Introduzione
Una nuova tregua si profila all’orizzonte nella guerra tra Israele e Hamas. Il movimento islamista ha accettato una proposta di cessate il fuoco della durata di sessanta giorni, avanzata da mediatori regionali con il sostegno diretto degli Stati Uniti. L’accordo prevede il rilascio scaglionato di ostaggi israeliani in cambio della liberazione di centinaia di detenuti palestinesi, un ritiro solo parziale delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e l’avvio di colloqui destinati, almeno formalmente, a esplorare un cessate il fuoco permanente. Non è chiaro, tuttavia, chi gestirà l’assistenza alla popolazione civile: resta aperto il nodo della distribuzione degli aiuti umanitari, che potrebbe restare in mano a soggetti privi di legittimazione internazionale. Anche il rientro di parte degli sfollati nel nord della Striscia è previsto, ma condizionato dalle persistenti limitazioni militari.
A prima vista, questo sviluppo potrebbe apparire come un passo verso l’attenuazione graduale dello scontro, ma interpretarlo nei termini classici di una tregua finalizzata alla pace sarebbe fuorviante. Dietro la diplomazia e le trattative si muove una dinamica più profonda: quella della guerra asimmetrica. In questo tipo di conflitto, i rapporti di forza tradizionali — superiorità militare, controllo del territorio, capacità tecnologica — non determinano automaticamente l’esito. Spesso è sufficiente, per l’attore più debole, non essere sconfitto, per trasformare la sopravvivenza in un successo politico-strategico.
Nel caso di Hamas, il cessate il fuoco non rappresenta la fine delle ostilità, ma piuttosto una finestra tattica: un’occasione per consolidare le proprie strutture militari e politiche, eliminare rivali interni, riorganizzarsi sul piano operativo e riaffermare il proprio ruolo come attore non escludibile nei futuri assetti della Striscia. La tregua, più che segnare una pacificazione, espone i limiti di una strategia israeliana fondata quasi esclusivamente sull’uso della forza, senza un orizzonte politico chiaro.
Dopo quasi due anni di conflitto, Israele non ha eliminato Hamas, non ha garantito il rimpatrio di tutti gli ostaggi, né ha costruito un quadro politico sostenibile per il futuro della Striscia. Questa impasse non è solo il segno di una difficoltà contingente, ma il sintomo di una guerra combattuta su un piano per il quale Israele non è preparato: una guerra in cui non conta il numero di vittorie sul campo, ma la capacità di resistere nel tempo, di logorare la volontà dell’avversario, di mantenere la centralità politica anche sotto attacco.
Per comprendere davvero la natura di questo conflitto, e perché ogni apparente equilibrio negoziale nasconda in realtà uno squilibrio strategico più profondo, è necessario fare un passo indietro. Occorre capire che cos’è una guerra asimmetrica, come si struttura, su quali dinamiche si fonda e perché, in contesti simili, la forza militare può trasformarsi — per chi la esercita — da risorsa in trappola.
Una guerra che Israele non può vincere
Con il conflitto ormai nel suo secondo anno, Israele appare sempre più impantanato in uno scontro che sfugge alle logiche tradizionali. Nonostante l’impiego massiccio di risorse — superiorità aerea, incursioni via terra, operazioni speciali, bombardamenti sistematici e un blocco totale della Striscia di Gaza — nessuno degli obiettivi strategici dichiarati è stato raggiunto. Hamas non è stato distrutto. I suoi vertici, pur colpiti duramente, continuano a operare e a comunicare. Gaza, devastata fisicamente, non è stata né pacificata né “normalizzata”. E gli ostaggi israeliani, il cui recupero era uno dei principali mandati dichiarati dell’offensiva, restano in parte prigionieri, usati come leva negoziale.
