L’Europa romana

 

“Fecisti patriam diversis gentibus unam”.

Rutilio Namaziano

 

Con la vittoria di Ottaviano ad Azio (31 a. C.) e la riduzione dell’Egitto a provincia romana, si configura per la prima volta l’unità politica dell’ecumene mediterranea e dell’Europa fino al Reno e al Danubio. “Ampliai i territori di tutte le province del popolo romano con le quali confinavano popolazioni che non obbedivano al nostro comando”[1]: così, in uno stile lapidario, Augusto riassume le linee di una politica che è stata definita di “contenimento dinamico”[2], in quanto il principato augusteo mirò essenzialmente a difendere e consolidare i confini dell’Impero, annettendo nuovi territori (Numidia 25 a. C.), creando nuove province (Galazia 25 a.C., Norico 16 a.C., Rezia 15 a.C., Giudea 6 d.C., Pannonia 9/10 d.C., Mesia 14 d.C.), riducendo l’Armenia a stato vassallo e stabilendo rapporti amichevoli coi Parti (20 a.C.), spostando il limes dal Reno all’Elba (12 a.C. – 6 a.C., ma solo fino al 9 d.C.), penetrando in Arabia (25/24 a.C.) e in Etiopia (23/22 a.C.). Per mezzo dei suoi legati, il princeps governava le province imperiali (Gallia, Spagna, Cilicia, Siria, Giudea), mentre a proconsoli appartenenti alla nobilitas venivano affidate le province senatorie (Sicilia, Macedonia, Acaia, Asia, Bitinia e Ponto), le quali non richiedevano la presenza di contingenti militari.

L’Impero conosce la massima estensione sotto Traiano (98-117), il quale, oltre a rafforzare il limes renano, riduce a provincia l’Arabia nordoccidentale e la Dacia (105-106) ed annette l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assiria (nel 117), raggiungendo così il Golfo Persico. La provincia più settentrionale è la Britannia, delimitata a nord dal Vallo di Adriano (122-127) e poi dal Vallo di Antonino (nel 142). Le province più meridionali sono quelle del Nordafrica: Mauretania, Numidia, Africa proconsolare e Cirenaica, Egitto. Questo edificio imperiale, il cui centro è Roma, ha un essenziale carattere mediterraneo. In questo modo “l’unità dell’Impero, benché greco ad Oriente e latino ad Occidente, abbraccia tutte le province. Il mare, in tutta la estensione del termine Mare nostrum, favorisce la diffusione di idee e di religione e facilita gli scambi commerciali. Le province del Nord, Belgio, Britannia, Germania, Rezia, Norico, Pannonia, non sono che posti avanzati contro la barbarie. La vita si concentra intorno alle rive del grande lago. (…) Verso di esso converge anche, per mezzo delle strade, il movimento di tutte le province”[3].

Ma se Roma ha unificato gran parte dell’Europa, l’Impero non esaurisce in Europa la sua estensione territoriale, poiché la centralità del Mediterraneo conferisce ad esso anche una dimensione eurasiatica e una dimensione eurafricana. “L’Impero – osserva Pirenne – non conosce né Asia, né Africa, né Europa. Se ci sono diverse civiltà, il fondo è lo stesso dappertutto. Medesimi usi, medesimi costumi, medesime religioni su queste coste, che conobbero un tempo civiltà così differenti come l’egiziana, la fenicia, la punica. In Oriente si concentra la navigazione. (…) Le stoffe preziose arrivano dall’Egitto (…) Vi sono dappertutto colonie siriache. Marsiglia è un porto per metà greco”[4].

Il comune ordinamento giuridico (accanto ad una molteplicità di diritti particolari)[5], la diffusione della lingua latina (accanto al greco ed alle lingue locali), la difesa militare delle frontiere, l’istituzione di colonie destinate a diventare centri di irradiamento dell’influsso romano nelle province confinarie, una moneta imperiale comune (accanto alle monete provinciali e municipali), un’articolata rete stradale, i trasferimenti di popolazione: furono questi i fondamenti concreti di una grandiosa unità imperiale che per oltre quattro secoli garantì la convivenza pacifica e la cooperazione di un’ampia comunità di popoli e gettò le basi per i successivi sviluppi della civiltà europea.

Il processo unitario culminò nel 212, quando la Constitutio Antoniniana de civitate emanata da Caracalla estese la cittadinanza romana praticamente a tutti gli uomini liberi dell’Impero. Tale provvedimento si inseriva in quella politica assolutistica ed accentratrice che, inaugurata da Settimio Severo, aveva soppresso i privilegi degli Italici rispetto alle province e aveva trasformato l’autorità imperiale in monarchia militare. Furono d’altronde le pressioni dei barbari sui confini e le prime invasioni barbariche a favorire l’usurpazione del potere politico da parte delle legioni, le quali dal 235 al 285 crearono arbitrariamente gli imperatori, finché Diocleziano (285-305) pose fine all’anarchia militare e ristabilì l’autorità del potere centrale.

Tale scopo fu conseguito mediante l’instaurazione di un meccanismo destinato a garantire la successione, la riorganizzazione della burocrazia e del fisco e la definizione della teocrazia imperiale, con la completa sacralizzazione della figura dell’imperatore. Con l’instaurazione della tetrarchia, in particolare, la sede di residenza di Diocleziano fu Nicomedia, sul Mar di Marmara, sicché il baricentro dell’Impero si spostò decisamente ad oriente.

In seguito, nel 330, Costantino trasferì la capitale sulle rive del Bosforo, in una posizione che consentiva di dominare gli stretti e di difendere i Balcani contro le tribù germaniche e le monarchie ad est dell’Eufrate. Inoltre, nel 313 Costantino aveva concesso la libertà di culto ai cristiani, inaugurando così una fase culturale che avrebbe posto un termine definitivo al mondo antico.

 

Due imperi per l’Europa

 

“L’Impero che si libra nuovamente sul mondo, dopo la notte di Natale dell’800, è un risultato tangibile dell’incontro e combinazione, sul terreno già preparato da Roma antica, di quegli elementi vari che costituiscono come la materia prima della futura storia d’Europa”.

Gioacchino Volpe

 

Quando nel 476 viene deposto Romolo Augustolo, l’Imperatore d’Oriente eredita le insegne della pars Occidentis e l’unità dell’Impero Romano è formalmente ricostituita. Insediato nella “seconda Roma”, l’Impero “istituzionalmente rappresenta e governa il mondo civile nella totalità della sua estensione geografica (e per questo Giustiniano intraprenderà la guerra gotica in Italia)”[6]. Abbattendo i regni dei Vandali e dei Goti e recuperando il controllo dell’Occidente, Giustiniano tentò di ricostituire la distrutta unità dell’Impero; e Costante II pensò di trasferire la propria residenza a Roma, per farne di nuovo il centro dell’orbe imperiale. In ogni caso, i basileis di Costantinopoli continuarono a rappresentare l’autorità politica su tutto il territorio dell’Impero Romano. “L’aspetto formale più evidente di tale continuità si ha nel permanente carattere ‘romano’ dell’imperatore di Costantinopoli (della politeia o basileia) quale risulta dai titoli e denominazioni ufficiali”[7].

