Introduzione

Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, Israele ha lanciato un attacco su vasta scala contro l’Iran, colpendo impianti nucleari, obiettivi militari strategici e aree civili nella capitale Teheran e in altre province. Tra le vittime, confermate da fonti iraniane, figurano alti esponenti delle Guardie Rivoluzionarie, tra cui Hossein Salami, e due scienziati nucleari di rilievo, Fereydoun Abbasi e Mohammad Mehdi Tehranchi. L’azione, rivendicata dal premier Netanyahu come “colpo al cuore del programma nucleare e missilistico iraniano”, rappresenta un punto di svolta drammatico nel confronto regionale e ha già innescato una rappresaglia iraniana, con il lancio di oltre 100 droni contro obiettivi israeliani.

Nei giorni precedenti all’attacco, i media americani, tra cui la CBS, avevano riportato informazioni secondo cui Israele si stava preparando a un’azione militare imminente contro i siti nucleari iraniani. In quella fase, secondo analisi giornalistiche, l’attacco sembrava ormai imminente, mentre l’intelligence statunitense aveva già avviato il ritiro di parte del personale diplomatico dalla regione, segnale chiaro dell’imminenza dell’operazione. In questo clima di alta tensione, l’azione militare israeliana si è rivelata il culmine di una strategia preannunciata e tuttavia scioccante nella sua portata.

Le conseguenze non sono solo militari. L’attacco segna l’inizio di una crisi geopolitica ed economica potenzialmente sistemica. La chiusura dell’aeroporto di Teheran, l’allerta totale delle difese aeree iraniane e la sospensione dei negoziati nucleari in Oman dimostrano come la guerra possa trasformarsi in un conflitto prolungato e destabilizzante. La reazione dei mercati non si è fatta attendere: il prezzo del petrolio è salito in modo brusco, i titoli energetici sono in forte oscillazione, mentre le borse asiatiche ed europee hanno registrato perdite consistenti. In questo contesto, la guerra non è mai solo guerra: è anche interruzione di flussi, alterazione di aspettative, migrazione di capitali, riallineamento di poteri. La posta in gioco è dunque molto più ampia del solo equilibrio nucleare tra Israele e Iran.

 

Il ruolo determinante degli Stati Uniti

L’attacco israeliano conferma il ricorso a una dottrina strategica di attacco preventivo, in linea con i precedenti di Osiraq (1981) e Deir ez-Zor (2007), ma con una differenza sostanziale: questa volta, il bersaglio è un sistema nucleare già maturo, protetto e diffuso. L’Iran ha sviluppato negli ultimi anni un’infrastruttura nucleare altamente robusta, con siti come Natanz e Fordow costruiti nel ventre delle montagne, a profondità tali da renderli inaccessibili alla maggior parte delle bombe convenzionali.

Inoltre, il programma nucleare iraniano si è integrato in una più ampia strategia di autosufficienza militare e tecnologica, rendendo l’eliminazione selettiva di singoli nodi assai meno efficace. Ciò pone Israele di fronte a un dilemma operativo: colpire massicciamente rischiando un’escalation regionale, o agire in modo mirato ma con efficacia limitata. La capacità tecnica di Israele è elevata ma non autosufficiente per obiettivi tanto protetti: le armi necessarie (come le GBU-57 MOP) sono in dotazione esclusiva statunitense.

In questo contesto, il ruolo degli Stati Uniti si configura come determinante non solo per capacità militare, ma per influenza politica e controllo operativo. Le basi USA nel Golfo, i sistemi di sorveglianza avanzati e le capacità di proiezione strategica (come il dispiegamento di bombardieri B-2 da Diego Garcia) costituiscono una cornice che rende possibile, o almeno credibile, un attacco di simile portata. Gli Stati Uniti hanno fornito a Israele supporto diretto sotto forma di intelligence, comunicazioni satellitari, e verosimilmente corridoi logistici per l’approccio ai bersagli.

Tuttavia, l’amministrazione americana ha scelto, almeno ufficialmente, di adottare una postura di ambiguità strategica: non rivendica l’attacco, ma neppure lo condanna apertamente, lasciando intendere un tacito assenso. Questa posizione consente a Washington di mantenere un ruolo dominante nella regione senza assumersi la piena responsabilità delle azioni di Tel Aviv. Al contempo, si tutela dall’essere coinvolta direttamente in una guerra che potrebbe compromettere alleanze chiave, come quelle con le monarchie del Golfo.

