Gloria a colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio sacro (la Mecca) al Tempio più remoto (Gerusalemme) del quale Noi abbiamo benedetto il recinto, per mostrargli parte dei Nostri segni. Dio è colui che ode, Colui che vede”.
(Corano, Sura XVII , Al-Isra’)

 

Nel 1917 il futuro primo Presidente dell’entità sionista Chaim Weizmann, interrogato dal pensatore Arthur Ruppin riguardo i possibili rapporti degli immigrati ebraici con la popolazione nativa palestinese, rispose in modo seccato: “gli inglesi ci hanno assicurato che in Palestina ci sono solo qualche migliaio di kushim (negri) che non contano nulla”[1]. Più o meno nei medesimi anni, Leo Motzkin, esponente di spicco della delegazione sionista alla Conferenza di pace di Versailles  ritenuto dalla storiografia “occidentale” come “moderato” (sic!), ribadì a più riprese la necessità di proseguire nella colonizzazione della Palestina ricollocandone la popolazione ai confini della Eretz Israel: quella “Grande Israele” che, nella mente del padre fondatore del sionismo Theodor Herzl, avrebbe dovuto occupare il territorio compreso, secondo il verso del libro della Genesi (15, 18-21), “dal fiume d’Egitto al grande fiume, l’Eufrate”.

Quel qualche migliaio di “negri” in realtà erano all’incirca un milione e mezzo (tra cristiani e musulmani). E ancora oggi non si capisce per quale motivo avrebbero dovuto accettare un piano di spartizione ONU (risoluzione 181 del 29 novembre 1947) che intendeva consegnare oltre la metà della loro terra a 600.000 immigrati ebrei (che in quel momento occupavano il 6% del territorio palestinese). A chi si ostina a sostenere che la componente araba commise un errore nel non accettare il suddetto piano, basterà ricordare che i gruppi sionisti, già prima dell’inizio del conflitto del maggio 1948, oltre alla diffusione su vasta scala del terrorismo (strage di Deir Yassin dell’aprile 1948), avevano già approntato un piano (noto come Piano Dalet) per l’occupazione di territori che la risoluzione delle Nazioni Unite attribuiva agli Arabi[2].

A partire dalla creazione dell’entità sionista è stato portato avanti a tappe forzate un vero e proprio processo di rimozione/cancellazione della memoria storica del popolo palestinese e, dunque, della stessa storia della Palestina. Quando nel 1967 il sionismo occupò Gerusalemme, uno dei primi atti compiuti dall’amministrazione occupante fu quello di radere al suolo un intero quartiere della città vecchia per realizzare un piazzale di fronte al Muro occidentale (il cosiddetto “Muro del Pianto”). Ciò che spesso non viene ricordato è che tale spazio è considerato un luogo sacro anche dai musulmani. Qui, Buraq, la cavalcatura celeste di Muhammad, aveva il suo giaciglio nel momento in cui il “viaggio notturno” del Profeta dell’Islam assunse la direttrice dell’esaltazione. E qui musulmani ed ebrei avevano pregato insieme per secoli senza nessun particolare problema. Questo terreno apparteneva ad una fondazione religiosa islamica (waqf) facente capo ad una nobile famiglia palestinese. Ancora in epoca mandataria, il Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husseini, di fronte alle ripetute provocazione sioniste nell’area del Muro, fece pervenire all’amministrazione britannica una mole tale di documenti comprovanti l’effettiva proprietà islamica del luogo, che questa, nei cosiddetti White Papers, non poté far altro che riconoscere l’autorità della comunità palestinese[3] su di esso.

Nel 1982, durante l’operazione “Pace in Galilea”, uno dei principali obiettivi sionisti fu il Centro di Ricerche Palestinesi in Libano. Questo venne saccheggiato dalle forze sioniste, le quali distrussero oltre 25.000 manoscritti al preciso scopo di cancellare ogni prova e segno della storia palestinese precedente alla creazione di quello che oggi viene definito nei termini di “Stato ebraico”[4].