D’altronde, il termine “bizantino”, coniato da alcuni storici cinquecenteschi, sarebbe entrato in circolazione solo molto più tardi, all’epoca dei Lumi. È stato infatti opportunamente osservato che l’escogitazione storiografica di tale termine, insieme con l’attribuzione di un rilievo cruciale alla data del 476, “quasi irrilevante per i contemporanei e sottolineata nell’età moderna dagli illuministi”[8], serve a “rompere la continuità tra Roma e Nuova Roma (Costantinopoli) e a contrapporre due tradizioni religiose, giuridiche, politiche e culturali. Cancellando la continuità romana dell’Impero d’Oriente come πολιτεία τῶν Ῥωμαίων”[9] e identificando l’Impero Romano con la sua sola parte occidentale, il “tacito accordo fra gli storici euro-americani”[10] tende ad imporre una visione occidentalista della storia.

Perciò, quando Carlo re dei Franchi venne incoronato a Roma con la corona imperiale e, deposto il titolo di patricius Romanorum, assunse quelli di Imperatore e di Augusto[11], la notizia suscitò a Costantinopoli un effetto traumatico: “La fondazione dell’impero di Carlo Magno ebbe nella sfera politica la stessa importanza che ebbe più tardi nella sfera religiosa lo scisma. Per il mondo di allora era un assioma che potesse esistere un solo impero, come anche una sola Chiesa cristiana (…) Conscia dei propri interessi imperiali, Bisanzio non poteva che considerare un’usurpazione l’incoronazione imperiale di Carlo Magno”[12]. I sovrani di Costantinopoli, infatti, si rifiuteranno di riconoscere ai successori di Carlo Magno il titolo imperiale; e ancora Solimano il Magnifico, continuando la loro politica nei confronti del Sacro Romano Impero, negherà il riconoscimento di tale titolo a Carlo V[13].

In ogni caso, le aspirazioni del nuovo imperatore d’Occidente si rivolsero anche verso l’Oriente, quanto meno nel periodo in cui il trono di Costantinopoli era considerato vacante, perché Costantino VI era stato deposto e al legittimo basileus era subentrata la vedova; Carlo pensava infatti che un suo matrimonio con Irene (797-802) avrebbe ricostituito l’unità dell’Impero. Ma i sentimenti di diffidenza e di ostilità che Costantinopoli nutriva nei confronti dell’Europa romano-germanica impedirono che il progetto si realizzasse, per cui Irene fu ben presto sostituita con Niceforo I (802-811) e i due Imperi giunsero ad una definizione dei rispettivi spazi geopolitici: Zara, sulla costa dalmata, segnò il confine tra l’Impero Romano d’Oriente e l’Impero d’Occidente.

Quest’ultimo fu dunque una struttura nuova, che affermò l’autonomia dell’Europa occidentale e la indirizzò verso uno sviluppo suo proprio. Sotto il profilo geografico, si trattò di un impero europeo nordico, privo della dimensione mediterranea: ancor prima di concludere le sue campagne contro Sassoni, Avari e Saraceni, Carlo re dei Franchi governava tutta la cristianità occidentale, fatta eccezione per le isole britanniche, ed estendeva il suo potere su un’area di circa un milione di chilometri quadrati, dal Mare del Nord all’Adriatico, dall’Ebro all’Elba. Era un mosaico di popoli gelosi delle loro identità etniche e culturali, nei confronti delle quali Carlo manifestò il massimo rispetto possibile, quanto meno finché tali identità non fossero incompatibili col fondamentale carattere cristiano dell’impero.

Allo scopo di mantenere e rafforzare la coesione di un edificio imperiale così vasto e composito, Carlo fece ricorso all’ordinamento vassallatico e sollecitò l’appoggio del clero. Dalle concessioni di terre ai guerrieri ebbero origine le contee, alcune centinaia di circoscrizioni affidate ad altrettanti conti, mentre più estese erano le marche, situate nelle zone confinarie. Il vincolo tra il centro e la periferia era costituito dai missi dominici (vescovi e conti) direttamente nominati da Carlo e a lui legati da rapporti di vassallaggio. Introducendo il nuovo ordinamento, Carlo non annullò la realtà precedente: “pur sostituendo gli antichi duchi autoctoni con conti franchi, non distrusse i ducati e non mostrò neppure ostilità contro il regionalismo che aveva portato gli uomini ad interessarsi in modo profittevole alla loro vita locale. (…) Le province che componevano l’impero di Carlo non erano semplici divisioni di uno Stato perfettamente omogeneo. Esse avevano un’individualità propria ch’egli aveva loro riconosciuta. L’Italia longobarda o romana, l’Aquitania gallo-romana, la Neustria e l’Austrasia franche, la Sassonia e la Boemia tedesche, tutte avevano le loro tradizioni, le loro leggi, la loro nazionalità che Carlo non osteggiò mai. Per tutta l’amministrazione interna franca esse apparivano come Stati autonomi: legame comune era il giuramento che prestavano all’imperatore franco”[14].

Chiedendosi se una tale struttura possa esser detta unitaria, alcuni storici sono giunti ad una conclusione negativa. “Qui è il problema storico più importante: se l’Impero avesse dato unità politica all’Europa, avrebbe avuto la funzione più positiva che papa o imperatore potesse assegnargli. Ma l’Impero non ebbe forza unitaria. Il Ranke ne ha trovato la causa nel prorompere delle nazionalità; anzi si potrebbe dire che ciò che caratterizza l’Impero in confronto alle altre forme di stati è proprio il suo carattere di plurinazionalità. L’incapacità unitaria dell’Impero carolingio è da ricercare nelle ragioni già esaminate: pluralità di contee e marche che tendono all’indipendenza non in virtù di una spinta nazionale, ma per mero impulso di potenza; nella composizione della classe dirigente terriera, guerriera, ecclesiastica, tutta intenta a divorare lo Stato; nella rarefazione dei soldati, per la decadenza demografica, e quindi la necessità di eserciti locali, che sono una negazione del principale movente dell’unità carolingia, la comune difesa europea”[15].