Questo equilibrio instabile tra delega e deterrenza rischia ora di saltare, trasformando un conflitto bilaterale in crisi multilaterale. Qualora l’Iran estendesse le sue ritorsioni ai partner regionali degli Stati Uniti – come l’Arabia Saudita o gli Emirati – oppure contro basi statunitensi in Iraq o nel Golfo, Washington potrebbe trovarsi trascinata in un confronto diretto, contro la sua volontà politica. In definitiva, il ruolo degli Stati Uniti resta quello del garante silenzioso: onnipresente ma opaco, influente ma prudentemente defilato. Una posizione che, se mal calibrata, potrebbe rapidamente evolvere da garanzia di equilibrio a fattore di coinvolgimento forzato.

 

Lo Stretto di Hormuz e la centralità energetica del Golfo

Il Golfo Persico è uno dei principali snodi energetici del pianeta. Attraverso lo Stretto di Hormuz — largo circa 40 chilometri nel suo punto più stretto — transitano quotidianamente oltre 17 milioni di barili di greggio, pari a circa un quinto dell’approvvigionamento mondiale. È qui che la geografia incontra la geopolitica: un’interruzione anche temporanea del traffico marittimo attraverso questo passaggio strategico avrebbe ripercussioni istantanee sul mercato globale dell’energia.

L’Iran ha da tempo integrato lo Stretto di Hormuz nella propria dottrina militare asimmetrica. Mine navali, batterie missilistiche mobili, droni sottomarini, swarm di imbarcazioni rapide e sistemi antinave costieri sono dispiegati per minacciare o paralizzare i flussi marittimi in caso di conflitto. Questo arsenale, unito alla topografia favorevole del litorale iraniano, conferisce a Teheran un potere di interdizione sproporzionato rispetto alle sue dimensioni economiche. L’arsenale missilistico a corto e medio raggio consente inoltre di colpire, in tempi brevissimi, infrastrutture chiave nel Golfo, inclusi terminal petroliferi e porti di esportazione di Stati rivali come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.

Nel caso di un’escalation militare generalizzata, lo scenario più temuto è un blocco totale dello Stretto, con l’adozione di misure dichiaratamente ostili come l’abbattimento di navi cisterna o il sabotaggio coordinato di oleodotti e gasdotti regionali. Anche l’attacco al terminal iraniano dell’isola di Kharg, che gestisce il 90% dell’export petrolifero iraniano, avrebbe conseguenze devastanti: eliminerebbe una quota significativa dell’offerta globale in un momento in cui le riserve strategiche occidentali si stanno assottigliando e l’OPEC+ è riluttante ad aumentare la produzione.

La sola percezione di un pericolo per la sicurezza dei transiti petroliferi attraverso Hormuz genera comportamenti speculativi nei mercati delle materie prime. I futures sul Brent e sul WTI reagiscono immediatamente, spingendo al rialzo i costi energetici per industrie, trasporti e consumatori. I Paesi importatori netti, come quelli dell’Unione Europea, il Giappone e l’India, risultano particolarmente vulnerabili. Il rincaro dei prezzi energetici agisce come una tassa invisibile sulla crescita economica, amplificando diseguaglianze e tensioni sociali nei contesti più fragili.

In tale contesto, il Golfo non è soltanto un teatro militare, ma un vero e proprio baricentro strategico: chi controlla Hormuz, controlla l’interdipendenza globale. Qualsiasi attore capace di minacciare la libera navigazione in quell’area acquisisce un potere negoziale che va ben oltre la dimensione strettamente regionale. Per questo motivo, le principali potenze — dagli Stati Uniti alla Cina — mantengono in loco forze navali pronte a intervenire in caso di destabilizzazione. Ma nessuna garanzia militare può annullare del tutto il rischio di un incidente, di un errore di calcolo o di una provocazione non contenuta. Ecco perché lo Stretto di Hormuz resta, a ogni crisi, il luogo in cui il battito d’ali della geopolitica può trasformarsi in tempesta economica globale.

 

Conseguenze macroeconomiche: inflazione e stagnazione

Una crisi militare nel Golfo con ripercussioni dirette sulla produzione e distribuzione di energia avrebbe un impatto immediato e profondo sull’economia globale. L’attacco israeliano del 13 giugno ne ha dato un primo segnale concreto: i prezzi del greggio sono saliti di oltre 4 dollari al barile, raggiungendo il massimo da cinque mesi. Il Brent ha superato i 74 dollari, mentre il WTI è salito a più di 72 dollari, alimentando nuovi timori di inflazione energetica e instabilità nei mercati globali. Il rincaro del petrolio si rifletterebbe su tutta la filiera industriale e logistica: dai costi di produzione delle materie prime all’energia elettrica, dai trasporti su gomma e aerei fino alla produzione alimentare. La spirale inflattiva che ne deriverebbe colpirebbe in maniera trasversale tutti i settori economici, con effetti ancora più acuti nei Paesi a forte dipendenza energetica dall’estero.