Il cosiddetto “accordo del secolo” propagandato dall’attuale amministrazione nordamericana rientra completamente in questo meccanismo. A prescindere dal fatto che un “accordo di pace” andrebbe stipulato tra due parti in conflitto e non esclusivamente tra due alleati (cosa che mette in evidenza  anche il fine ed il tempismo elettorale della dichiarazione trumpista)[5], l’idea fondante è quella di dare ai Palestinesi una sorta di compensazione economica (si parla di 50 miliardi di dollari) in cambio della totale rimozione della loro storia e del loro diritto sovrano alla propria terra[6]. Il presunto “Stato” della “Nuova Palestina” pensato dall’amministrazione Trump altro non è che un’enclave interna allo “Stato ebraico”, priva di qualsivoglia sovranità. L’obiettivo (non dichiarato) dell’accordo, lungi dall’essere la reale creazione di due Stati, è quello di spingere i Palestinesi verso i confini di Israele (magari in direzione della Giordania), secondo l’idea del sopracitato Motzkin. Di fatto, uno dei principali obiettivi sionisti è sempre stato quello di fare della Giordania lo “Stato dei Palestinesi” (preferibilmente in forma “repubblicana”). Obiettivo che, attualmente, sembra contrastare con la volontà del sovrano hashemita Abdullah II, che, al pari del presidente egiziano al-Sisi (da non dimenticare che Egitto e Giordania sono gli unici due Stati arabi che riconoscono ufficialmente Israele), ha fatto pervenire la sua contrarietà all’accordo. E non sarebbe affatto una sorpresa se in un futuro più o meno vicino il Regno, pur essendo un importante alleato degli Stati Uniti e pur avendo stabilito solidi rapporti commerciali col vicino sionista, venisse sottoposto ad una fase di profonda destabilizzazione (l’esperienza Mubarak in Egitto in questo caso insegna)[7].

Tale “accordo”, già rigettato dalla parte palestinese, potrebbe tuttavia avere una potenziale valenza  in termini geopolitici qualora preludesse all’apertura di canali diplomatici e commerciali (ufficiali) tra Israele e le monarchie del Golfo (gli ambasciatori di Bahrain, Oman ed Emirati Arabi Uniti erano presenti alla conferenza di presentazione del piano)[8]. In un precedente articolo pubblicato sul sito informatico di “Eurasia”, dal titolo La connessione indo-israeliana, si è fatto riferimento al progetto infrastrutturale israeliano del Trans-Arabian Corridor, che, partendo dal Mediterraneo orientale ed attraversando gli Stati arabi, dovrebbe aprire le porte dell’Oceano Indiano all’entità sionista.

Oltre che per le concessioni sul Golan, su Gerusalemme e sugli insediamenti coloniali in Cisgiordania, oltre che per il ritiro unilaterale dall’accordo nucleare con l’Iran e per l’assassinio di Qassem Soleymani, anche per questo motivo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua gratitudine Donald J. Trump, definendolo come il “miglior amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”.

Ad onor del vero, le amministrazioni precedenti non sono state affatto avare di doni nei confronti di Israele. Senza andare troppo indietro nel tempo, la stessa idea di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme venne presa inizialmente sotto l’amministrazione Clinton, ripensata da quella Obama, e portata a compimento sotto Trump. L’amministrazione Clinton fornì ad Israele oltre 10 miliardi di dollari di finanziamento per insediare in Palestina oltre un milione di immigrati ebrei dopo il crollo dell’Unione Sovietica[9]. Si tratta di una migrazione che prosegue ancora oggi a fasi alterne e che ha determinato la prevalenza della componente ashkenazita all’interno della società israeliana. Una migrazione, tra le altre cose, assai criticata da diversi rabbini che hanno accusato i nuovi arrivati di essere scarsamente inclini all’ebraismo. Tali critiche, a loro volta, hanno determinato la reazione rabbiosa dell’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman (un askenazita proveniente dalla Moldavia, la cui base elettorale è composta in larga parte proprio da immigrati russi) ed un vivace e reciproco scambio di accuse di antisemitismo tra le parti[10].

L’amministrazione Obama (giusto per sottolineare la sostanziale continuità con l’amministrazione attuale) ha contribuito in modo determinante a finanziare il sistema di difesa antimissilistico Iron Dome ed ha rafforzato il cosiddetto qualitative military edge israeliano fornendo a Tel Aviv armamenti tecnologicamente sempre più sofisticati. A ciò si aggiunga che la stessa amministrazione Obama, spingendo per il boicottaggio europeo del progetto di gasdotto russo SouthStream, ha di fatto aperto la strada al progetto (alternativo) EastMed, che, connettendo Israele, Cipro e Grecia, garantisce la commercializzazione in Europa del gas proveniente dai giacimenti al largo della Palestina occupata[11].

Ora, oltre al sopracitato fine propagandistico, è importante sottolineare che, in termini geopolitici, il cosiddetto “accordo del secolo”, dopo l’assassinio dell’uomo che più di ogni altro stava lavorando per la mediazione tra le parti e la stabilizzazione del Medio e Vicino Oriente, segna l’inizio di una nuova fase di destabilizzazione della regione. A questo proposito non sorprende più di tanto il tempismo con il quale il sedicente Stato Islamico (risorto anche a Deir Ezzour e nell’area di confine tra Siria ed Iraq), dopo sei anni e dopo essere stato largamente appoggiato da Tel Aviv[12] ha dichiarato di voler dare il via ad operazioni contro Israele[13].