Nel frattempo, Israele ha subito perdite rilevanti. Secondo fonti indipendenti, il numero totale di caduti — considerando l’attacco iniziale del 7 ottobre, la campagna terrestre a Gaza e le operazioni prolungate — ha superato quota 1.200, rendendolo il conflitto più sanguinoso per Israele dalla guerra del Kippur del 1973. Ma non è solo il costo umano a pesare: è il logoramento strategico. La guerra si trascina senza un orizzonte politico chiaro, con l’opinione pubblica sempre più divisa e il governo di coalizione stretto tra pressioni contraddittorie — la liberazione degli ostaggi da un lato, la spinta alla “vittoria totale” dall’altro.
In questo scenario, la domanda centrale non è più “chi stia vincendo sul campo”, ma se Israele sia ancora in grado di vincere politicamente e strategicamente. E la risposta, per ora, sembra negativa. Il nodo non è la mancanza di forza militare, ma la mancanza di un paradigma adeguato. Israele continua ad affrontare un conflitto non convenzionale con strumenti e obiettivi concepiti per guerre classiche: distruzione dell’apparato nemico, conquista del territorio, imposizione dell’ordine dall’alto. Ma il campo di battaglia in cui si muove Hamas — fatto di tunnel, popolazione urbana, opinione pubblica globale, tenuta ideologica — non si piega a queste logiche.
Il risultato è un vicolo cieco politico e militare da cui Israele non riesce a uscire. Ogni successo tattico si dissolve nel vuoto strategico. Ogni avanzata sul terreno genera nuovi dilemmi politici. Ogni tregua temporanea — come quella oggi in discussione — viene letta come una pausa utile per il nemico a riorganizzarsi. Israele si ritrova così incapace di definire una vittoria che sia traducibile in stabilità. E in una guerra asimmetrica, questo equivale a una sconfitta.
Cos’è una guerra asimmetrica
Il concetto di guerra asimmetrica è uno dei più discussi nella teoria militare contemporanea. Non si tratta semplicemente di uno squilibrio tra forze — dove un attore dispone di superiorità militare, tecnologica ed economica, e l’altro ne è privo — ma di una differenza strutturale di finalità, metodi e tempi. La guerra asimmetrica è una sfida concettuale prima ancora che operativa: chi dispone della forza convenzionale rischia di restare intrappolato nel proprio modello di guerra, mentre il più debole, proprio perché non può vincere con i mezzi tradizionali, si adatta e sopravvive in un campo di battaglia fluido, politico e mediatico.
Uno dei primi a elaborare una teoria coerente della guerra irregolare è stato David Galula, ufficiale dell’esercito francese con esperienza diretta nella guerra d’Algeria. Nel suo testo fondamentale Counterinsurgency Warfare, Galula sostiene che l’insurrezione non è una guerra tra eserciti, ma una lotta per il controllo politico della popolazione. Il nucleo della strategia insurrezionale è la connessione tra ribelli e civili, che garantisce protezione, logistica, consenso e legittimità. Di conseguenza, il cuore della controinsurrezione non è la distruzione del nemico, ma la sua delegittimazione agli occhi della società che lo sostiene. Secondo Galula, l’azione militare deve essere subordinata a quella politica: non serve a vincere, ma a creare le condizioni per attrarre la popolazione, isolare l’insurrezione e ricostruire l’autorità dello Stato. Ogni azione repressiva che colpisce indiscriminatamente i civili, ammonisce Galula, non fa che allontanare la popolazione dal governo e avvicinarla ai ribelli. In questo senso, la Striscia di Gaza rappresenta un esempio paradigmatico: densamente abitata, politicamente polarizzata, colpita da operazioni militari devastanti ma mai pacificata, resta uno spazio conteso in cui Hamas sopravvive e si rafforza proprio grazie all’incapacità israeliana di costruire un’alternativa politica credibile.
