Con il seguente articolo cercheremo di fare il punto sulla situazione del Nagorno-Karabakh, partendo dalle radici storiche del conflitto per poi discutere delle prospettive future. La struttura dell’articolo, dopo la descrizione dei fatti storici dal 1920 ai nostri giorni, comprenderà una presentazione dei tentativi di mediazione internazionale per poi concludere con delle considerazioni sul valore strategico dell’area e sulle conseguenti difficoltà di pacificazione della stessa.

 

Il recente fallimento del summit di Kazan tra Azerbaijan e Armenia per la pacificazione del Nagorno-Karabakh, fortemente voluto dal Presidente russo Dmitri Medvedev, ha nuovamente riportato in auge i problemi di instabilità di quest’area geografica contesa tra i governi di Baku e Yerevan. Onde analizzare il problema dell’instabilità dell’area, ricostruiremo i fatti seguendo questo schema:

 

– in primo luogo, riporteremo le basi storiche del conflitto azero-armeno per il controllo dell’area;

 

– proseguiremo cercando di descrivere esaurientemente i tentativi di pacificazione del Nagorno-Karabakh, a seguito del conflitto armato esploso dopo la caduta dell’URSS;

 

– infine chiuderemo l’articolo esponendo le prospettive future riguardo le condizioni di stabilità dell’area.

 

Il Nagorno-Karabakh è una zona montuosa a metà tra il territorio armeno e quello azero. Il territorio ospitava una larga maggioranza armena, a fronte di una minoranza azera di religione musulmana.

L’area venne delimitata inizialmente sotto il dominio zarista ai primi del ‘900, per poi avere una prima organizzazione semi-indipendente nel 1917, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre. Si tentò di organizzare uno stato sovietico unitario dalle ceneri di quello zarista – la repubblica federale trans caucasica – guidato da una rappresentanza di cittadini armeni e una di cittadini azeri, ma il progetto non resse, portando alla divisione dei territori di questa Repubblica negli Stati che divennero Armenia, Azerbaijan e Georgia.

 

Il 1920 vide lo scoppio del primo conflitto armeno-azero per il controllo di Nagorno-Karabakh, quando la popolazione armena di quest’area diede inizio ad una rivolta armata: l’attacco fallì, ed in risposta le truppe azere rasero al suolo la città armena di Shusha.

Un anno dopo la rivolta, Mosca si mosse per integrare al meglio Armenia ed Azerbaijan nel suo territorio, e per ingraziarsi i governi di questi Paesi bisognava risolvere la questione del Nagorno-Karabakh. Inizialmente, il governo comunista propendeva per dare la regione contesa agli armeni (vista la composizione demografica), ma in vista di una futura alleanza strategica con la Turchia si decise di lasciare l’area agli azeri. Il risultato finale fu la creazione di un oblast autonomo del Nagorno-Karabakh all’interno del territorio della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan.

Lungo tutto il periodo di dominio della RSS azera, gli armeni del Karabakh – circa il 90% della popolazione totale dell’area – lamentarono numerosi abusi e ghettizzazioni da parte di popolazione ed autorità azere: in ogni caso, non scoppiò alcuna rivolta armata su larga o piccola scala.

Nel 1988, dopo i primi anni di amministrazione Gorbachev, la popolazione armena ed il governo locale si attivarono per la promozione di un referendum nel Nagorno-Karabakh per decidere se l’area contesa dovesse uscire o meno dal controllo di Baku. Il popolo si espresse in favore del passaggio all’Armenia, ma prima che le amministrazioni delle RSS coinvolte potessero ratificare la decisione, un nutrito gruppo di estremisti azeri si oppose con la forza ai risultati del referendum. Si contarono numerosi attacchi a danni di armeni in varie città, e nel giro di un anno le rivolte isolate mutarono in veri e propri pogrom reciproci: il numero delle vittime civili fu molto alto, specie per gli armeni, rendendo prossima alla sparizione questa comunità dalla città azera di Baku e da numerose altre aree.

Alla fine del 1989, mentre l’Unione Sovietica cominciava a sfaldarsi, numerosi cittadini sia armeni che azeri iniziavano ad armarsi “privatamente”, formando milizie in attesa della guerra aperta tra i loro Paesi. Intanto, mentre Mosca dava alle autorità dell’Azerbaijan mano più libera nel gestire la crisi, il Consiglio Supremo del Nagorno-Karabakh ed il Soviet armeno si accordarono per incorporare l’area contesa nel territorio nazionale dell’Armenia. Da Baku la risposta non si fece attendere: in numerose città azere, la popolazione si rivoltò contro gli armeni. Mosca decise di reagire inviando una forza d’interposizione dell’Armata Rossa, ufficialmente con lo scopo di difendere la popolazione armena: di fatto, la motivazione più forte rimaneva quella del controllo sulla presa di potere di fazioni nazionaliste islamiche azere.

