Gaza: la palude di Netanyahu
A quasi due anni dall’inizio della guerra iniziata il 7 ottobre 2023, le Forze Armate Israeliane (IDF) non hanno ottenuto nessuno degli obiettivi dichiarati: Hamas è ancora attivo, molti degli ostaggi non sono stati liberati, e la minaccia dei razzi e delle operazioni guerrigliere persiste.
Nel frattempo, il prezzo pagato da Israele è sempre più alto. Oltre 400 soldati israeliani sono morti, un numero di gran lunga superiore a quello registrato nel conflitto con Hezbollah nel 2006. Quella che doveva essere una “operazione chirurgica” si è trasformata in un incubo tattico, fatto di combattimenti casa per casa, trappole nei tunnel e continue perdite.
Questa dinamica ricorda da vicino la disfatta americana in Vietnam: una superpotenza che, nonostante la superiorità militare, si trova intrappolata in un conflitto senza fine contro un nemico radicato nel territorio e disposto a resistere a oltranza.
Come in Vietnam, anche a Gaza la popolazione è la vera forza della resistenza: ogni incursione israeliana incontra non solo miliziani armati, ma una rete civile di solidarietà, determinazione e radicamento culturale che vanifica i calcoli militari dell’occupante.
Il fallimento strategico: nessun piano per il dopo
Il governo Netanyahu ha rifiutato apertamente ogni ipotesi di transizione affidata all’Autorità Palestinese, ha respinto le proposte internazionali per una presenza civile temporanea sotto supervisione ONU o araba, e ha dichiarato in modo inequivocabile che Israele manterrà il controllo su Gaza anche dopo la fine dei combattimenti. Netanyahu stesso ha affermato che “Israele resterà a Gaza per sempre”, suscitando allarme anche tra gli alleati occidentali e all’interno della stessa élite militare israeliana, che teme un nuovo impantanamento analogo all’esperienza in Libano tra il 1982 e il 2000.
Questo vuoto strategico non è il risultato di incertezza: è una voragine deliberata. Le IDF avanzano, distruggono, uccidono — ma non perché non sappiano cosa costruire. Semplicemente, non vogliono costruire nulla. La logica dell’intervento non è quella di una guerra per il controllo, ma di una campagna punitiva e devastatrice, che mira a rendere Gaza inabitabile, spezzare la volontà collettiva, cancellare ogni prospettiva di autodeterminazione.
Non esiste alcun piano credibile per amministrare, ricostruire, normalizzare. E non per mancanza di opzioni, ma perché Israele non riconosce il diritto dei Palestinesi a esistere come soggetto politico e sociale autonomo. In questo contesto, anche una cosiddetta “vittoria militare” — quale? sopra le macerie? — sarebbe priva di qualsiasi significato politico, se non come monumento alla distruzione e alla disumanizzazione dell’altro.
La storia insegna che nessuna occupazione ha mai sconfitto una popolazione determinata a resistere, e Gaza, come Hanoi ieri, è diventata il simbolo di questa resistenza.
Effetto domino: la Cisgiordania e il fronte interno israeliano
Un ritiro israeliano da Gaza, sotto la pressione delle perdite e dell’isolamento internazionale, verrebbe letto come una sconfitta. E proprio come avvenne dopo il ritiro unilaterale dal Libano nel 2000, ciò potrebbe innescare un effetto a cascata. Nella Cisgiordania, già attraversata da tensioni, arresti arbitrari e colonizzazione crescente, un simile evento potrebbe ridare slancio alle forze della resistenza, dimostrando che Israele non è invincibile e che la determinazione può prevalere sulla forza.
Ma le conseguenze non si fermerebbero ai territori occupati. Anche all’interno di Israele, la società è profondamente divisa. Da un lato, una destra estrema che invoca l’annientamento totale dei palestinesi; dall’altro, una parte crescente dell’opinione pubblica — incluse figure istituzionali — che si domanda quale sia il prezzo morale, umano e politico di questa guerra.
Una crisi esistenziale si profila: non solo militare o diplomatica, ma identitaria, che potrebbe travolgere il progetto sionista stesso.