Le famiglie vedrebbero lievitare le spese per carburanti, bollette e beni di consumo primari, mentre il potere d’acquisto si ridurrebbe drasticamente. Gli stipendi, già messi sotto pressione da anni di inflazione latente, non riuscirebbero a tenere il passo con l’aumento generalizzato dei prezzi, aggravando la polarizzazione sociale e alimentando dinamiche di malcontento e instabilità politica. Le classi medie, tradizionale pilastro della stabilità economica e democratica, sarebbero tra le più colpite.

Per le imprese, in particolare nei settori energivori come siderurgia, chimica, trasporti e agricoltura industriale, l’esplosione dei costi operativi ridurrebbe drasticamente i margini di profitto. Molte attività, specialmente le piccole e medie imprese, rischierebbero la chiusura o la delocalizzazione. L’incertezza sull’evoluzione del conflitto e sull’andamento dei prezzi energetici ostacolerebbe inoltre la pianificazione industriale e gli investimenti, raffreddando il ciclo economico e aumentando la volatilità occupazionale.

Il mix di inflazione elevata e rallentamento della crescita costituisce una delle combinazioni più temute in macroeconomia: la stagflazione. In questo scenario, le banche centrali si troverebbero in una posizione estremamente delicata. Una risposta restrittiva sui tassi d’interesse, pensata per contenere l’inflazione, rischierebbe di aggravare la recessione, mentre una politica monetaria espansiva potrebbe alimentare ulteriori pressioni inflazionistiche. Si creerebbe così una trappola politica ed economica in cui nessuna delle opzioni disponibili risulterebbe efficace nel breve periodo.

A livello internazionale, l’asimmetria degli impatti amplificherebbe gli squilibri tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Le economie emergenti, già gravate da alti livelli di debito e da una dipendenza strutturale dalle importazioni energetiche, potrebbero trovarsi sull’orlo del collasso. L’aumento dei prezzi del cibo e dei carburanti genererebbe crisi umanitarie diffuse, soprattutto in Africa e in Asia meridionale, con possibili ondate migratorie e destabilizzazione politica. La guerra, dunque, si trasformerebbe da evento regionale a fattore globale di disgregazione economica e sociale.

 

Instabilità finanziaria e fuga verso asset rifugio

L’intensificarsi del conflitto tra Israele e Iran comporterebbe una reazione immediata e profonda dei mercati finanziari globali. La combinazione tra incertezza geopolitica, incremento dei prezzi delle materie prime e timori di contagio sistemico genera una naturale fuga degli investitori verso asset considerati sicuri. Storicamente, l’oro, i titoli di Stato di Paesi ad alto rating (come i treasury statunitensi o i Bund tedeschi) e alcune valute rifugio (come il franco svizzero o il dollaro statunitense) beneficiano di un rafforzamento nei momenti di crisi.

Parallelamente, le borse mondiali subiscono forti contrazioni, in particolare nei settori ciclici e ad alta intensità energetica, come i trasporti, la logistica, l’industria pesante e il turismo. Le azioni delle compagnie aeree e delle aziende manifatturiere più esposte al rincaro dei carburanti sono tra le prime a registrare vendite massicce. La volatilità degli indici azionari si amplifica, spesso accompagnata da una riduzione della liquidità sui mercati secondari.

Le banche centrali e le autorità di vigilanza si trovano di fronte a un dilemma complesso: mantenere la stabilità dei mercati evitando panico generalizzato, senza però incentivare ulteriori distorsioni speculative. La possibilità di misure straordinarie, come il ripristino di programmi di acquisto di titoli o l’adozione di garanzie di liquidità per le istituzioni finanziarie, torna al centro dell’agenda. Tuttavia, in uno scenario di stagflazione, tali politiche possono risultare meno efficaci o addirittura controproducenti.

Un altro effetto collaterale riguarda la gestione del rischio nei portafogli globali. I grandi fondi pensione, gli assicuratori e gli investitori istituzionali rivedono rapidamente l’allocazione dei capitali, riducendo l’esposizione verso i mercati emergenti, considerati più vulnerabili agli shock esterni. Questo comporta deflussi di capitale che, nei Paesi in via di sviluppo, si traducono in svalutazioni valutarie, incremento del costo del debito estero e peggioramento delle condizioni di credito.