La situazione di crisi rimase tesa, raggiungendo un ulteriore picco nel 1991, a seguito del referendum indetto da Gorbachev per testare e confermare la solidità dell’Unione Sovietica. L’Armenia boicottò i seggi, mentre l’Azerbaijan ebbe una reazione mista: parte della popolazione rifiutò le urne, ma il leader sovietico azero Mutalibov fece pressione per votare a favore del mantenimento dell’URSS. Questo atto di lealtà gli concesse molta stima da parte di Gorbachev, con conseguente aumento delle possibilità di appoggio in caso di ostilità.

Sulla base della dichiarazione di illegalità delle milizie cittadine armene promulgata nel 1990, l’Azerbaijan chiese supporto a Mosca per iniziare una campagna di messa in sicurezza della zona contesa del Nagorno Karabakh. L’azione, chiamata “Operazione Anello”, impiegò principalmente truppe speciali (OMON) e militari di truppa azeri nell’atto di fermare sul nascere eventuali azioni di guerriglia da parte di miliziani armeni. Prolungatasi per tre mesi, l’operazione si concluse con il ritiro delle truppe speciali ed un supposto successo da parte delle autorità nel pacificare la regione: rimangono comunque tutt’ora numerosi dubbi sull’effettiva capacità di disarmare i ribelli e sull’effettiva numerosità degli stessi – per alcuni, Mutalibov giocò la carta del “pericolo fedayn” per ottenere supporto militare.

Il fallimento del tentativo di mediazione congiunto di Russia e Kazakhstan del settembre ’91 fu seguito da una nuova offensiva armena ai danni di truppe OMON azere presidianti alcuni villaggi: l’azione servì solo ad innescare una nuova escalation di massacri reciproci a danni di civili, scalfendo a stento lo status quo.

La dissoluzione dell’URSS portò ad un ulteriore inasprimento del conflitto, favorendo l’impiego di mercenari da ambo le parti e facilitando la vendita al mercato nero di armi precedentemente di proprietà dell’Armata Rossa.

Il 1991 vide anche la rinnovata dichiarazione unilaterale di indipendenza del Nagorno-Karabakh: il Paese mantiene strettissimi contatti con l’Armenia – usando persino la stessa moneta – consistendo in un’enclave armena in territorio azero.

Il 1992 vide la nascita in seno all’OSCE del c.d. Gruppo di Minsk, formato dalle delegazioni di Francia, Russia e Stati Uniti con l’obiettivo di risolvere pacificamente il conflitto in Nagorno-Karabakh. Tra il ’93 ed il ’94 si mosse anche l’ONU con quattro risoluzioni – 822, 853, 874, 884 – invocanti il cessate il fuoco e la fine degli attacchi ad obiettivi civili.

Le ostilità si assopirono nel 1994, con un totale di circa 30mila militari morti e 2000 civili dispersi, senza contare i danni collaterali difficilmente quantificabili.

 

Dal punto di vista geografico-politico, il Nagorno-Karabakh si è autoproclamato stato a sé (di popolazione armena), ma riconosciuto internazionalmente solo dalla Transnistria: dal canto loro, gli azeri hanno purgato la quasi totalità della presenza armena dalla parte di confine da loro controllata, ed hanno forze militari dispiegate attorno al confine del Karabakh. Sin dal 1994 i due vicini rimangono in una sorta di pace armata, ove ancora piccoli conflitti si susseguono ed i tentativi di pacificazione definitiva falliscono.

Dal 1995 il Gruppo di Minsk ha proposto soluzioni per uscire da questo stallo, chiedendo all’Azerbaijan di condividere i profitti della costruzione di gasdotti e all’Armenia di restituire porzioni di territorio – il tutto basato sulla smilitarizzazione dei confini. Si pensò anche a soluzioni più dirette basate sulla cessione del Karabakh all’Azerbijan a fronte dell’ottenimento di ampia autonomia sino ad una possibile indipendenza: nessuna di queste soluzioni pacifiche, con ambo le parti a rifiutare strenuamente una qualsiasi soluzione che coinvolgesse uno “scambio” di sorta, venne accettata.

 

Per scuotere lo stallo, il Gruppo di Minsk iniziò a promuovere dal 2004 il c.d. “Processo di Praga”, una serie di negoziati promossi dai leaders del gruppo per favorire gli incontri tra i Ministri degli Esteri delle due parti in conflitto.