A questo si aggiunge un fattore spesso trascurato ma decisivo: l’emorragia economica innescata da quasi due anni di guerra. Secondo la rivista “Calcalist”, il conflitto ha già generato un costo diretto superiore ai 142 miliardi di shekel (circa 35 miliardi di euro), tra spese militari, indennizzi e aiuti a sfollati, aggravando sensibilmente il deficit dello Stato.
Il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha avvertito che altri sei mesi di operazioni a Gaza potrebbero costare mezzo punto di PIL nel 2025, mentre il revisore dei conti Yali Rothenberg ha denunciato che la crescita esplosiva della spesa militare mette a rischio i fondi per settori vitali come sanità, istruzione e assistenza sociale.
In altre parole, non è solo il fronte politico o militare a vacillare, ma anche quello economico e sociale. Una guerra senza prospettiva sta portando a un collasso sistemico, in cui la potenza occupante si consuma giorno dopo giorno, logorata non dalla resistenza militare di Hamas, ma dalla propria incapacità di immaginare il futuro.
Netanyahu: il pilota cieco di un aereo in fiamme
Il paragone con il Vietnam non è retorico: è sostanza storica. Come gli Stati Uniti negli anni Sessanta, anche Israele oggi combatte una guerra coloniale contro una popolazione resistente, determinata, invisibile e impossibile da sradicare, anche sotto le bombe. Come allora, ogni successo tattico si traduce in una sconfitta strategica, e ogni giorno di guerra in più allontana la “vittoria” e approfondisce il disastro morale.
L’offensiva del Têt del 1968 fu un punto di svolta: il Viet Cong attaccò su tutto il fronte, smentendo la narrazione ottimistica dell’amministrazione americana e mostrando che l’inferiorità tecnologica non significa sconfitta. Gaza è il Têt quotidiano di Israele: Hamas continua a colpire, a sopravvivere, a sfidare un esercito infinitamente più potente, e così facendo distrugge la narrazione israeliana del controllo e dell’invulnerabilità.
Come il massacro di My Lai — dove centinaia di civili vietnamiti furono uccisi da soldati americani — anche i crimini commessi a Gaza stanno scuotendo le coscienze internazionali: ospedali distrutti, bambini sotto le macerie, fame come arma di guerra. Le immagini che escono dalla Striscia — nonostante la censura — minano ogni giorno la legittimità di Israele come Stato “democratico” e “civile”.
E come Saigon nel 1975, il momento del collasso arriverà: un giorno le truppe israeliane dovranno ritirarsi da Gaza, senza aver eliminato Hamas, senza aver raggiunto alcuno degli obiettivi proclamati. Quel giorno sarà lo specchio di una sconfitta profonda, non solo militare, ma storica, politica, simbolica.
Ma a differenza del Vietnam, Gaza non è a migliaia di chilometri di distanza. È il cortile di casa, ed è proprio questo che rende la situazione ancora più insostenibile: Israele non potrà mai dimenticare Gaza, e Gaza non dimenticherà mai quello che Israele le ha fatto.
Conclusione: Gaza resiste, Israele vacilla
La Striscia di Gaza, ridotta in macerie da mesi di assedio, bombardamenti e massacri, continua a resistere con una dignità incrollabile. Nonostante la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali e infrastrutture essenziali, il popolo palestinese non si piega. Anzi, la sofferenza collettiva ha rafforzato il senso di identità, coesione e determinazione di una popolazione che rifiuta l’idea di essere cancellata.
Questa resistenza umana e politica, silenziosa ma profonda, sta facendo ciò che nessun arsenale militare israeliano è riuscito a fare: intaccare le fondamenta morali e strategiche dell’apparato coloniale sionista. Gaza non ha bisogno di vincere sul piano militare — ha già vinto sul piano simbolico, dimostrando che l’oppressore può avere il controllo dei cieli, ma non delle coscienze.
La fine di questa guerra non sarà determinata da missili, droni o superiorità tecnologica. Verrà, inevitabilmente, quando Israele capirà di aver a che fare con un popolo che non può essere sottomesso, espulso o annientato. Per ogni edificio distrutto, cresce una nuova generazione consapevole; per ogni martire, si rafforza la memoria collettiva della resistenza. Gaza sta già scrivendo una pagina di storia palestinese incancellabile, e il prezzo più alto, alla fine, lo pagherà chi ha creduto di poterla spezzare con la forza.
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