L’obiettivo finale, dunque, oltre ad erodere su basi “culturali” (equiparazione di antisionismo ed antisemitismo) ogni forma di solidarietà extramediorientale alla causa palestinese, rimane quello di garantire che in nessun modo si sviluppino forme di cooperazione intra-arabe o arabo-persiane. In un discorso tenuto ad una riunione della Lega Araba nel 2004, Mu’ammar Gheddafi, sottolineando la complicità con i progetti “occidentali” di molti capi di governo dei Paesi arabi, dichiarò: “esiste un’agenda stilata dal popolo arabo e un’altra dai governi arabi”[14]. Un’affermazione che ricorda da vicino il titolo di un articolo scritto da Michel ‘Aflaq sulla rivista “Al-Ba’ath” nel 1946: “Gli Arabi non devono aspettare un miracolo. La Palestina non può essere salvata dai governi, ma dall’azione popolare[15].


NOTE

[1]    A. Colla, Cent’anni di improntitudine, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 1/2018. Il termine kushim indica il popolo biblico dei Cusciti, i quali devono il loro nome a Kush, figlio primogenito di Cam.

[2]    T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna 2015, p. 123.

[3]    S. Fabei, Una vita per la Palestina. Storia di Hajj Amin al-Husseini, Ugo Mursia Editore, Milano  2003, p. 59.

[4]    S. Fabei, Abû Ammâr Yâsir ‘Arafât, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 1/2005.

[5]    È risaputo che l’attuale amministrazione statunitense gode del supporto dell’ala oltranzista della lobby sionista nordamericana. Il magnate/filantropo di origine ebraica Sheldon Adelson (ritenuto essere, insieme al genero di Donald J. Trump Jared Kushner, l’ispiratore della politica mediorientale dell’attuale presidenza) nel 2016 versò oltre 25 milioni di dollari per finanziare la campagna elettorale dell’attuale Presidente USA.

[6]    Nello specifico il piano dovrebbe prevedere: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele; l’annessione ad Israele degli insediamenti sionisti in Cisgiordania; il blocco di nuovi insediamenti per i prossimi quattro anni nei territori assegnati alla “Nuova Palestina”; la scelta di un sobborgo di Gerusalemme Est come capitale del nuovo Stato palestinese.

[7]    Si veda Israel’s countdown to achieve the “alternative homeland in Jordan begins, www.middleeastmonitor.com.

[8]    Si veda Trump says Jerusalem will be Israel’s undivided capital as he unveils controversial plan, www.middleeasteye.net.

[9]    Il conflitto arabo-israeliano, ivi cit., p. 241.

[10]  È bene sottolineare a questo proposito che ogni equiparazione tra antisemitismo ed antisionismo è quanto meno fuorviante (per non dire ridicola). Premesso che gli stessi israeliani si accusano reciprocamente (a fasi alterne) di antisemitismo, è altresì bene ricordare che alcune comunità ebraiche ortodosse, presenti all’interno di Israele, non solo rifiutano di svolgere il servizio militare, ma, addirittura, negano la legittimità del presunto “Stato ebraico”.

[11]  È bene ricordare che nei piani statunitensi la presenza in pianta stabile dell’entità sionista nel Vicino Oriente è garanzia contro ogni velleità dei popoli rivieraschi del Mediterraneo alla riacquisizione della piena sovranità su quello che fu il Mare Nostrum.

[12]  Si veda IDF chief finally acknowledges that Israel supplied weapons to Syrian rebels, www.timesofisrael.com. A questo proposito è bene ricordare come l’ex Ministro della Difesa Moshe Yaalon abbia dichiarato di preferire l’ISIS ai propri confini piuttosto che l’Iran.

[13]  Si veda Islamic State vows to attack Israel and blasts US Mideast plan, www.militarytimes.com.

[14]  D. Vandevalle, Storia della Libia contemporanea, Salerno Editore 2007, p. 220.  

[15]  Si veda M. ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011. L’ideologo siriano del Ba’ath, tra le altre cose, insieme al citato Gran Muftì, fu uno dei primi ad accorgersi della natura “religiosa” dell’occupazione sionista. Infatti scrisse nel suddetto articolo: “La minaccia sionista non può essere ridotta ad un’invasione economica motivata da un appetito materialista, ma è soprattutto un’invasione religiosa che non ha eguali nella storia, tranne che nelle Crociate. Se gli arabi non attuano in se stessi un rinnovamento della fede e non manifestano questa fede mediante azioni efficaci e concrete, non potranno mai combattere con successo questa minaccia. È per questo che il fatto di appoggiarsi sulla politica che implica calcoli e prevaricazione agirebbe come un oppio spaventoso sullo spirito e sulla combattività del popolo e nasconderebbe agli arabi, con un fitto velo, il pericolo che li minaccia”.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).