In effetti, la solidarietà delle varie parti dell’Impero carolingio si basava sui vincoli di sangue che univano l’imperatore ai sovrani a lui subordinati, nonché al giuramento di fedeltà con cui questi sovrani si legavano all’imperatore. Mentre Carlo Magno reggeva l’Austrasia, suo figlio Carlo era re della Neustria, Pipino regnava sui Longobardi e Ludovico il Pio reggeva le sorti dell’Aquitania e della Marca di Spagna. Divenuto imperatore, Ludovico il Pio stabilì (con l’Ordinatio imperii dell’817) che dei suoi tre figli Lotario avrebbe ereditato il trono imperiale, mentre a Pipino sarebbe toccato il governo della parte occidentale e a Ludovico il Germanico la parte orientale. Così l’impero carolingio non sopravvisse più di un trentennio al suo fondatore: nell’843 i figli di Ludovico il Pio siglarono a Verdun un accordo in base al quale Lotario, pur mantenendo il titolo di imperatore, teneva per sé la striscia territoriale che dalla Frisia arrivava all’Italia centrale, mentre a Carlo il Calvo andavano l’Aquitania e la Guascogna e a Ludovico il Germanico i territori tedeschi compresi fra il Reno, l’Elba e le Alpi.

In seguito, nei secoli XII e XII, si disse che l’Impero, trasmesso dai Romani a Greci, era passato dai Greci ai Franchi. In realtà, mentre il trasferimento dell’autorità imperiale da Roma alla Seconda Roma era avvenuto senza nessuna interruzione, Carlo Magno e i suoi successori non potevano rivendicare una reale continuità storica nella linea di successione proveniente da Augusto, ma potevano soltanto reclamare una continuità teorica. Fallito il ricorso di Ottone il Grande ad una politica matrimoniale intesa ad ottenere da parte di Costantinopoli il riconoscimento dell’Impero d’Occidente, Ottone III perseguì il disegno di una renovatio che, sotto il profilo geografico, avrebbe limitato il potere di Roma, benché proclamata caput mundi et urbium domina, al territorio chiamato imperium Romanum: Italia, Germania, Borgogna, Schiavonia.

 

L’Europa mediterranea

 

“Federico II non ha mai fatto della politica estera (…), perché per lui c’era un solo Imperium Romanum (…), una Europa imperialis”.

Ernst Kantorowicz

 

Con Federico II di Svevia il baricentro dell’Impero si sposta sul Mediterraneo. Il regnum Italiae sottoposto alla diretta sovranità di Federico coincideva all’incirca con quei territori della penisola che, arrivando a comprendere Emilia e Toscana, confinavano a est e a sud-est col cosiddetto Patrimonio di San Pietro; coincideva cioè, il regnum Italiae, con quel regno longobardo che nel 774 era passato sotto i Franchi e che nel 952 era stato aggregato, da Ottone I, ai territori germanici. Quanto al regnum Siciliae, che dai confini meridionali del Patrimonio di San Pietro si estendeva fino alla Sicilia propriamente detta, Federico II cercò di unirlo al regnum Italiae, tentando di realizzare quella che Franco Cardini chiama “una politica di personale Anschluss” tra questi due regni, dei quali egli cingeva ambedue le corone. Inoltre, nel 1229 l’imperatore estese la sua autorità effettiva su Gerusalemme e altri luoghi della Palestina. L’Impero federiciano sembrava dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea che aveva caratterizzato le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno. In quanto sovrano dei regni di Sicilia e di Gerusalemme in un’epoca in cui l’Impero bizantino era crollato sotto i colpi della IV Crociata e i poli politici del Mediterraneo erano il Califfato di Baghdad e il Sultanato d’Egitto, Federico II fu araldo di una politica di pace e di convivenza, mediatore fra culture e fedi religiose diverse, interprete di una realtà che aveva il suo centro nel Mediterraneo.

Dunque, se il Regno di Germania era un’immagine dell’Impero in quanto, dalle Fiandre alla Pomerania e dalla Borgogna e dal Regno di Arles fino a Vienna, esso offriva lo spettacolo di una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell’Impero federiciano presentava un quadro di differenze molto più profonde di quelle che caratterizzavano il panorama germanico.

Per quanto concerne il panorama etnico, nell’Italia meridionale e insulare troviamo popolazioni di origine latina, greca, longobarda, araba, berbera, normanna, sveva, ebraica. La situazione linguistica è ben rappresentata da quella celebre miniatura che si trova nel Cod. Bern 120[16]: le immagini dei notarii Greci, notarii Saraceni, notarii Latini ci rappresentano il trilinguismo della cancelleria imperiale. Lo stesso Federico II, d’altronde, oltre a parlare latino, greco, tedesco, arabo e provenzale, scrisse poesie in italiano, recando un contributo personale alla nascita della letteratura italiana, mentre suo padre Enrico e suo figlio Corradino poetarono in lingua tedesca.

Dal punto di vista religioso, nell’Impero di Federico II convivevano con quella cattolica anche altre confessioni, in particolare quella islamica. L’Islam non era una realtà estranea all’Impero: consistenti comunità musulmane vivevano infatti su alcuni dei territori soggetti all’autorità imperiale: non solo nel regno di Gerusalemme, ma anche in alcune zone dell’Italia meridionale, dove l’Islam era ormai presente da quattro secoli; nella stessa corte di Palermo c’era un gruppo di arabi che svolgeva attività amministrativa ed esclusivamente di musulmani era costituita la guardia del corpo di Federico. Federico II Hohenstaufen, è stato detto da un suo biografo, “riuniva in sé i caratteri dei diversi sovrani della terra; era il più grande principe tedesco, l’imperatore latino, il re normanno, il basileus, il sultano”[17]. Ma è appunto quest’ultimo carattere a far risaltare quanto vi è di specifico nella sua idea imperiale: l’aspirazione all’unità di autorità spirituale e di potere temporale.  E proprio questa sua qualità di “sultano” ha indotto Ernst Kantorowicz ad affermare che “il coranico Re dei re, più che il Dio cristiano, (lo) aveva esaltato miracolosamente sopra tutti i prìncipi della terra”[18].