 

In questo quadro, sulla base diplomatica dei c.d. Princìpi di Madrid (ritiro delle truppe armene; ritorno della popolazione azera nel Karabakh e invio di osservatori internazionali) si tentò un incontro a Rambouillet nel 2006, che purtroppo terminò in un nulla di fatto: in seguito, i Presidenti dei due Paesi si incontrarono a Bucarest, dove l’Azerbaijan rifiutò tutte le proposte fatte dalla controparte e dai mediatori internazionali – tra le quali ricordiamo l’idea di un referendum e la possibilità di avere un Karabakh azero ma altamente autonomo.

 

A margine, ricordiamo che, nel 2005, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa è intervenuta con la discussa risoluzione 1416, che di fatto condannava l’Armenia e la sua invasione del territorio azero. Anche l’Unione Europea ha appoggiato la posizione azera in due occasioni, nel 2002 e nel 2007, con delle dichiarazioni ad hoc.

 

Il 14 maggio 2008, 39 Paesi ONU adottarono la risoluzione 62/243, invocante l’immediato, completo ed incondizionato ritiro delle forze armene dal territorio azero, ribadendo poi l’importanza dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan – smontando di fatto le pretese armene. Dal voto si astennero i leader del Gruppo di Minsk ed altri quattro Stati: nonostante la risoluzione non soddisfacesse le condizioni del capo VII della Carta ONU, si concretizzò come un nuovo rafforzamento della posizione azera.

Durante il summit dell’Organizzazione per la Conferenza Islamica (OCI) e la sessione del suo consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, i suoi membri hanno adottato le risoluzione 10/11 e 11/37 rispettivamente di marzo 2008 e maggio 2010. Entrambe le risoluzioni hanno sostenuto la tesi dell’aggressione armena e condannato la stessa, invocando l’immediata applicazione delle risoluzioni ONU citate. In risposta, i leader armeni hanno sostenuto che l’Azerbaijan stesse “sfruttando l’Islam per ottenere maggior supporto internazionale”.

Ai primi del 2008, le tensioni nel Karabakh crebbero nuovamente. Sul fronte diplomatico, il Presidente Aliyev ripetè nuovamente l’intenzione del suo Paese di usare la forza per riprendere i suoi territori: allo stesso tempo, ci fu un incremento degli scontri a fuoco sulla linea di confine. La più grave violazione del cessate il fuoco avvenne il 5 marzo 2008, quando 16 soldati furono uccisi. Ambo le parti si scambiarono accuse su chi avesse attaccato per primo. Anche nel 2010 si ebbero scontri a fuoco: in ambo i casi, furono usate anche armi pesanti e d’appoggio, a differenza che in passato.

Nel 2008, il Moscow Defense Brief di Mikhail Barabanov ha sostenuto che a causa della rapida crescita nella spesa militare azera, l’equilibrio militare va spostandosi fortemente in favore del governo di Baku, vista l’incapacità armena di reagire a dovere (stanti le peggiori generali condizioni economiche del Paese). Risulta chiaro che, se davvero il divario in quanto a “potenza di fuoco” tra i due Paesi dovesse davvero concretizzarsi, il rischio di riapertura di una “guerra guerreggiata” sarebbe più che elevato.

 

L’ultimo episodio della travagliata storia internazionale del Karabakh si è avuto lo scorso 24 maggio a Kazan, quando Medvedev ha cercato di fare da mediatore tra i leader di Azerbaijan e Armenia per giungere ad un nuovo stabile compromesso. L’incontro è fallito a causa della completa mancanza di comunicazione tra le parti in causa: l’unica cosa che è stata messa in evidenza è stata la mancanza di volontà politica delle parti in conflitto per la pacificazione, nonostante le forti pressioni internazionali – già avviate dal Gruppo di Minsk al G8 del 26 maggio scorso. Purtroppo, una risoluzione pacifica e duratura di tale persistente crisi può solo venire dalla volontà politica dei due Presidenti in carica, cosa che, allo stato attuale dei fatti, pare oggettivamente impossibile. Lo stesso Medvedev si è definito “rammaricato” e propenso ad interrompere i colloqui a tre: anche dagli USA si constata il fallimento del meeting.

 

Dando un torbido segnale di ulteriore raffreddamento delle relazioni, il Presidente azero Aliyev, durante la parata militare del 26 giugno, ha pubblicamente dichiarato di voler intraprendere un potenziamento dell’arsenale bellico del proprio Paese.

Di contro, le relazioni militari tra Russia e Armenia sembrano intensificarsi, con Mosca che è passata da un supporto militare ufficioso a Yerevan ad uno più diretto ed ufficiale.

