Introduzione

Il 30 settembre 2025, alla Casa Bianca, il presidente statunitense Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno annunciato un piano in venti punti destinato, nelle intenzioni dichiarate, a cambiare il corso della guerra a Gaza. Presentato come “Pace eterna in Medio Oriente”, il documento si propone di porre fine a un conflitto che dura ormai da quasi un anno e che ha trasformato la Striscia in un campo di macerie, con centinaia di migliaia di sfollati e un sistema sanitario al collasso. L’annuncio, accompagnato da dichiarazioni solenni e da un forte impatto mediatico, è stato subito interpretato come un tentativo di imprimere una svolta politica a una crisi che sembra senza sbocchi.

Il piano prevede la liberazione degli ostaggi israeliani entro 72 ore, uno scambio con circa 2.000 prigionieri palestinesi, un’amnistia per i membri di Hamas che depongano le armi, la ripresa immediata degli aiuti umanitari e la creazione di un organismo internazionale, il Consiglio della Pace, presieduto da Trump e affiancato dall’ex premier britannico Tony Blair. Questo organismo dovrebbe guidare un’amministrazione transitoria composta da “tecnici palestinesi”, responsabili della gestione quotidiana della Striscia e della ricostruzione materiale.

Dietro la retorica, tuttavia, emergono forti dubbi sulla reale natura dell’iniziativa. Più che un compromesso negoziale, il piano sembra costruito per imporre a Hamas una resa totale e per affidare a un’amministrazione esterna il controllo politico ed economico di Gaza. Una prospettiva che non è nuova: richiama i precedenti tentativi falliti di soluzione, dagli Accordi di Oslo degli anni Novanta alla “Road Map” statunitense dei primi anni Duemila, fino ai più recenti colloqui del Cairo e di Doha. Tutti questi processi si sono arenati per la stessa ragione: l’assenza di un riconoscimento effettivo dei diritti politici dei palestinesi e di una prospettiva chiara verso la sovranità.

 

Un piano di pace o una resa incondizionata?

Gli elementi centrali del piano coincidono quasi integralmente con gli obiettivi dichiarati da Israele fin dalle prime settimane dell’offensiva: il disarmo completo di Hamas, lo smantellamento sistematico delle infrastrutture militari, la distruzione delle gallerie sotterranee e l’impegno a impedire che possano essere ricostruite. In cambio, Israele prevede di rilasciare un numero limitato di prigionieri palestinesi — circa duemila, compresi 250 ergastolani — e di consentire l’ingresso di aiuti umanitari, sotto stretta supervisione internazionale, per avviare un percorso di ricostruzione.

Questa impostazione mette in evidenza una netta asimmetria tra le parti. Da un lato, a Hamas viene chiesto di rinunciare a tutto ciò che costituisce la sua identità politica e militare, cioè l’idea stessa di resistenza armata e il radicamento sociale costruito negli anni attraverso la gestione di reti assistenziali, educative e sanitarie. Dall’altro, Israele conserva libertà d’azione: mantiene un perimetro di sicurezza lungo i confini della Striscia, si riserva il diritto di intervenire militarmente in caso di minaccia e, soprattutto, non assume obblighi politici vincolanti.

La promessa di una “Nuova Gaza prospera” appare vaga e priva di contenuti concreti. Nel piano non vi è alcun riferimento a uno Stato palestinese, a confini definiti, a un calendario politico o a un percorso di autodeterminazione. Si parla piuttosto di una zona economica speciale, di incentivi per i Gazawi a restare nella Striscia e di un’amministrazione transitoria guidata dall’esterno. Tutto ciò somiglia più a un progetto di gestione che a una reale proposta di pace.

Per Hamas, il piano equivale a una resa. Accettarlo significherebbe perdere ogni capacità militare e politica, rinunciare al proprio ruolo nella società palestinese e abbandonare la narrativa della resistenza. Non sorprende che i vertici abbiano definito “irricevibile” la clausola del disarmo in assenza di uno Stato palestinese.

Questa prevedibile risposta è probabilmente parte del calcolo di Israele e Stati Uniti. Nel momento in cui Hamas rifiuta, essi possono dichiarare di aver offerto una via di pace, scaricando sull’organizzazione la colpa della prosecuzione del genocidio. Si tratta di una strategia comunicativa che mira a rafforzare la legittimità delle operazioni militari agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

In definitiva, non si tratta di un vero tavolo negoziale, ma di una resa unilaterale mascherata. La pace, intesa come compromesso tra due parti riconosciute, implica reciproche concessioni e una prospettiva di convivenza. Qui, invece, l’unica prospettiva è la scomparsa di Hamas e la perpetuazione del controllo israeliano, senza alcun impegno verso la statualità palestinese.