Lungi dall’essere identificabile come una forma di dispotismo illuminato ante litteram, “l’assolutismo di Federico II era un assolutismo teocratico, attuato con criteri funzionali quanto si voglia, per quel che concerne l’amministrazione, ma di carattere prevalentemente orientale per quel che riguarda la sua prima ispirazione. A questo proposito è significativa l’invidia che egli portava ai sovrani orientali che dominavano senza contrasto nei loro Stati, senza l’incomodo controllo del potere sacerdotale. E difatti lo Stato maomettano era essenzialmente uno Stato assoluto teocratico senza sacerdozio quale, senza dubbio, vagheggiava anche Federico II, non del tutto a torto detto dai suoi nemici ‘sultano battezzato’”[19]. Nella concezione federiciana è evidente, secondo Antonino de Stefano, “l’influsso dell’Oriente che tende a divinizzare la persona del sovrano e a cui nessun conquistatore occidentale, da Alessandro Magno in poi, poté sottrarsi. Questo elemento orientale interviene a colorire la concezione imperiale di Federico, ma esso non è però così preponderante da tradursi in una divinizzazione della persona di Federico II”, sicché “bisogna escludere dalla mente di Federico ogni elemento idolatrico, (ma) non è men vero che egli si sente di essere più che ogni altro principe vicino al Signore, come il più alto e immediato esecutore della divina volontà”[20]. Data questa concezione radicalmente religiosa del potere e data la necessità di superare quella dicotomia tra autorità spirituale e potere temporale che tendeva sempre più a diventare antagonismo tra Papato ed Impero, Federico II non poteva non guardare, come ad un modello ideale, all’istituzione del Califfato.

 

Austriae Est Imperare Orbi Universo

 

“Il più grande imperatore che la Cristianità abbia veduto dopo Carlo Magno”.

Niccolò Tiepolo

 

Dopo il 1453, in seguito alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, l’Impero d’Oriente generò due nuove e distinte forme imperiali che ne avrebbero condiviso l’eredità[21]. Mentre “l’Impero Romano greco e cristiano cadeva per risorgere nella forma di un Impero Romano turco e musulmano”[22], generando così “l’ultima ipostasi di Roma”[23], Mosca si avviava a diventare la “terza Roma”: essa “fonda ora un proprio patriarcato sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium – come una propria forma di Europa (…) Questo spostamento verso nord dell’Europa bizantina portò con sé il fatto che ora anche i confini del continente si misero in movimento ampiamente verso oriente”[24], fino a realizzare, giungendo sul Mar del Giappone, una dimensione eurasiatica.

Nell’Europa centrale e occidentale, il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica risentì l’effetto della nascita dei primi Stati nazionali. Ma il corso degli eventi sembrò cambiare con Carlo V, quando l’Impero fondato da Carlo Magno si liberò di quell’aspetto strettamente germanico che lo aveva connotato dal XIV al XV secolo per recuperare l’originario carattere “romano”, ossia quel carattere sovranazionale che esso avrebbe poi mantenuto nei secoli successivi, fino al tramonto della Monarchia asburgica.

Era stata infatti la famiglia degli Asburgo ad accedere al trono imperiale nel 1273, allorché Rodolfo IV d’Asburgo era diventato imperatore col nome di Rodolfo I, dando poi a suo figlio Alberto I il ducato d’Austria. Da allora la famiglia degli Asburgo, indicata anche come Casa d’Austria, legò la sua sorte al trono imperiale: dal 1347, in particolare, la corona imperiale rimase costantemente legata alla Casa d’Austria.

Nel 1516 Carlo d’Asburgo succedette all’avo materno Ferdinando II d’Aragona come sovrano di Spagna, dei domini spagnoli nel Mediterraneo (Napoli, Sicilia, Sardegna) e dei possessi nel Nuovo Mondo. Tre anni più tardi, Carlo subentrò come Carlo V all’imperatore Massimiliano, suo avo paterno, ereditando i domini aviti della Casa d’Austria, nonché il ducato di Borgogna e le Fiandre. “Ai suoi possedimenti ereditari Carlo V unì, in maniera ora solo episodica ora così solida e duratura da acquisire una fedeltà ultrasecolare, Genova e Milano, Firenze e Siena, la Savoia e il Piemonte, Tunisi, il Württenberg, la Gheldria e la Navarra. Senza contare le corone di Boemia, Moravia e Ungheria, acquisite dal fratello Ferdinando e destinate a rimanere patrimonio della famiglia Asburgo fino alla Prima guerra mondiale”[25].

Il progetto di restaurazione dell’autorità imperiale non prevedeva soltanto il recupero dei territori che la Francia teneva in proprio possesso, ma anche l’attenuazione delle tendenze particolaristiche che minacciavano l’unità dell’Impero e la creazione di un fronte cristiano occidentale contro la potenza ottomana. Forza motrice dell’azione di Carlo V era infatti una “alta concezione della carica imperiale come suprema dignità sovrana della Cristianità, indissolubilmente legata all’idea della Casa”[26]; ma la Cristianità occidentale doveva subire in quegli anni un danno irreparabile, poiché in gran parte d’Europa si diffondeva il protestantesimo: la rottura dell’unità politica europea, dovuta al processo di formazione degli Stati nazionali, si aggravava così ulteriormente.

Carlo V, secondo il giudizio di un suo celebre biografo, fu “il campione di quella vecchia idea europea che appare oggi modernissima”[27]. Per altri, quello di Carlo V fu “un sogno unitario anacronistico”[28]. Un fatto comunque è certo: “Per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento ci fu in Europa una realtà politica imponente e del tutto maggioritaria, che diede il tono agli avvenimenti che si succedettero (…) la Monarchia fu la manifestazione storica di una forza centripeta che tese a unificare i vari regni nei quali la cristianità si era divisa nel corso del medioevo; la sua capacità di aggregazione, d’affermazione e poi di tenuta lascia ipotizzare l’esistenza di possibilità per la storia europea diverse rispetto a quelle che si sono concretizzate. (…) Finché quel complesso è esistito e ha trionfato o è comunque sopravvissuto (…) il nazionalismo non ha comunque trovato il terreno adatto nel quale piantare le proprie radici”[29].

Dopo Carlo V l’Impero si ridusse di nuovo ad una realtà locale; a partire dalla pace di Westfalia del 1648 esso fu sempre più considerato come una semplice confederazione di stati territoriali.

 

L’Empereur

 

“Se siamo così pazzi da non fare l’Europa attraverso l’accordo pacifico e generale, essa ci sarà imposta attraverso la via      imperiale, quella di Napoleone, il quale se non altro ha avuto il merito di concepire l’Europa come una unità politica”.

Friedrich Nietzsche

 

Il 18 maggio 1804 nasceva in Europa un nuovo Impero: il Primo Console della Repubblica Francese assumeva il nome di Napoleone I e il titolo di Imperatore dei Francesi. “Il primo console (…) accarezzava piuttosto l’idea di Alessandro (…) Sarebbe stato l’impero di Carlo V, sul quale il sole non tramontava mai, retto da Parigi malgrado Colombo e Filippo II e ora organizzato come una unità non più chiesastico-cavalleresca bensì economico-militare”[30].