 

Dopo questo lungo riepilogo, è il momento di fare alcune considerazioni sull’importanza geostrategica dell’area.

 

La contesa del Karabakh rende ingestibili le relazioni bilaterali tra Armenia ed Azerbaijan, mettendo di fatto a rischio la costruzione e l’implementazione di tutte le grandi opere “internazionalmente sponsorizzate” da costruirsi nell’area. Un conflitto aperto rovinerebbe i piani di chi ha bisogno del corretto funzionamento dei gasdotti e degli oleodotti azeri: allo stesso modo, un appoggio diretto e aperto delle posizioni armene metterebbe in difficoltà chiunque voglia rapporti sereni con l’Azerbaijan come partner energetico.

 

Il secondo problema riguarda il rischio di “islamizzazione” dell’area, o almeno di predominio di fazioni considerate come fondamentaliste islamiche – rischio visto come estremamente pericoloso sia dalla Russia che dagli Stati Uniti. Tale rischio viene considerato tangibile a causa del crescente interesse dell’OCI nell’area, a seguito delle due risoluzioni sul tema prese da questa organizzazione. Cresce sempre più il timore di uno spostamento delle radici del conflitto da prettamente territoriale a religioso.

Alla luce di questi elementi è chiaro che da Baku non ci si faccia problemi a mantenere la “linea dura”, visti i problemi derivanti da un “Azerbaijan nemico” sommati ad una legittimazione internazionale largamente maggiore rispetto a quella della posizione del governo di Yerevan.

 

Le prospettive di risoluzione del conflitto sono tutt’altro che semplici: il problema cardine è la mancanza critica di possibilità di intesa tra le due parti in conflitto, le quali non hanno intenzione di cedere di un millimetro sulle proprie posizioni.

Attorno a questo problema, ruota quello delle ingerenze internazionali: la comunità internazionale ha un ruolo diplomatico molto eterogeneo, contribuendo alla radicalizzazione della contrapposizione tra i due Paesi, che ricevono dall’esterno numerosi elementi per continuare a mantenere vive le proprie pretese territoriali.

 

Interessante è l’analisi del ruolo di Mosca, che da supporter dell’Azerbaijan – specie in periodo sovietico – è passata ad appoggiare il governo di Yerevan. Mosca vuole ovviamente evitare che Baku, vista la migliore macchina bellica a disposizione, possa travolgere la vicina Armenia e stabilire un ruolo di leadership nel Caucaso: visti inoltre gli interessi conflittuali con il Cremlino in tema di petrolio (si pensi alla partecipazione azera alla pipeline Baku-Tblisi-Ceyhan, progetto finanziato da USA e Regno Unito) e alleanze internazionali, arginare Baku diventa un obiettivo prioritario.

 

I tentativi del gruppo di Minsk sono falliti anche perché “vendere” la pace agli armeni è difficile, poiché essi vedono il caso come una “questione di principio”: il Karabakh è popolato in maggioranza da armeni, perciò per loro “è armeno”, e pertanto averlo è un diritto, non il risultato di un compromesso. Il desiderio di Yerevan si scontra però con una prassi internazionale che, sulle basi del diritto e della consuetudine, si vede forzata ad appoggiare le pretese azere, sulla base dei confini sovietici e post-sovietici. Se da un lato l’area oggettivamente accusa ancora i postumi di una decisione di “real politik” moscovita degli anni ’30, di certo la colpa giace anche abbondantemente nell’intransigenza sia dei governi che di alcuni frange di popolazione dei due Paesi confinanti.

 

Nella ricerca di una soluzione, non si deve dimenticare che essa non potrà prescindere dalle seguenti condizioni per considerarsi applicabile:

 

– l’Azerbaijan non deve percepire come minata la propria integrità territoriale

– l’Armenia vuole un Karabakh “armeno”, indipendente o almeno autonomo

 

E’ chiaro che le due condizioni sono, almeno in apparenza, difficilmente conciliabili.

Inoltre, è critico il fatto che qualsiasi soluzione pacifica basata su qualsivoglia falsariga non potrà essere perseguita se non in un clima di fiducia reciproca tra governanti e cittadini dei due Paesi: anche se in futuro si otterrà un accordo sul Karabakh autonomo, da Baku bisognerà credere che non si innescheranno spinte autonomiste a catena, e da Yerevan che non vi saranno più persecuzioni etniche e territoriali. Bisognerà inoltre avere la conferma di un impegno congiunto delle controparti e internazionale per mantenere la pace, controllando eventuali rigurgiti di nazionalismo da ambo le parti.

 

*Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

 


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