 

L’amministrazione esterna: Consiglio della Pace e tecnici palestinesi

Uno degli aspetti più controversi del piano riguarda la gestione politica e amministrativa di Gaza nel periodo successivo alla cessazione delle ostilità. Il documento prevede infatti l’istituzione di un’amministrazione provvisoria composta da “tecnici palestinesi”, figure presentate come apolitiche e indipendenti, incaricate di garantire i servizi essenziali e di coordinare la ricostruzione. Tuttavia, questi funzionari non opererebbero in autonomia: sarebbero posti sotto la supervisione di un organismo internazionale, il cosiddetto Consiglio della Pace, presieduto da Donald Trump e dall’ex premier britannico Tony Blair.

Il significato politico di tale impostazione è chiaro: impedire a Hamas di mantenere qualsiasi ruolo di governo e, allo stesso tempo, ridurre l’Autorità Nazionale Palestinese a un attore marginale, relegato a un ritorno solo eventuale e condizionato da riforme interne. In questo modo, le forme tradizionali di rappresentanza palestinese vengono sospese, sostituite da una struttura di controllo esterno che avrebbe un potere effettivo su questioni fondamentali: la definizione delle priorità economiche, la gestione degli aiuti umanitari e persino la sicurezza interna.

La scelta di affidare la supervisione a figure come Blair non è neutrale. Già inviato del Quartetto nel Vicino Oriente, Blair è percepito da gran parte dell’opinione pubblica araba come un uomo legato agli interessi occidentali e israeliani. La sua presenza rischia dunque di delegittimare il progetto agli occhi dei Palestinesi, che potrebbero interpretarlo come un’imposizione dall’alto piuttosto che come un sostegno alla loro autodeterminazione.

Questa formula ricorda esperienze già viste nel recente passato. Dopo gli accordi di Dayton del 1995, la Bosnia-Erzegovina fu sottoposta al controllo di un Alto Rappresentante internazionale dotato di poteri straordinari. In Iraq, nel 2003, la Coalizione guidata dagli Stati Uniti istituì un’Autorità Provvisoria che governò il paese senza legittimazione popolare. In entrambi i casi, la mancanza di radicamento locale alimentò sfiducia, contestazioni e instabilità, mostrando i limiti strutturali di questo modello di amministrazione.

Anche nel caso di Gaza, il rischio è che un sistema percepito come eterodiretto finisca per generare ulteriore opposizione. La popolazione potrebbe considerarlo non come una fase di transizione verso l’autogoverno, ma come una nuova forma di tutela coloniale. È in questo senso che molti analisti parlano apertamente di “neocolonizzazione mascherata da ricostruzione”: dietro la promessa di sviluppo e prosperità si nasconderebbe il vero obiettivo di Israele e Stati Uniti, ossia impedire ai palestinesi di acquisire piena sovranità politica e mantenere la Striscia sotto un controllo indiretto ma permanente.

 

Pressioni regionali e fragilità interna israeliana

Il contesto regionale in cui è stato presentato il piano Trump–Netanyahu è essenziale per comprenderne il significato e la tempistica. Gli Stati Uniti hanno cercato di costruire un consenso attorno al documento coinvolgendo attori arabi chiave come Egitto, Qatar e Arabia Saudita. L’obiettivo era duplice: da un lato fornire al piano una copertura diplomatica che ne rafforzasse la credibilità, dall’altro disinnescare possibili critiche da parte delle opinioni pubbliche arabe, tradizionalmente molto sensibili alla questione palestinese.

Tra questi attori, il ruolo più delicato è stato quello del Qatar. Doha ospita da anni la dirigenza politica di Hamas e ha finanziato numerosi progetti di ricostruzione nella Striscia. È quindi un interlocutore indispensabile per qualunque trattativa. Tuttavia, le relazioni tra Qatar e Israele hanno subito un duro colpo all’inizio di settembre, quando un attacco israeliano ha colpito esponenti di Hamas presenti sul territorio qatariota. L’episodio ha provocato una crisi diplomatica, al punto che Netanyahu è stato costretto a telefonare personalmente all’emiro Tamim al-Thani per esprimere rammarico e promettere che simili azioni non si sarebbero ripetute. Si tratta di un gesto rarissimo per un capo di governo israeliano, che mostra quanto fosse forte la pressione internazionale e quanto fosse necessario salvaguardare il canale qatariota per non compromettere definitivamente il piano.