Il 2 dicembre, la solenne incoronazione del novello Cesare nella cattedrale di Parigi riattualizzava l’analogo rito officiato a Roma nel dicembre di mille anni prima.  “Posandosi sulla fronte la corona imperiale, – scrive un aristocratico difensore dell’idea d’Impero – Napoleone aveva pronunciato le parole storiche: ‘Dio me l’ha data, guai a chi la tocca’. (…) In tutto ciò v’era sentore della tradizione di Carlomagno e degli altri Imperatori del Sacro Romano Impero, ma con più orgoglio: mentre essi si erano recati a Roma, Napoleone volle che Roma venisse a lui. Ad ogni modo, questa non era di certo la tradizione di Robespierre. (…) Egli aveva cercato di posare da erede di Carlomagno, non della Rivoluzione francese”[31]. Il giacobino era diventato imperatore. “Il romanzo della rivoluzione” (così Napoleone definì il periodo dell’utopia e delle astrazioni confusionarie) cedeva ormai alla storia e alla realizzazione di “quel che c’è di reale e di possibile”[32].

L’Empereur celebrò il primo anniversario della sua incoronazione sconfiggendo ad Austerlitz non solo lo Zar erede di Gengis Khan, ma anche il successore di Ottone il Grande. Con la pace di Presburgo, Francesco II dovette rinunciare alla dignità di Sacro Romano Imperatore, che le conquiste napoleoniche avevano svuotata d’ogni contenuto concreto, e dovette accontentarsi di diventare Francesco I Imperatore d’Austria. Con 65.000 chilometri quadrati di territorio e tre milioni di sudditi in meno, l’Austria perdeva l’egemonia sulla Germania e sull’Italia: centoventi staterelli tedeschi venivano unificati in una Confederazione del Reno sotto la tutela di Napoleone, il Tirolo passava alla Baviera filofrancese e altri territori tedeschi erano assegnati ai duchi del Baden e del Württenberg, alleati della Francia, mentre il Veneto, l’Istria e la Dalmazia venivano annessi al Regno Italico. La ricomposizione dello spazio renano avrebbe facilitato la formazione dello Stato tedesco, ma intanto l’umiliazione inflitta dalla Germania dava impulso a quel sentimento nazionale che nel 1813 avrebbe dato luogo alla sconfitta napoleonica di Lipsia. Per il momento, comunque, la pace di Presburgo offriva all’Empereur la possibilità di raccogliere l’eredità dell’Impero carolingio. “Cosa aleggia davanti alla sua mente? L’Europa: una lega di Stati guidati dalla Francia (…) Qui, dopo Austerlitz, la nuova idea assume forme definite; d’ora in poi è in poter suo raggiungere la più alta meta d’un europeo: riunire l’Europa (…) Ora ridiventava possibile unire la risorta Europa di Carlo Magno”[33].

Dopo che Napoleone ebbe sopraffatto a Jena l’esercito prussiano e fu entrato trionfalmente a Berlino, le vittorie di Eylau e di Friedland dischiusero davanti a lui una nuova prospettiva: la conquista dello spazio russo. Il 25 giugno 1807, quando stipulò con lo Zar la pace di Tilsit (un Patto Ribbentrop-Molotov avant la lettre!) e sottrasse alla Prussia i territori che andarono a formare due nuovi stati satelliti (il Regno di Westfalia e il Granducato di Varsavia), Napoleone era il padrone d’Europa. L’Impero napoleonico “è l’impero di Carlo Magno, per l’estensione, i confini, le marche, la varietà delle componenti, lo strano caos delle nazioni e delle tribù, l’autorità suprema dell’imperatore, la distribuzione dei territori ad una gerarchia di vassalli, i luogotenenti promossi al rango di re, i re di un tempo diventati luogotenenti, la confusione delle grandi dignità di corte e dei grandi funzionari dello Stato e, sullo sfondo, l’immensa riserva umana: l’impero d’Oriente, la Russia, il mondo greco-slavo”[34].

Si profilava un sistema continentale che avrebbe subordinato a sé tutta l’Europa, compresa l’Inghilterra. Col blocco continentale del 1806, unificando lo spazio economico europeo in un mercato ostile al commercio inglese, Napoleone si era proposto di soffocare la talassocrazia britannica[35]; quest’ultima privava l’impero napoleonico di quella dimensione mediterranea che il generale Bonaparte aveva cercato di realizzare con la spedizione in Egitto del 1798, quando, assunto il nome islamico di Alì e incoraggiati i suoi generali a convertirsi all’Islam, aveva governato assieme al consiglio degli ulema del Cairo e aveva emanato decreti conformi alla Sciarìa, progettando di far “rinascere l’epoca gloriosa dei Fatimidi”[36].

Nel 1808 i fratelli di Napoleone regnano in Spagna, Olanda, Westfalia; suo cognato Gioacchino Murat è re di Napoli; il suo figliastro è viceré a Milano; la Germania è sottomessa fino alla Vistola; Toscana e Stato Pontificio vengono incorporati alla Francia. Nel 1809, col Trattato di Schönbrunn, l’Austria cede Salisburgo alla Baviera filofrancese; Carniola, Corinzia e Trieste passano alle province illiriche direttamente governate dalla Francia.

Nel 1810 la fortuna di Napoleone sembra culminare. Le nozze con Maria Luigia d’Asburgo, oltre a consacrare la sottomissione dell’Austria, danno a Napoleone il sospirato erede. Ma “non era certo un sogno rivoluzionario, democratico e nazionalista quello che il nuovo Cesare nutriva per suo figlio, al quale, intanto, aveva dato il titolo medievale e, in un certo modo, imperialmente internazionale di Re di Roma. Il Re di Roma suppone un imperatore romano – un imperatore romano francese, se si vuole, come prima era stato tedesco, ma pur tuttavia un imperatore, di cui il Papa sarebbe stato l’elemosiniere, i re i grandi vassalli e i principi i vassalli di questi vassalli. Un sistema feudale, insomma, col vertice della piramide che era mancato alla pienezza del Medioevo”[37].

L’Impero napoleonico era un insieme di territori tenuti insieme dalla potenza e dalla presenza militare dei Francesi. In Italia, in Germania, in Svizzera e in Olanda non mancava una classe politica fautrice del nuovo ordine imperiale e disposta a costituirne i quadri; ma l’Empereur preferiva che fossero i suoi diretti fiduciari a guidare i paesi annessi o associati. “Per Napoleone, l’Europa continentale offre dappertutto uno spazio identico. Egli scrive a Cretet, ministro degli Interni, che quello che va bene per la Senna Inferiore va bene anche per Parma. Parigi, Amburgo o Roma: ai suoi occhi, le differenze sono poco sensibili. Nel suo spirito, l’Europa è già fatta. Ma sotto il suo dominio”[38].

