Introduzione
Durante la sua prima visita ufficiale a Mosca dopo la salita al potere, il presidente siriano Ahmad al-Sharaa ha ribadito “la piena fedeltà” del suo governo agli accordi siglati con la Federazione Russa, assicurando che le basi militari di Tartous e Hmeimim resteranno operative e sotto tutela congiunta russo-siriana. Nel corso dell’incontro al Cremlino, il presidente siriano ha sottolineato che Siria e Russia “sono legate da relazioni bilaterali e interessi comuni”, annunciando la volontà di “ridefinire la natura dei rapporti con Mosca” alla luce della nuova fase politica apertasi a Damasco.
Da parte sua, Vladimir Putin ha espresso sostegno alle iniziative del nuovo governo siriano e si è congratulato per le recenti elezioni parlamentari, definite “un passo verso la coesione nazionale”[1].
L’incontro, passato quasi inosservato nei media occidentali, rappresenta in realtà un momento di rilievo nella ridefinizione della presenza russa nel Levante. Dopo dieci anni di guerra, sanzioni e logoramento economico, Mosca non abbandona la Siria, ma la riconfigura: mantiene le infrastrutture strategiche che garantiscono il controllo del Mediterraneo e riduce gli impegni più onerosi, delegando parte della gestione ad attori locali e regionali.
Questa scelta non segna una rottura, bensì una continuità nella logica di potenza del Cremlino. La Russia postsovietica non agisce più secondo categorie ideologiche, ma in base al calcolo dei vantaggi concreti. La fedeltà proclamata da Sharaa non è dunque una rinnovata alleanza “tra fratelli d’armi”, bensì la conferma di una relazione strumentale in cui ciascuna parte ottiene ciò che serve: a Mosca, il mantenimento del suo avamposto nel Mediterraneo; a Damasco, la garanzia di sopravvivenza politica.
Le basi di Tartous e Hmeimim: l’interesse permanente
Per comprendere il senso della presenza russa in Siria occorre partire da Tartous e Hmeimim, i due pilastri della strategia militare di Mosca nel Mediterraneo.
Tartous, porto fondato negli anni Settanta durante l’epoca sovietica, costituisce da mezzo secolo l’unico sbocco navale russo su acque calde, accessibile tutto l’anno. Da lì transitano navi da guerra, sottomarini e mezzi logistici diretti verso il Mar Rosso e lo Stretto di Gibilterra. La sua importanza è eminentemente geopolitica: consente alla Russia di bilanciare la presenza della NATO nel Mediterraneo, di proiettare potenza nel Nord Africa e di mantenere un corridoio militare verso il Vicino Oriente.
Hmeimim, invece, è la grande base aerea costruita ex novo nel 2015, nel pieno del conflitto siriano. Da essa decollano i caccia e i bombardieri che, negli anni più intensi della guerra, hanno garantito la sopravvivenza del regime di Assad. Ma Hmeimim è più di un aeroporto militare: è un centro di comando avanzato che ospita sistemi radar, infrastrutture satellitari e dispositivi di difesa aerea in grado di coprire gran parte dello spazio mediorientale.
Insieme, Tartous e Hmeimim sono la spina dorsale della proiezione russa nel Mediterraneo. La promessa di Sharaa di “rispettare tutti gli accordi” non è dunque un atto di deferenza diplomatica, ma una garanzia strategica: finché queste basi resteranno operative e protette da Mosca, la Siria manterrà un valore essenziale per il Cremlino.
In termini simbolici, la Siria svolge per la Russia di Putin una funzione analoga a quella che Cuba ebbe per l’Unione Sovietica in tutto il suo arco storico, da Chruščëv a Gorbačëv: un avamposto avanzato di potenza, più utile come strumento di proiezione globale e testimonianza di presenza militare fuori dal blocco eurasiatico che come vero partner economico. Come l’Avana per Mosca negli anni della Guerra Fredda, anche Damasco per il Cremlino contemporaneo rappresenta una vetrina geopolitica: un piccolo alleato sostenuto a caro prezzo, ma indispensabile per dimostrare che la Russia resta una potenza capace di incidere sugli equilibri mondiali. Tuttavia, a differenza dell’Unione Sovietica, la Russia attuale non si dissangua per mantenere in vita regimi ideologicamente affini: investe dove può ottenere un ritorno immediato, militare o diplomatico[2].
Dal legame ideologico al calcolo di potenza
Chi interpreta la fase attuale nei termini di un “tradimento” russo nei confronti di Assad — o, più in generale, della causa siriana — commette un errore di prospettiva metodologica. La logica delle relazioni internazionali non si fonda sulla fedeltà, ma sull’interesse. In questo senso, la Russia non ha mai “tradito” Assad, semplicemente perché non è mai stata legata a lui da un vincolo ideologico o morale, bensì da un rapporto di reciproca utilità.