L’Egitto, da parte sua, resta un attore cruciale per ragioni geografiche e strategiche: controlla il valico di Rafah, unica uscita della Striscia non sotto controllo israeliano, ed è tradizionalmente impegnato nella mediazione tra Hamas e Israele. Tuttavia, anche Il Cairo guarda con sospetto a qualsiasi progetto che riduca il suo peso politico o che provochi nuove ondate di profughi verso il Sinai, già instabile. L’Arabia Saudita, infine, pur non essendo direttamente coinvolta nel conflitto, è chiamata in causa come padrino politico e finanziario di un eventuale processo di ricostruzione, ma deve bilanciare i rapporti strategici con Washington con la necessità di non alienarsi l’opinione pubblica araba e islamica.

Se sul piano esterno la pressione appare evidente, non meno complessa è la situazione interna israeliana. Netanyahu si trova a gestire una frattura profonda nella società e nel sistema politico. Da un lato vi sono le famiglie degli ostaggi, che da mesi chiedono con forza un accordo in grado di riportare a casa i propri cari. Esse rappresentano una componente molto visibile e mediatica, capace di mobilitare l’opinione pubblica e di esercitare una pressione costante sul governo.

Dall’altro lato, l’ultradestra e i coloni esercitano un’influenza determinante sulla fragile coalizione di governo. Per questi gruppi, qualsiasi concessione a Hamas è inaccettabile: essi vedono nel conflitto non un problema da risolvere, ma un’opportunità per consolidare il controllo israeliano sui territori e ridurre al minimo le possibilità di una futura entità palestinese autonoma. Le loro richieste comprendono il mantenimento indefinito dell’esercito lungo i confini di Gaza, la libertà di intervento militare in ogni momento e l’esclusione totale dell’Autorità nazionale palestinese da qualunque assetto futuro.

Netanyahu è dunque stretto tra due fuochi. Deve mostrare apertura verso l’esterno e verso gli alleati internazionali, sostenendo formalmente il piano di Trump, ma allo stesso tempo deve rassicurare gli alleati interni più radicali, senza i quali il suo governo non avrebbe i numeri per sopravvivere. L’appoggio al piano appare quindi più come un esercizio di equilibrismo politico che come una reale volontà di compromesso: serve a guadagnare tempo, legittimazione internazionale e margini di manovra, lasciando però intatti i nodi centrali del conflitto.

 

Contraddizioni operative: le “aree libere dal terrorismo”

Uno dei punti più discussi del piano riguarda l’ipotesi che alcune misure possano essere applicate comunque, anche senza il consenso di Hamas, nelle cosiddette “aree libere dal terrorismo”. Si tratterebbe di zone che, una volta considerate “bonificate” dall’esercito israeliano, verrebbero consegnate a una forza internazionale di stabilizzazione incaricata di addestrare la polizia locale, garantire i servizi essenziali e favorire il ritorno graduale della popolazione civile.

In teoria, questa formula dovrebbe permettere di avviare una normalizzazione graduale, mostrando ai Palestinesi i benefici della cooperazione e isolando così Hamas. In pratica, però, la nozione stessa di “area bonificata” si scontra con la realtà della guerriglia. L’esperienza degli ultimi mesi dimostra che i combattenti di Hamas e delle altre fazioni riescono ad adattarsi rapidamente, evitando lo scontro frontale e sfruttando le gallerie sotterranee per riemergere anche in quartieri che l’esercito israeliano dichiara di aver messo in sicurezza. Questa mobilità sotterranea consente attacchi a sorpresa contro convogli e pattuglie, creando un clima di costante insicurezza.

Le guerre asimmetriche mostrano chiaramente i limiti di questo approccio. In Algeria, durante la guerra d’indipendenza contro la Francia, intere aree considerate “pacificate” tornarono sotto controllo dei ribelli nel giro di poche settimane. In Iraq, dopo l’invasione del 2003, la coalizione statunitense dichiarò più volte di aver ripulito città come Falluja o Mosul, salvo poi trovarsi di fronte a nuove insurrezioni. In Afghanistan, la stessa nozione di “zone sicure” si è rivelata un’illusione, perché i talebani erano in grado di colpire ovunque e in qualsiasi momento. Gaza non fa eccezione: la densità urbana e la rete di tunnel rendono quasi impossibile un controllo stabile del territorio.