Il progetto di un’Europa unita è espresso nettamente in questo discorso, che Napoleone fece a Fouché: “Abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di cassazione europea, di un sistema monetario unico, di pesi e misure uguali. Voglio fare di tutti i popoli un unico popolo. Ecco, signor duca, l’unica soluzione che mi piace”. Ancora a Sant’Elena, il 24 agosto 1816, diceva al conte Las Cases: “In Europa si contano più di 30 milioni di Francesi, 15 di Spagnoli, 15 di Italiani, 30 di Tedeschi. Di ciascuno di questi popoli io avrei voluto fare un unico grande corpo nazionale. Si sarebbero avute così le maggiori probabilità di attuare ovunque l’unità dei codici, dei princìpi, delle idee e dei sentimenti, degli atteggiamenti e degli interessi. Allora sarebbe stato possibile sognare per la grande famiglia europea una federazione come quella degli Stati Uniti o un’anfizionia come nell’antica Grecia. Quali prospettive di forza, di grandezza, di prosperità! L’Europa sarebbe divenuta di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune. Tale unione dovrà venire un giorno per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato e dopo il crollo del mio sistema io credo che non sarà possibile altro equilibrio in Europa, se non la lega dei popoli”[39].

 

L’Anschluss europeo

 

“Nel 1940 la Germania non ha capito il proprio compito, l’ha solo presentito oscuramente: ha pronunciato la parola Europa senza mettervi niente di più di un vago fremito istintivo. (…) La Germania ha avuto paura di cessare d’essere sé stessa per divenire l’Europa”.

Pierre Drieu La Rochelle

 

Napoleone, disse Adolf Hitler il 26 febbraio 1945, aveva perfettamente capito che la costruzione dell’unità europea può avvenire solo per imposizione, non certo per un processo spontaneo: “Io sono stato l’ultima speranza dell’Europa. L’Europa non poteva essere unificata per effetto di una riforma volontariamente concertata. Non poteva venire conquistata con il fascino e con la persuasione. Per poterla prendere bisognava violentarla. L’Europa può essere costruita soltanto su rovine. Non su rovine materiali, ma sulla rovina congiunta degli interessi privati, delle coalizioni economiche, sulla rovina delle idee ristrette, dei particolarismi superati e dello stupido spirito di campanile. Bisogna fare l’Europa nell’interesse di tutti e senza risparmiare nessuno. Napoleone lo aveva compreso perfettamente”[40].

Nel giugno del 1940 un europeista radicale come Drieu La Rochelle poteva nutrire la speranza che il Reich germanico gettasse le basi di un Impero europeo: “L’Europa insorge contro le patrie e le divora. La Germania stessa, diventando imperiale, smetterà di essere una patria di sangue e di carne: darà fondo agli ultimi resti del suo sangue per nutrire un’amministrazione ecumenica”[41]. Ma nei due anni successivi Drieu constatava che Hitler si era “comportato da stupido come Napoleone”[42], nonostante l’Europa fosse ormai “matura per l’unità”[43]. Infatti Hitler, annotava lo scrittore francese nel Natale 1942, “ha fatto gli stessi sbagli di Napoleone (…) Non è riuscito a risolvere la questione spagnola: nel 1940 avrebbe dovuto inseguire i Francesi attraverso la Spagna, prendere Gibilterra, chiudere il Mediterraneo, mettere l’Africa in mano spagnola e italiana. Dopo ha esitato fra socialismo e capitalismo, fra i popoli e i sovrani. Avrebbe dovuto conquistare tutto, Spagna e Italia comprese, per distruggere la Chiesa e la monarchia – abolire le frontiere, istituire lo Zollverein, aprire dovunque sezioni del socialismo europeo. Ma per fare questo doveva distruggere la Reichswehr! Dopo, con un’ideologia e un vero esercito europeo, avrebbe potuto attaccare la Russia. È solo un timido precursore. Non doveva dimenticare la Svizzera e la Svezia, focolai di liberalismo, che fra l’altro alimentano i sogni dei liberali”[44].

Le aspettative nutrite da Drieu erano largamente diffuse nella variegata nebulosa eurofascista che politicamente e militarmente affiancò il Reich nella guerra mondiale. I volontari della SS-Sturmbrigade francese, interrogati dai funzionari tedeschi circa il movente che li aveva spinti ad arruolarsi, rispondevano puntualmente: “L’Europa”[45]. Nelle sue memorie, il generale belga Léon Degrelle ha scritto che Hitler poteva essere “l’edificatore risolutivo di una Europa fallita già varie volte prima di lui”[46], sicché i legionari valloni erano partiti per il fronte dell’Est non tanto per combattere il comunismo, quanto per imporre ai Tedeschi una solidarietà europea, “edificando con loro un’Europa che anche il nostro sangue avrebbe cementato”[47]. Scrive inoltre Degrelle: “Noi Waffen SS del fronte possedevamo una fede e una unità politica che avevano troncato completamente le ramificazioni del vecchio e gretto nazionalismo, che avevano a tutti aperto le frontiere d’Europa, sviluppando una concezione nuova del mondo. Questo milione di Waffen SS doveva necessariamente comporre dopo la vittoria l’armatura della nuova Europa. Esse si accingevano a costituire la forza, il potere, lo spirito politico, la volontà dell’Europa unificata”[48].

Spesso il movente europeista, specialmente nel caso dei Francesi, dei Belgi seguaci di Henri de Man[49] e delle Croci Frecciate ungheresi, era strettamente unito al “desiderio di realizzare in un quadro complessivo europeo un socialismo non dogmatico”[50]: nel 1941 Saint-Loup si dice persuaso che “il nazionalsocialismo finalmente conduce l’Europa sulla via del socialismo”[51], mentre Christian de la Mazière prevede “un mondo nuovo in cui l’Europa sia il bastione del socialismo”[52].

Questi ideali, però, non sembravano inizialmente condivisi dalla Germania nazionalsocialista. Dopo i successi del 1940, “invece di offrire ai popoli sottomessi la prospettiva di un’Europa unita, il Terzo Reich si dimostrò una potenza imperialistica centralizzata che non aspirava ad ottenere la fiducia dei vinti ma che mirava ad erigere una grande formazione territoriale germanica a spese dei paesi sconfitti”[53].

Il fatto è che il nazionalsocialismo tedesco approdò a una visione europea quando ormai era troppo tardi, per effetto di una maturazione che risultò troppo lenta rispetto all’incalzare degli eventi: “la posizione del Nazionalsocialismo si evolve attraverso i tre stadi seguenti: stadio pantedesco (riunione dei Tedeschi dell’Austria e dei Sudeti nel Reich); stadio pangermanico (sincronizzazione di Danesi, Norvegesi, Olandesi e Fiamminghi col Reich); stadio europeo (egemonia del Reich sull’Europa come il Sacro Romano Impero di Nazione Germanica nel Medioevo)”[54].