Durante la Guerra Fredda, l’URSS sosteneva regimi affini per ragioni politiche e dottrinali: la solidarietà socialista, l’antimperialismo, la contrapposizione con l’Occidente. La Russia di Putin, invece, si muove secondo criteri di opportunità geopolitica. Le alleanze non si fondano più sulla comunanza ideologica, ma sull’equilibrio dei costi e dei benefici.
Quando nel 2015 Mosca intervenne in Siria, lo fece con tre obiettivi chiari: garantire la sopravvivenza del proprio alleato per consolidare la presenza militare nel Mediterraneo, riaffermare la capacità di proiezione globale della Russia dopo due decenni di marginalità e utilizzare il teatro siriano come laboratorio operativo, testando nuove armi e tattiche in condizioni reali.
Raggiunti questi scopi, il rapporto con Damasco ha perso parte della sua centralità. La Siria, logorata da anni di conflitto, sanzioni e divisioni etniche, rappresenta oggi più un onere che un vantaggio. La Russia si trova costretta a negoziare ogni spazio di influenza con attori regionali come l’Iran, la Turchia e Israele, in un contesto in cui la lealtà è un concetto fluttuante.
In questa prospettiva, Assad e Sharaa sono strumenti, non fini: intermediari che consentono a Mosca di mantenere continuità territoriale e simbolica nella regione. La Russia non difende un regime: difende la propria capacità di restare nel gioco della potenza, in un sistema internazionale che non perdona l’inerzia.
Una Siria utile ma costosa
La Siria resta utile alla Russia, ma il prezzo della sua gestione cresce di anno in anno. Le basi di Tartous e Hmeimim assicurano una presenza militare stabile, ma la ricostruzione economica del Paese — stimata in oltre 400 miliardi di dollari — è fuori dalla portata di Mosca, impegnata su altri fronti: l’Ucraina, il Caucaso, il Mar Nero.
Per questo, negli ultimi anni il Cremlino ha adottato una strategia di contenimento dei costi. Ha ridotto l’impegno diretto, delegando parte delle operazioni di sicurezza ai contractor del gruppo Wagner e, successivamente, a formazioni paramilitari sotto controllo del ministero della Difesa. Parallelamente, ha cercato di coinvolgere partner come gli Emirati Arabi Uniti e la Cina nei progetti di ricostruzione e nelle concessioni economiche legate all’energia e alle infrastrutture.
Questa politica riflette una logica precisa: presidiare il nodo militare e politico, ma scaricare sugli altri la parte economica. In tal modo, la Russia conserva le leve della sicurezza e del controllo territoriale, mantenendo un piede saldo nella regione con un investimento relativamente contenuto.
È in questo contesto che si inserisce la recente indiscrezione, riportata da Al-Monitor e Arab News, relativa a un possibile ridispiegamento della polizia militare russa nel sud della Siria, nell’area di Quneitra, al confine con Israele[3]. L’iniziativa, secondo fonti regionali, risponderebbe alla necessità di stabilizzare una zona divenuta nuovamente sensibile dopo il ritiro progressivo delle forze iraniane e la conseguente frammentazione del controllo locale. In assenza di Teheran, Mosca mira a colmare il vuoto lasciato dagli ex alleati, riposizionandosi come garante della sicurezza lungo il confine meridionale e interlocutore accettabile tanto per Damasco quanto per Tel Aviv.
Se confermata, la mossa sancirebbe la transizione della Russia da potenza interventista a potenza regolatrice: un attore che non domina il terreno ma ne modera gli equilibri, preservando la propria influenza e riducendo al minimo i rischi. È la prosecuzione della stessa logica che guida l’intera presenza russa in Siria: mantenere il controllo dei nodi strategici e del processo negoziale, rinunciando alla gestione diretta del conflitto ma non al ruolo di arbitro regionale.
Ridefinire l’equilibrio regionale: Israele, Turchia e il vuoto iraniano
La “ridefinizione dei rapporti bilaterali” evocata da Sharaa riflette, più in profondità, la necessità di riposizionare la presenza russa in un Vicino Oriente che non è più quello del 2015. Il cambio di potere a Damasco e l’uscita progressiva dell’Iran dal teatro siriano hanno alterato la geografia dell’influenza. Con la caduta di Assad e la ritirata delle forze e delle milizie legate a Teheran, il quadro regionale si è semplificato ma anche reso più instabile: il vuoto lasciato dall’Iran ha aperto nuovi spazi di competizione tra Russia, Turchia e Israele.
