contenimento cinese del QUAD, nonostante il suo coinvolgimento nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
Detto ciò e preso atto che l’India cerca di imporsi sul piano internazionale come vera e propria “potenza” che “non ha alleati ma solo interessi”, resta da capire a chi realmente giovi una nuova destabilizzazione della regione del Kashmir e dei rapporti con il problematico vicino pakistano. Come anticipato nell’introduzione, non vi sono prove concrete di un coinvolgimento pakistano nell’attentato di Pahalgam. Quest’ultimo sembra più l’operazione di “lupi solitari”, benché gli autori abbiano alle spalle un notevole curriculum di partecipazione ad azioni terroristiche. Nonostante ciò, l’India ha deciso dapprima di ritirarsi unilateralmente dal Trattato sulle acque dell’Indo (cosa non prevista dallo stesso Trattato) e, successivamente, di dare avvio all’operazione Sindoor, attaccando alcuni siti considerati alla stregua di “centrali del terrore” anche in prossimità di Islamabad (si tratterebbe, a dire di Nuova Delhi, di campi di addestramento e centri di raccolta fondi). Il governo pakistano, dal canto suo, ha denunciato la morte di numerosi civili; ha rivendicato l’abbattimento di cinque velivoli indiani (al momento sembra essere sicuro solo l’abbattimento di un jet Rafale di produzione francese)[10] ed ha annunciato rappresaglie e ripercussioni, fino a minacciare l’uso di armi nucleari in caso di ulteriori aggressioni.
Il caso dell’abbattimento del Rafale (a quanto pare grazie a tecnologia militare cinese) merita l’apertura di una breve parentesi. Ciò, infatti, pone ulteriori dubbi sull’affidabilità della tecnologia occidentale, soprattutto alla luce dei progetti di riarmo europei. Più in generale, sembra piovere sul bagnato per Emmanuel Macron, la cui politica estera si è rivelata del tutto fallimentare. Dal momento in cui affermò che non era il caso di umiliare Vladimir Putin in Ucraina, non solo il conflitto nell’Europa orientale ha preso una piega decisamente favorevole a Mosca, ma la stessa Russia ha rapidamente soppiantato la Francia nel Sahel grazie a quella che è stata definita come la “cintura dei colpi di Stato” (Mali, Burkina Faso e Niger).
Tornando al “nuovo conflitto”, pare evidente che in questo momento storico, caratterizzato da enormi difficoltà interne politiche ed economiche (con Imran Khan, guida dell’opposizione, in carcere sulla base di accuse piuttosto deboli), il Pakistan non fosse interessato ad una nuova recrudescenza bellica e ad una nuova destabilizzazione nel Kashmir. Nella porzione pakistana della regione, infatti, passa il corridoio economico sino-pakistano sul quale il governo di Islamabad punta con forza per lo sviluppo dell’intero Paese e che Pechino considera fondamentale: sia per l’intero processo di integrazione eurasiatica, sia per aggirare il “collo di bottiglia” dello Stretto di Malacca per le proprie forniture energetiche. Il corridoio, inoltre, è già preso di mira nella regione del Belucistan sia dai gruppi terroristici legati al sedicente “Stato Islamico”, sia da alcuni movimenti indipendentisti che godono di un più o meno celato sostegno indiano. Va da sé che il Pakistan non si è mai permesso di attaccare l’India per questo motivo, nonostante le evidenti prove di tale sostegno, benché negli ultimi giorni siano morti quattordici soldati pakistani[11].
Dunque, un conflitto non gioverebbe né al Pakistan, né alla Cina e neanche alla Russia, che non a caso si sono subito offerte come mediatrici; la Russia, in particolare, è in ottimi rapporti sia col Pakistan sia con l’India, con la quale ha una relazione di lunga data, nonostante la contrarietà dell’ala filooccidentale del BJP di Modi. Un conflitto indo-pakistano, infatti, metterebbe a rischio il processo di integrazione eurasiatica e darebbe nuovo impulso al mai del tutto decollato (soprattutto a causa degli eventi di Gaza) progetto della “Via del Cotone”, sostenuto da Israele e Stati Uniti. Gli Stati Uniti, in particolare, vedono nel corridoio che dovrebbe collegare l’Oceano Indiano al Mediterraneo orientale un progetto alternativo e antagonista alla Nuova Via della Seta e, di conseguenza, un mezzo per mantenere inalterato il loro controllo egemonico sul rimland eurasiatico.
NOTE
[1]Il virgolettato è d’obbligo visto che, sebbene a fasi alterne, quello sul Kashmir è un conflitto che si protrae da quasi ottant’anni.
[2]Da sottolineare che, per accordo tra i due Paesi, le guardie di frontiera non possono avere a disposizione armi da fuoco. Dunque, lo scontro (piuttosto violento) è avvenuto attraverso l’utilizzo di mazze e pietre.
[3]R. Jackson – E. Murphy – S. Poynting, Contemporary State terrorism. Theory and practice, Routledge, Abingdon 2014, pp. 85-90.
[4]Si veda S. Garofalo, I musulmani nello specchio della stampa indiana, www.eurasia-rivista.com.
[5]C. Jaffrelot, Hindu Nationalism. A Reader, Princeton University Press, Princeton 2007, pp. 14-15.
[6]S. Arvid, On Hindu, Hindustan, Hinduism and Hindutva, Numen – International Review for the History of Religions, vol. 49, N. 1/2002.
[7]S. Bose, Why India’s Hindu nationalists worship Israel’s nation-state model, www.theconversation.com.
[8]Il nazionalismo indiano ben si presta anche alle elaborazioni teoriche del pensatore israeliano Yoram Hazony, il cui libro The Virtue of Nationalism è stato considerato come una sorta di manifesto ideologico per la geopolitica trumpista.
[9]Si veda a questo proposito Impressed with Modi, his victory bodes well for USA-India ties: Steve Bannon to Wion, www.wionnews.com; Steve Bannon: as a nationalist, Modi was a Trump before Trump, www.timesofindia.indiatimes.com. L’ideologo trumpista ha spesso dichiarato di essere stato letteralmente impressionato da Modi sin dal primo momento in cui ha iniziato a seguire la politica indiana. Il sito di informazione Breitbart News, di cui Bannon è stato Capo Editore, inoltre, diede non poco rilievo alla figura del politico indiano dalla sua prima vittoria elettorale.
[10]Si veda, Breaking news: first French Rafale fighter jet loss? Pakistani J-10C from China may have used PL-15 to down Indian Rafale, 8 maggio 2025, www.armyrecongnition.com.
[11]A. Bilal, Pakistan’s Balochistan crisis and India’s defensive offensive, 2 maggio 2025, www.smallwarsjournal.com.
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