Introdurre operatori civili, funzionari internazionali o personale tecnico in un simile contesto significherebbe esporli a rischi enormi. Basterebbe un attacco contro un centro di distribuzione di aiuti o un’imboscata a un convoglio internazionale per minare la credibilità dell’intero piano, alimentando la percezione che la “Nuova Gaza” promessa sia in realtà un miraggio. Inoltre, l’eventuale presenza di truppe straniere rischierebbe di diventare essa stessa un bersaglio, rafforzando la narrativa di Hamas secondo cui la Striscia è sottoposta a un nuovo protettorato coloniale.

In sostanza, la previsione di “aree libere dal terrorismo” appare più come una costruzione teorica che come un’opzione realistica. Sul terreno, la distinzione tra zone sicure e zone ostili è destinata a sfumare rapidamente, e il tentativo di far partire la ricostruzione in condizioni di guerra latente rischia di aggravare l’instabilità invece di ridurla.

 

La realtà di Gaza: bombardamenti e sfollamenti

Mentre veniva presentato il piano a Washington con toni solenni, la popolazione civile di Gaza continuava a vivere in condizioni di guerra permanente. I bombardamenti quotidiani hanno colpito zone densamente abitate, anche nei pressi dell’ospedale al-Shifa, principale struttura sanitaria della Striscia, riducendo interi palazzi in cumuli di macerie e lasciando migliaia di persone senza un riparo. La distruzione sistematica del tessuto urbano non solo priva la popolazione di abitazioni e servizi, ma ostacola ogni prospettiva di ricostruzione futura.

Secondo dati delle Nazioni Unite, tra il 16 e il 30 settembre sono stati colpiti almeno 17 ospedali o cliniche. La perdita di questi presidi ha avuto effetti devastanti: centinaia di malati cronici non hanno più accesso a cure salvavita, mentre la carenza di sangue e medicinali rende impossibile affrontare interventi chirurgici di emergenza. Le sale operatorie funzionano solo a intermittenza, spesso illuminate da generatori di fortuna. Le autorità sanitarie locali hanno denunciato che persino i neonati nelle incubatrici sono a rischio per mancanza di elettricità e ossigeno.

Parallelamente, gli sfollamenti interni hanno raggiunto numeri impressionanti: oltre 57.000 persone costrette a lasciare le proprie abitazioni in soli cinque giorni, che si aggiungono ai circa 400.000 movimenti forzati registrati dall’agosto 2025. Molte famiglie hanno dovuto fuggire più volte, passando da una zona all’altra senza mai trovare un rifugio sicuro. I campi di fortuna, spesso allestiti in scuole o spazi aperti, non dispongono di acqua potabile né di servizi igienici adeguati, creando condizioni favorevoli alla diffusione di malattie.

Questa spirale di distruzione e precarietà contraddice frontalmente l’immagine di una “Nuova Gaza prospera” evocata dal piano Trump–Netanyahu. Mentre si parla di una zona economica speciale e di prospettive di sviluppo, la realtà quotidiana è fatta di fame, malattie e insicurezza costante. Gli abitanti non vedono nel piano una promessa di futuro, ma l’ennesimo strumento per prolungare il controllo esterno e giustificare la prosecuzione dell’assedio. Così, mentre a Washington si annuncia la “Pace eterna”, a Gaza questo nome sembra evocare più la quiete dei cimiteri che la prospettiva di una vita nuova.

 

Un quadro politico sempre più radicalizzato

In Israele, la coalizione di governo guidata da Netanyahu continua a spostarsi verso posizioni sempre più rigide. La proposta di introdurre la pena di morte per i prigionieri politici palestinesi, sostenuta dai partiti di estrema destra, rappresenta uno dei segnali più chiari di questa radicalizzazione. Non si tratta soltanto di un provvedimento simbolico: l’adozione di una simile legge segnerebbe una rottura con la tradizione giuridica israeliana, che finora ha applicato la pena capitale solo in rarissimi casi, come per il processo a Adolf Eichmann nel 1962.