Anche Rupert Smith, generale britannico e autore di The Utility of Force, ha insistito sulla discontinuità tra le guerre del passato e i conflitti contemporanei. Secondo Smith, la guerra moderna non si svolge più “tra eserciti” ma “tra le popolazioni”: non si combatte per conquistare territori o capitali, ma per influenzare le percezioni, logorare la volontà, controllare le società. La forza, sostiene Smith, è ormai uno strumento subordinato alla comunicazione strategica. Le battaglie decisive sono state sostituite da scontri prolungati e frammentari, spesso in aree urbane, tra attori regolari e gruppi irregolari che si confondono con i civili. Il risultato è una guerra che si gioca sulla percezione pubblica, interna e internazionale, e la cui posta in gioco non è tanto la vittoria militare quanto la capacità di imporre una narrativa, di mantenere la legittimità e di resistere più a lungo. Nel contesto di Gaza, questo significa che anche una forza superiore come l’IDF può trovarsi in difficoltà non perché venga sconfitta sul campo, ma perché non riesce a costruire una cornice politica e simbolica coerente con i propri obiettivi dichiarati.
Martin van Creveld, storico e teorico militare israeliano, ha radicalizzato questa analisi nel suo The Transformation of War. Van Creveld osserva che gli eserciti regolari, pensati per guerre tra Stati, sono sempre meno efficaci nel contrastare attori non statali, fluidi, adattabili, ideologicamente motivati. Il paradosso, secondo lui, è che un gruppo armato può accrescere la propria legittimità proprio mentre perde sul piano militare, perché riesce a sopravvivere, a colpire, a raccontare la propria esistenza come forma di resistenza. La vittoria, in questi contesti, non è la conquista di uno spazio fisico, ma la persistenza nel tempo e nel discorso politico. Ogni attacco subito rafforza il mito della resistenza, ogni sopravvivenza diventa un successo. Hamas, in questo senso, incarna perfettamente questa logica: più viene colpito, più rafforza la propria narrativa identitaria e la propria centralità nella scena politica palestinese, anche quando le sue capacità operative subiscono contraccolpi.
David Petraeus, infine, ha cercato di tradurre queste teorie in dottrina operativa durante le guerre in Iraq e Afghanistan. A capo del comando USA, Petraeus ha riformulato la strategia americana sulla base di un principio fondamentale: “non si può sconfiggere un’insurrezione senza guadagnarsi la popolazione”. La cosiddetta “dottrina Petraeus” univa operazioni militari mirate con programmi di ricostruzione, cooperazione civile-militare, comunicazione strategica e supporto istituzionale locale. L’obiettivo non era eliminare il nemico, ma svuotarlo di senso politico agli occhi della popolazione. Tuttavia, lo stesso Petraeus ha riconosciuto che, in assenza di un progetto politico credibile e condiviso, anche la strategia più sofisticata può fallire. Senza un futuro sostenibile da offrire, ogni vittoria militare si trasforma in un atto temporaneo, destinato a generare nuova opposizione e nuovo risentimento. È ciò che è avvenuto in Iraq, dove il vuoto lasciato dalla fine delle ostilità ha favorito il riemergere della violenza settaria e l’ascesa dell’ISIS. Una lezione che si riflette anche nella gestione del conflitto a Gaza, dove la mancanza di un orizzonte politico rende ogni operazione israeliana priva di continuità strategica.
In sintesi, la guerra asimmetrica è un conflitto in cui gli obiettivi dei due contendenti sono radicalmente divergenti. L’attore statale cerca una vittoria netta e definitiva, soggetto alla pressione dell’opinione pubblica e del calendario elettorale. L’attore irregolare, invece, punta alla sopravvivenza, alla visibilità, al logoramento dell’avversario, con tempi lunghi e logiche non convenzionali. In questo contesto, la guerriglia urbana, la fusione con la popolazione civile, l’uso della narrazione e della pressione diplomatica diventano armi strategiche decisive. La forza militare, da sola, non basta. E se impiegata senza una visione politica coerente, può addirittura rafforzare il nemico. È questa la lezione che ci hanno lasciato Galula, Smith, Van Creveld e Petraeus. Ed è anche la chiave per interpretare, oggi, il fallimento strategico dell’approccio israeliano a Gaza.