La Turchia, forte della propria proiezione nel nord del Paese, conserva una presenza militare significativa nelle province di Idlib e Afrin, ma il suo approccio verso Damasco è ormai profondamente mutato. Ankara non considera più la Siria un avversario da contenere, bensì un interlocutore tattico con cui gestire la sicurezza di confine e la questione curda in chiave di stabilizzazione regionale.
Con il nuovo regime di al-Sharaa, la cooperazione turco-siriana si è trasformata in un equilibrio di necessità: la Turchia ottiene garanzie sul controllo delle aree curde e sulla prevenzione di nuovi flussi migratori, mentre Damasco beneficia di aperture economiche e di un canale politico utile a ridurre la propria dipendenza da Mosca. È una relazione di convenienza reciproca, in cui la sicurezza vale più dell’ideologia.
Israele, dopo la caduta di Assad e il ritiro iraniano, ha approfittato del vuoto di potere per spingersi oltre la linea del Golan, avanzando in territorio siriano e consolidando una fascia di sicurezza profonda decine di chilometri. L’operazione “White Green”, condotta tra la primavera e l’estate del 2025, ha visto le forze israeliane occupare postazioni strategiche e neutralizzare depositi militari senza incontrare una resistenza significativa. In questo quadro, Tel Aviv ha intensificato il coordinamento tacito con Mosca, interessata a evitare un’escalation diretta ma consapevole che la nuova realtà sul terreno è ormai un dato di fatto.
La Russia, da parte sua, ha tutto l’interesse a mantenere aperto un canale con Israele: non soltanto per preservare la stabilità di un confine cruciale, ma anche per rafforzare la propria immagine di potenza mediatrice, capace di gestire rapporti simultanei con attori fra loro ostili e di trarre vantaggio dall’equilibrio precario che ne deriva.
In questo scenario, Putin non abbandona la Siria ma ne ridefinisce la funzione. Damasco non è più un avamposto militare nel senso tradizionale, bensì una piattaforma di negoziazione regionale, uno spazio in cui la Russia coltiva rapporti simultanei con Ankara e Tel Aviv, gestendo l’equilibrio fra due potenze rivali e garantendo la sopravvivenza di Sharaa come interlocutore legittimo.
L’obiettivo non è più il controllo totale del territorio, ma la conservazione di un ruolo imprescindibile nel nuovo ordine vicinorientale. Così, Mosca passa dalla logica dell’intervento a quella della regolazione: non più l’impero, ma l’intermediazione.
Conclusione: la Russia post-ideologica
Chi continua a leggere le mosse di Mosca attraverso le categorie di “fedeltà”, “tradimento” o “causa” fraintende la natura del potere russo contemporaneo. La Russia di oggi non è più l’Unione Sovietica, non si muove per solidarietà ideologica né per sostenere un fronte comune. È un attore pragmatico che ragiona in termini di influenza, equilibrio e convenienza.
L’URSS si dissanguò per decenni nel tentativo di mantenere in vita regimi lontani e fragili — dall’Etiopia all’Angola, dal Mozambico all’Afghanistan — sottraendo risorse che avrebbero potuto essere investite nello sviluppo interno. Quella logica di “fratellanza socialista” è scomparsa.
In questa prospettiva, la Russia di Putin può essere definita una potenza transazionale: un attore che non costruisce alleanze durature, ma relazioni negoziabili, calibrate di volta in volta in base alla convenienza del momento. Non offre visioni del mondo, ma servizi geopolitici: mediazione, deterrenza, intervento mirato. È una potenza che vive di scambi — militari, energetici, diplomatici — e che misura la propria efficacia non sulla fedeltà degli alleati, ma sulla propria indispensabilità. In assenza di un’ideologia da esportare o di un blocco da guidare, la Russia contemporanea si afferma come arbitro dell’instabilità, capace di trasformare ogni crisi in opportunità e ogni isolamento in leva negoziale.
La Russia postideologica non esporta più ideali, ma stabilità negoziata; non cerca di guidare un blocco, ma di occupare spazi di influenza. In questa visione fredda e calcolata, non c’è posto per il linguaggio delle cause o della lealtà, ma solo per quello — antico e costante — della potenza.
NOTE
[1] Reuters, Putin, Syria’s Sharaa discuss fate of Russian military bases, 15 ottobre 2025, https://www.reuters.com/world/putin-syrias-sharaa-discuss-fate-russian-military-bases-wednesday-kremlin-says-2025-10-15/.
[2] Al Jazeera, Syria seeks to redefine Russia ties, al-Sharaa tells Putin in Moscow, 15 ottobre 2025, https://www.aljazeera.com/news/2025/10/15/syria-seeks-to-redefine-russia-ties-al-sharaa-tells-putin-in-moscow.
[3] Al-Monitor, Moscow and Damascus discuss redeployment of Russian police in southern Syria, ottobre 2025, https://www.al-monitor.com.
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