La misura è stata presentata come risposta alla “ferocia del terrorismo”, ma appare piuttosto come un modo per compiacere l’elettorato più estremista e consolidare l’alleanza tra il Likud di Netanyahu e i partiti religiosi-nazionalisti. Essa risponde a una logica di punizione collettiva, che mira non tanto a prevenire la violenza quanto a riaffermare la supremazia politica israeliana sui palestinesi.

Le critiche non si sono fatte attendere. Organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato il carattere discriminatorio e crudele della proposta, che introdurrebbe una netta disparità legale tra detenuti palestinesi e cittadini israeliani. Alcuni familiari degli ostaggi israeliani hanno espresso pubblicamente il timore che un inasprimento così drastico possa ostacolare gli scambi di prigionieri e complicare le trattative per il rilascio dei loro cari.

Il dibattito interno riflette quindi una contraddizione profonda: mentre il governo afferma di voler riportare gli ostaggi a casa, una parte della sua stessa base politica promuove leggi che rischiano di renderlo più difficile. Questa dinamica mostra come le pressioni dell’ultradestra non solo condizionino la linea di Netanyahu, ma possano addirittura sabotare gli stessi obiettivi dichiarati dall’esecutivo.

La radicalizzazione politica non si limita al piano legislativo. Essa si traduce anche in un linguaggio sempre più aggressivo verso i palestinesi, nell’espansione delle colonie e nel rafforzamento di pratiche di esclusione. Tutto ciò contribuisce a consolidare un clima di conflitto permanente, in cui ogni apertura viene percepita come una minaccia e ogni compromesso come una resa.

 

Conclusione: una pace impossibile senza sovranità

Il piano Trump–Netanyahu, pur presentato come la via per una “pace eterna”, si configura come uno strumento geopolitico che rafforza gli interessi di Israele e Stati Uniti, marginalizzando i Palestinesi e congelando la questione della loro sovranità. Non si tratta di un compromesso, ma di una ridefinizione degli equilibri regionali a favore di chi già detiene il potere.

L’obiettivo immediato è duplice: da un lato, consolidare il controllo israeliano su Gaza attraverso una smilitarizzazione totale e una gestione esterna della Striscia; dall’altro, garantire a Trump un successo diplomatico spendibile sul piano interno e nelle relazioni con gli alleati arabi. In questa prospettiva, il piano diventa un tassello della competizione geopolitica globale: Washington cerca di riaffermare la propria centralità nel Vicino Oriente, in un momento in cui Russia, Cina e Turchia si propongono come alternative nei processi di mediazione.

Tuttavia, la distanza tra retorica e realtà resta enorme. Sul terreno, Gaza continua a vivere in condizioni di guerra permanente: bombardamenti, ospedali distrutti, sfollamenti di massa e misure repressive in Israele, come la proposta di pena di morte per i prigionieri palestinesi, disegnano uno scenario opposto a quello della pacificazione. In queste condizioni, la promessa di una “Nuova Gaza prospera” appare come uno strumento di propaganda più che un progetto politico credibile.

L’esperienza storica dimostra che le guerre asimmetriche non si vincono con la sola forza militare. Algeria, Iraq, Afghanistan e lo stesso Libano del 1982 insegnano che senza un percorso politico inclusivo e senza riconoscimento reciproco, ogni vittoria resta temporanea e genera nuove resistenze. Israele rischia di ripetere lo stesso schema: ottenere risultati militari nel breve periodo, ma alimentare un conflitto permanente che logora la sua sicurezza e la sua immagine internazionale.

In termini geopolitici più ampi, il piano ha un effetto destabilizzante anche sul sistema regionale. Il Qatar, l’Egitto e l’Arabia Saudita sono chiamati a sostenere un’iniziativa che rischia di minare la loro stessa legittimità interna, esponendoli alle accuse di complicità nella repressione palestinese.

In definitiva, più che una soluzione, il piano apre una nuova fase di competizione geopolitica: Israele e Stati Uniti cercano di congelare la questione palestinese in un assetto di fatto, mentre i rivali regionali e globali si preparano a sfruttarne le contraddizioni. Senza sovranità palestinese e senza la fine dell’assedio, la cosiddetta “pace eterna” non potrà che rivelarsi un’illusione strategica: un armistizio instabile, utile a chi lo impone, ma destinato a generare nuovi conflitti e a mantenere il Vicino Oriente in una condizione di instabilità cronica.


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