Storia di una strategia vincente (senza vincere)
La storia militare recente è punteggiata da conflitti in cui la parte formalmente più debole ha prevalso, non attraverso la vittoria militare classica, ma grazie alla capacità di resistere, logorare e delegittimare l’avversario più forte. In Vietnam, i guerriglieri del Viet Cong e l’Esercito del Vietnam del Nord non vinsero le grandi battaglie contro gli Stati Uniti, ma attraverso una guerra di logoramento — fatta di imboscate, attentati, pressione psicologica e mobilitazione politica — minarono la volontà politica americana, fino a provocarne il ritiro. Il generale Giáp, stratega della resistenza vietnamita, aveva colto il cuore della guerra asimmetrica: “ci basta non perdere, per far perdere l’avversario”.
Uno schema simile si è riprodotto in Afghanistan. Dopo l’invasione del 2001, i talebani condussero per quasi vent’anni una guerra di resistenza non lineare, evitando lo scontro diretto, sfruttando la geografia ostile, le divisioni tribali e la corruzione interna del governo sostenuto dall’Occidente. La superiorità militare della NATO, sul lungo periodo, si rivelò irrilevante: il potere fu riconquistato proprio da coloro che avrebbero dovuto essere stati annientati. La loro strategia non mirava alla vittoria, ma all’attesa: lasciar passare il tempo, far crescere il costo politico e umano dell’occupazione fino a renderla insostenibile.
Anche in Libano, tra il 1982 e il 2000, Hezbollah trasformò l’occupazione israeliana del sud del Paese in un boomerang strategico. Attraverso una guerriglia capillare, attacchi mirati e una rete di sostegno popolare, il movimento sciita rese l’operazione israeliana sempre più costosa e priva di prospettiva. Dopo diciotto anni di logoramento militare e crisi interna, Israele si ritirò unilateralmente, senza aver ottenuto i propri obiettivi. Hezbollah, al contrario, emerse rafforzato, guadagnando legittimità politica e una crescente influenza regionale.
In Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein, le forze statunitensi si trovarono invischiate in un conflitto insurrezionale diffuso. Milizie sciite, formazioni armate sunnite e attori tribali frammentarono il controllo del territorio e trasformarono le città in campi di battaglia asimmetrici. L’uso estensivo di ordigni improvvisati (IED), attentati suicidi e guerre d’informazione rese la supremazia militare americana incapace di generare stabilità. La strategia del “surge” del 2007, guidata da David Petraeus, ottenne successi tattici, ma non riuscì a costruire un ordine politico duraturo. La successiva emersione dell’ISIS mostrò quanto fosse fragile il risultato, e quanto la guerra asimmetrica possa produrre nuove mutazioni del conflitto anche dopo apparenti vittorie.
Anche la storia recente di Gaza riflette questi meccanismi. Le operazioni militari israeliane del 2008-09 (Piombo Fuso), del 2012 (Colonna di Nuvola) e del 2014 (Margine di Protezione) hanno inflitto gravi danni infrastrutturali e perdite a Hamas, ma non ne hanno spezzato la capacità operativa né il controllo politico. Ogni offensiva, invece di disinnescare la minaccia, ha finito per alimentare la narrativa della resistenza e rafforzare il ruolo del movimento islamista come unico attore in grado di affrontare militarmente Israele.
In Somalia, il gruppo islamista armato Al-Shabaab continua a operare con efficacia nonostante anni di incursioni americane, interventi multilaterali e operazioni dell’Unione Africana. Senza possedere né un esercito regolare né uno Stato alle spalle, riesce a mantenere il controllo di territori e a rappresentare una minaccia duratura per la sicurezza interna della Somalia e le forze internazionali presenti sul campo. Ancora una volta, la forza convenzionale impiegata per annientare il nemico ha ottenuto risultati limitati e spesso temporanei.