Il pregiudizio antislavo, che condizionò il pensiero di Hitler al punto da indurlo a ricercare l’alleanza con quell’Inghilterra che per molti nazionalsocialisti era il principale “avversario del continente europeo”[55], non era compatibile con la prospettiva di un’Europa in cui tutte le componenti etniche avessero pari dignità. Le gravi insufficienze della politica europea del Reich, e in particolare la posizione tenuta nei confronti degli Slavi, erano dunque inscritte negli stessi presupposti ideologici dell’hitlerismo. All’interno del nazionalsocialismo erano sì presenti indirizzi che, come quello rappresentato da Haushofer e da Ribbentrop, non desideravano lo scontro coi vicini orientali ed anzi caldeggiavano il Kontinentalblock; tuttavia la scelta dettata dall’ideologia razzista prevalse sulla visione geopolitica. E fu l’Operazione Barbarossa.

 

Il blocco eurosovietico

 

“Possiamo prevedere che l’alta velocità dei sistemi di trasporto porterà inevitabilmente all’unificazione dell’Europa. Se Hitler ha fallito, Stalin può riuscirci; se neanche Stalin ci riesce, allora ci riuscirà qualcun altro nel giro di uno o due secoli”.

Arthur Koestler

 

Al termine del secondo conflitto mondiale, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, potenza eurasiatica che dal Baltico e dal Mar Nero si estende fino allo stretto di Bering e dal Mar Glaciale Artico all’Asia centrale, subentra al Terzo Reich nel ruolo di principale potenza europea. “Potenze”, infatti, non saranno più né l’Inghilterra, né la Francia, né tanto meno altri paesi europei: le dimensioni dei vecchi Stati nazionali sono inferiori a quelle che nella nuova epoca storica sono necessarie perché uno Stato sia soggetto politico, anziché oggetto della volontà altrui. D’altronde gli Stati dell’Europa occidentale sono praticamente diventati paesi satelliti di Washington.

In Europa, la zona d’influenza dell’URSS comprende i paesi occupati dall’Armata Rossa, nei quali la sovranità nazionale viene ridotta ai minimi termini: Polonia, Germania Orientale (poi Repubblica Democratica Tedesca), Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia (che rompe con Mosca nel 1947-1948), Albania (che all’epoca del dissidio sino-sovietico si accosterà alla Cina popolare). L’URSS si trova quindi ad essere protetta ad ovest da quegli stessi territori che dopo la Prima guerra mondiale avrebbero dovuto costituire un cordone sanitario antibolscevico. Su scala eurasiatica, l’egemonia sovietica si estende dall’Adriatico al Mar del Giappone, quindi alla Cina, al Golfo del Tonchino e all’Indocina; le proiezioni della potenza sovietica arriveranno nel Vicino Oriente, in Africa e nel Mar dei Caraibi. Dopo il 1945, dunque, Stalin aggiungeva all’eredità zarista una molteplice eredità territoriale, in quanto poteva controllare l’area “che un tempo sottostava in Europa allo zar, al re di Prussia, all’imperatore d’Austria e al sultano, vale a dire alle potenze della Santa Alleanza e della Sublime Porta. Il controllo sovietico, inoltre, si estese in Asia, tra il 1945 e il 1975, lungo un’area che un tempo sottostava all’impero del Sol Levante, all’impero manciù e all’impero coloniale francese (…) I sovietici, in condizioni mutatissime, erano gli eredi di Carlo V, dell’impero, forse di Federico II e di Caterina la Grande, certo della Russia che si contrappose a Napoleone. Infine, soprattutto dopo il tracollo zarista, essi furono gli eredi degli imperi centrali, ma anche, in qualche modo della concordia discors e della coincidentia oppositorum realizzatesi nell’Europa nazi-sovietica del 1939-1941”[56].

Il 14 maggio 1955, per iniziativa sovietica, otto paesi dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania, oltre ovviamente all’URSS) firmavano nella capitale polacca un trattato ventennale di “amicizia, cooperazione e mutua assistenza” sul modello del Patto Atlantico, impegnandosi ad accordarsi, in caso di necessità, un “reciproco aiuto fraterno”. Il trattato prevedeva l’istituzione di un comando unificato, di un comitato politico consultivo e di altri organismi, con sede a Mosca. Il comandante in capo sarebbe stato un sovietico (il primo fu il maresciallo Ivan Stepanovič Konev), mentre lo stato maggiore sarebbe stato costituito dai rappresentanti degli stati maggiori generali dei paesi membri e dai loro ministri della difesa. Il Patto siglato a Varsavia intendeva dare una risposta alla creazione dell’Unione Europea Occidentale (UEO), che, ufficialmente costituita una settimana prima, aveva aggregato anche la Repubblica Federale Tedesca e l’Italia ai cinque paesi dell’Unione Occidentale (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo). Dal punto di vista giuridico, il Patto di Varsavia formalizzava la situazione esistente, legalizzando il controllo sovietico sui territori dell’Europa centro-orientale e autorizzando la permanenza di truppe sovietiche in Ungheria e in Romania anche nel periodo successivo alla firma, ormai imminente, del trattato di pace con l’Austria (un paese che sarebbe sì rimasto neutrale sotto il profilo diplomatico e militare, ma sarebbe diventato “occidentale” nel senso politico ed economico). Un terzo obiettivo del Patto consisteva nel predisporre una contropartita alla proposta sovietica di smobilitare la NATO e di creare un sistema generale europeo di sicurezza collettiva: il Patto di Varsavia sarebbe decaduto il giorno stesso in cui tale sistema fosse entrato in funzione.

Come il Patto di Varsavia fu concepito come una risposta alla NATO, così il COMECON fu una replica al Piano Marshall e all’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE), sorta su impulso degli USA per “coordinare la trasformazione strutturale dell’economia dei Paesi Europei per usufruire al meglio degli aiuti del Piano Marshall”. Il COMECON, che aveva ufficialmente il compito di organizzare la cooperazione economica, tecnica e scientifica dei paesi del campo socialista, in realtà favorì soprattutto l’URSS, la quale poteva vendere le materie prime a prezzi superiori a quelli del mercato mondiale, mentre acquistava i prodotti industriali a prezzi vantaggiosissimi. In ogni caso, il COMECON fu fondamentale per l’integrazione economica dell’area socialista, in quanto organizzò la produzione industriale, sviluppò i rapporti commerciali, incrementò la cooperazione scientifica e tecnica e favorì la realizzazione di grandi opere, come l’Oleodotto dell’Amicizia e il collegamento delle reti elettriche.