In un mondo già segnato da instabilità finanziaria latente, l’escalation nel Golfo può agire da detonatore. L’incremento della percezione del rischio sistemico alimenta una ritrazione degli investimenti produttivi e un deterioramento della fiducia. La finanziarizzazione delle crisi geopolitiche, fenomeno tipico dell’interdipendenza economica contemporanea, si manifesta in tutta la sua evidenza, trasformando il trauma militare in crisi di fiducia a catena nei mercati globali.

 

L’Europa e l’Italia di fronte alla crisi energetica globale

L’eventualità di un conflitto armato tra Israele e Iran metterebbe l’Europa di fronte a una crisi energetica senza precedenti. Sebbene il continente abbia avviato un processo di diversificazione delle fonti dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la sua dipendenza strutturale da fornitori esterni di energia resta elevata, soprattutto per quanto riguarda il petrolio greggio e i prodotti raffinati. Una crisi nello Stretto di Hormuz, da cui transita un quinto del fabbisogno mondiale di greggio, provocherebbe un’immediata impennata dei prezzi dell’energia che si riverserebbe su tutta l’economia europea, con effetti profondi sui costi di produzione, sull’inflazione e sulla stabilità finanziaria degli Stati membri.

L’Italia, per la sua posizione geografica, la struttura del proprio sistema industriale e la fragilità del suo equilibrio fiscale, risulterebbe tra i Paesi più esposti. L’aumento dei prezzi dell’energia colpirebbe duramente i trasporti, il settore manifatturiero e la logistica, compromettendo la competitività internazionale delle imprese italiane. La componente energetica dei costi aziendali, già elevata rispetto alla media europea, potrebbe diventare insostenibile per molte piccole e medie imprese. Al tempo stesso, l’effetto sui bilanci familiari e sul potere d’acquisto aggraverebbe tensioni sociali latenti, soprattutto nelle aree più vulnerabili del Paese.

Dal punto di vista strategico, l’Italia si troverebbe anche al centro di una pressione geopolitica crescente. I legami con i Paesi fornitori di energia del Mediterraneo allargato — Algeria, Libia, Egitto, Azerbaigian — diventerebbero ancora più delicati da gestire in uno scenario caratterizzato da instabilità regionale e ridefinizione degli assetti di potere. La centralità del Mediterraneo come snodo energetico e commerciale esporrebbe il Paese non solo a ricadute economiche, ma anche a nuovi flussi migratori, tensioni diplomatiche e rischi di sicurezza sulle rotte marittime.

In questo quadro, il limite principale dell’Europa appare politico prima ancora che energetico. La mancanza di una politica estera e di difesa comune, la lentezza nell’unificazione del mercato dell’energia e la frammentazione delle risposte nazionali lasciano l’Unione impreparata ad affrontare una crisi sistemica nel cuore del Golfo. Il rischio è che ogni Stato membro, in assenza di un coordinamento efficace, agisca secondo logiche emergenziali e di breve periodo, accentuando le asimmetrie interne anziché rafforzare la coesione. Di fronte a una crisi energetica globale, l’Europa e l’Italia in particolare si troverebbero a misurare sul campo la distanza tra i principi della solidarietà e le reali capacità di risposta strategica.

 

Conclusione

L’attacco israeliano all’Iran ha infranto un equilibrio già precario, accelerando l’ingresso in una fase di instabilità strutturale su scala globale. A differenza di crisi localizzate del passato, l’attuale escalation ha la capacità di connettere il teatro militare a quello economico-finanziario, generando una risposta sistemica che colpisce simultaneamente sicurezza, energia, moneta e fiducia collettiva.

Le economie avanzate si troveranno a dover gestire uno shock esogeno inedito, mentre le economie emergenti rischiano di pagarne il prezzo più alto in termini di disuguaglianze, deficit energetico e crisi del debito. L’interconnessione globale, che nei decenni passati è stata motore di crescita e integrazione, si rivela ora anche veicolo di trasmissione accelerata delle instabilità. In assenza di un ordinamento multilaterale efficace e di una risposta concertata, le conseguenze potrebbero protrarsi nel tempo, minando la resilienza delle istituzioni e alimentando sfiducia nei confronti dei meccanismi di cooperazione internazionale.

Il conflitto tra Israele e Iran non è solo la manifestazione di uno scontro regionale, ma un punto di snodo della storia contemporanea, in cui la violenza armata si fonde con i rischi sistemici della globalizzazione. In questo senso, il prezzo della guerra va ben oltre il campo di battaglia: si riversa sui mercati, colpisce i salari, interrompe le catene logistiche e mina l’equilibrio sociale alla base della convivenza civile.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.