Questi casi, per quanto diversi tra loro, condividono una logica profonda: quando il nemico irregolare non ha bisogno di vincere, ma solo di non essere eliminato, l’asimmetria si trasforma in vantaggio. Più la forza regolare insiste con strumenti convenzionali, più rischia di restare intrappolata in una guerra senza uscita, in cui il tempo, il terreno e persino le proprie vittorie parziali giocano a favore di chi resiste.
Gaza oggi: lo schema si ripete
Nella Striscia di Gaza, lo schema classico della guerra asimmetrica si sta ripetendo con una precisione inquietante. Dopo quasi due anni di conflitto, Hamas non ha bisogno di ottenere una vittoria militare per affermarsi: le sue priorità sono la sopravvivenza organizzativa, la capacità di mantenere una presenza stabile e la riaffermazione del proprio ruolo politico. La tregua in discussione — qualunque sia la sua durata o articolazione — offre al movimento islamista una finestra preziosa per consolidare il controllo interno, riorganizzare le sue strutture armate, neutralizzare le milizie rivali (come il gruppo collaborazionista legato a Yasser Abu Shabab a Rafah, o altre formazioni locali che, secondo fonti palestinesi, Israele tenterebbe di cooptare nel nord della Striscia), e rilanciare l’immagine di un’autorità ancora in grado di agire e governare.
In un conflitto in cui la continuità operativa e politica conta più della conquista territoriale, tutto ciò rappresenta un successo strategico. Hamas, pur colpito, non è stato smantellato: continua a detenere ostaggi, mantiene una presenza attiva sul territorio, esercita un controllo sociale e di sicurezza su varie aree della Striscia e, cosa forse più rilevante, resta un attore politico imprescindibile nei futuri assetti del conflitto. La sua permanenza, il fatto stesso di essere ancora in grado di agire e negoziare, è già una forma concreta di vittoria. E il tempo — risorsa decisiva nelle guerre asimmetriche — gioca a favore di chi sa mantenere la propria capacità di azione, non di chi dispone soltanto della forza.
Israele, al contrario, appare intrappolato in un ciclo operativo che non produce risultati strategici duraturi. La superiorità militare dell’IDF è fuori discussione, ma l’assenza di una visione politica coerente rende ogni offensiva effimera, ogni tregua ambigua, ogni successo militare privo di seguito. Le dichiarazioni del primo ministro Netanyahu — come l’intenzione di “restare a Gaza per sempre” o la promessa di “distruggere Hamas a ogni costo” — non delineano un piano, ma testimoniano uno stallo strategico profondo. La guerra prosegue perché manca una vera prospettiva per ciò che dovrebbe venire dopo.
Nel frattempo, il costo umano e politico si aggrava. Ogni settimana registra nuove perdite tra i soldati israeliani, nuovi dissidi nel governo, crescenti tensioni tra l’opinione pubblica, le famiglie degli ostaggi e i vertici militari. La società israeliana è divisa tra chi esige la liberazione immediata degli ostaggi e chi sostiene la prosecuzione dell’operazione militare. Anche le istituzioni sono scosse da divergenze profonde: i servizi d’informazione, lo Stato Maggiore e i servizi interni esprimono visioni spesso contrastanti rispetto alla dirigenza politica. In un Paese in cui la coesione tra Stato, esercito e società è parte fondativa del sistema, queste crepe rappresentano un segnale d’allarme più che evidente.
A tutto questo si somma la crescente difficoltà sul piano internazionale. Le immagini di devastazione, le critiche per l’alto numero di vittime civili, le accuse presso le sedi giudiziarie internazionali e la pressione degli alleati più vicini — Stati Uniti in testa — riducono sempre più lo spazio d’azione e la legittimità diplomatica. La forza, in assenza di una strategia politica definita, rischia di trasformarsi in un meccanismo sterile, in cui ogni nuova azione armata rinforza la posizione dell’avversario anziché indebolirla.
In questo scenario, Israele rischia di perdere non perché Hamas stia prevalendo sul campo, ma perché il prolungamento della guerra, privo di una direzione politica chiara, sta intaccando dall’interno la tenuta istituzionale, la credibilità strategica e la coesione del sistema. È questa la logica più sottile e potente della guerra asimmetrica: trasformare la forza dell’avversario in debolezza, e la capacità di restare in piedi in una forma di successo duraturo.
Conclusione
Nelle guerre asimmetriche, non prevale necessariamente chi possiede la superiorità nei mezzi, ma chi riesce a prolungare il conflitto alle proprie condizioni, a mantenere la continuità delle proprie strutture, e a perseguire i propri obiettivi con coerenza e flessibilità strategica. In questo tipo di scontro, il tempo non è un elemento neutro: è un campo di battaglia in sé. Hamas, pur colpito duramente sul piano militare e logistico, ha dimostrato finora una notevole capacità di assorbire i colpi, adattarsi, riorganizzarsi e conservare una presenza politica e operativa sufficientemente stabile da impedirne l’esclusione. La sua sopravvivenza organizzativa, la continuità nei vertici e la capacità di mantenere influenza sul territorio rappresentano, nel contesto attuale, strumenti efficaci quanto — se non più — della forza militare.
Israele, al contrario, si muove in un orizzonte strategico indebolito, segnato dall’assenza di una visione politica per il “dopo”, da profonde divisioni interne e da crescenti vincoli esterni. L’impiego ripetuto e massiccio della forza si è tradotto in vittorie operative senza sbocco politico, in tregue che fungono da interruzioni tattiche, ma non modificano l’equilibrio generale. Ogni pausa imposta o negoziata sembra fornire al nemico il tempo necessario per riorganizzarsi e consolidarsi, trasformando l’apparente vantaggio militare in una perdita strategica a medio termine.
In assenza di un progetto politico credibile, ogni incursione, ogni dichiarazione muscolare rischia di rafforzare la percezione che Israele non sappia più perché combatte, o peggio, che combatta per non ammettere di trovarsi in un vicolo cieco. Una forza senza direzione, anche se tecnologicamente avanzata e tatticamente efficiente, non basta per vincere una guerra di logoramento politico e simbolico.
Il cuore del problema sta qui: nella mancata trasformazione della superiorità militare in un’architettura politica solida e duratura. Ma questa assenza non è solo tattica: è sintomo di una contraddizione strutturale. Una vera risposta politica al conflitto richiederebbe a Israele di smantellare le fondamenta stesse dell’occupazione, di rinunciare all’idea del dominio permanente sui territori palestinesi, di riconoscere diritti politici e sovranità a un popolo che da decenni vive sotto controllo militare. In altre parole, significherebbe mettere in discussione l’intero assetto territoriale e ideologico che regge l’attuale forma dello Stato israeliano. Per questo la risposta resta militare: perché qualsiasi soluzione politica reale implicherebbe la fine del regime di separazione, la disgregazione dell’occupazione, e forse, in prospettiva, la crisi del progetto sionista nella sua configurazione etnonazionale e territoriale.
In una guerra asimmetrica, il successo non si misura nel numero di obiettivi colpiti, ma nella capacità di restare un attore centrale, di trasformare il tempo in vantaggio e di offrire un orizzonte politico plausibile. Vincere non significa annientare il nemico sul campo, ma svuotarlo di legittimità, isolarlo politicamente, proporre alla popolazione un’alternativa credibile. E su questo piano, Israele non è semplicemente in difficoltà: è strutturalmente incapace di fornire una risposta politica che non implichi la dissoluzione del sistema di dominio su cui si fonda il suo controllo sui territori palestinesi.
In assenza di una strategia che guardi oltre la forza, ogni offensiva non farà che riprodurre la situazione di stallo. E in un conflitto di logoramento come questo, il tempo non premia chi colpisce di più, ma chi sa perché continua a combattere. La forza, da sola, non basta: è la sua finalità politica a determinarne il senso e, in ultima istanza, il risultato.
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