Per quanto avesse integrato militarmente ed economicamente l’Europa centrale entro la propria sfera d’influenza, l’Europa socialista rimaneva geopoliticamente incompleta. “La Russia – osserva Jordis von Lohausen – prenderà il largo solo il giorno in cui avrà la totalità della Germania. (…) Ora, la soluzione del 1945 (divisione della Germania) blocca tutto simultaneamente, negando a ciascuno ciò che gli spetta: alla Germania di costituire finalmente un possibile ponte, all’Europa la libertà necessaria, alla Russia l’accesso all’Atlantico. La Germania è confinata in un recinto che non è fatto per lei, l’Europa occidentale è solo una testa di ponte americana e la Russia è sempre lontana dal suo traguardo”[57].

Infatti l’Armata Rossa era arrivata a Berlino, ma la principale potenza continentale era ben lontana dalle proprie frontiere geopolitiche occidentali, che si trovavano a Lisbona, a Dublino, a Reykjavik, né mostrò mai l’intenzione di raggiungerle. Non è perciò del tutto fuori luogo il parallelismo storico abbozzato da Jean Thiriart fra la mezza Europa napoleonica e la mezza Europa del campo socialista: “L’URSS si trova nella classica posizione della maggior potenza europea alla quale viene impedito di completarsi. Quel conflitto che, per quindici anni, dal 1800 al 1815, contrappose Londra e Parigi, è diventato il conflitto tra Washington e Mosca. Bonaparte non riuscì mai a completare il suo Impero europeo”[58]. Né ci riuscirono i signori del Cremlino, che in Europa rimasero ben lontani dal dinamismo napoleonico, accontentandosi tutt’al più di intensificare il controllo politico, militare ed economico dell’URSS sui paesi dell’Europa centrale.

La conseguenza di tale staticità e del mancato raggiungimento delle frontiere geopolitiche occidentali fu, tra il 1989 e il 1991, il crollo dell’intero blocco socialista, con l’immediato avanzamento della superpotenza extraeuropea fino ai confini della Russia.

 

L’Europa americana

 

“Noi rifiutiamo l’Europa legale, quella di Strasburgo, rea di tradimento (…) non è indipendente: è solo una specie di SuperPanama americano (…) L’Europa del Mercato Comune è un’Europa eunuca, castrata”.

Jean Thiriart

 

Occupata militarmente l’Europa occidentale, gli Angloamericani manifestarono un atteggiamento favorevole alla sua unificazione. Il 19 settembre 1946 Sir Winston Churchill pronunciò all’Università di Zurigo un discorso che identificava l’Europa come il “nobile continente, patria di tutte le grandi razze dell’Occidente, fondamento della fede e dell’etica cristiana”[59]. “Invero, – disse lo statista britannico – se la grande repubblica al di là dell’Atlantico non si fosse resa conto che la rovina o l’asservimento dell’Europa avrebbero potuto coinvolgere anche il suo destino, e non ci avesse teso la mano per soccorrerci e guidarci, sarebbero tornate le Età Oscure con tutta la loro crudeltà e il loro squallore. E possono ancora tornare”[60]. Perciò, concluse, “dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa”[61]. Quattro mesi dopo aver lanciato questo appello, Churchill fondò il Movimento dell’Europa Unita (“The United Europe Movement”), mentre in Francia si formò il Conseil français pour l’Europe unie. Nell’aprile del 1947 nacque a Montreux, in Svizzera, la Union européenne des fédéralistes e nel giugno dello stesso anno i vari movimenti per l’unità europea formarono un Comité de Liaison per coordinare la loro azione. Al Comité si unì il Movimento Socialista per gli Stati Uniti d’Europa, che era sorto nel novembre del 1947. Il Comité de Liaison portò alla convocazione del primo Congresso europeo, che si tenne all’Aja dal 7 al 10 maggio 1948 con la partecipazione di personalità eminenti della politica.

La posizione degli Stati Uniti d’America in favore di una unità europea inserita nell’Occidente egemonizzato da Washington si manifestò il 1° marzo 1947, quando il Congresso votò la risoluzione del senatore William Fulbright in cui si dichiarava testualmente: “Il Congresso è favorevole alla creazione degli Stati Uniti d’Europa nel quadro delle Nazioni Unite”. Tre mesi dopo, il 5 giugno, il segretario di Stato statunitense George Marshall rivolse agli studenti dell’Università di Harvard un’allocuzione in cui si pronunciò a favore di un’intesa fra le nazioni europee per una cooperazione economica sulla base di aiuti finanziari statunitensi. La legge americana di collaborazione economica, approvata dal Congresso il 2 aprile 1948, stabilì espressamente che i vari Stati aderenti al Piano Marshall avrebbero assunto l’impegno di “partecipare ad un’istituzione incaricata della gestione dell’aiuto collettivo e della elaborazione di una politica economica comune”.

Nasceva così, il 16 aprile 1948, l’Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE), che nelle intenzioni degli Stati Uniti doveva costituire un passo concreto verso l’unità dell’Europa occidentale. Un mese prima, il 17 marzo, con la firma del “patto di autodifesa collettiva” tra Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, era nata a Bruxelles l’Unione Europea Occidentale (UEO).

Dal 7 all’11 maggio dello stesso anno si tenne all’Aja, con la partecipazione di osservatori statunitensi e canadesi e di 750 delegati da tutta Europa, un Congresso organizzato dal Comitato internazionale dei movimenti per l’Unione europea, presieduto da Winston Churchill. Il Congresso dell’Aja gettò le basi per l’istituzione del Consiglio d’Europa, che nacque il 5 maggio 1949 col Trattato di Londra proponendosi di “promuovere la democrazia, i diritti umani e l’identità culturale europea”; ai Paesi fondatori – gli stessi del Club di Bruxelles – si aggiunsero la Danimarca, la Norvegia, l’Italia, l’Irlanda, la Svezia e poi anche la Grecia e la Turchia.

Tra le personalità che svolsero un ruolo di primo piano al Congresso dell’Aja, occorre ricordare Lord Harold Macmillan, il quale, nominato da Churchill consigliere politico presso Eisenhower, tra il gennaio del 1943 e la metà del 1945 era diventato il ‘proconsole’ di Londra nel Mediterraneo. Oltre a Macmillan, vale la pena di menzionare (data la fama postuma da lui acquisita come uno dei “padri fondatori dell’Unione Europea”) l’italiano Altiero Spinelli, redattore con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”[62], nonché animatore con Ursula Hirschmann[63] della prima conferenza federalista europea, tenuta a Parigi nel marzo 1945.

Il 18 aprile 1951 fu istituita la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), di cui entrarono a far parte la Francia, la Germania occidentale, il Belgio, l’Italia, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. I più convinti sostenitori ne furono alcuni politici decisamente occidentalisti: Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi.

Jean Monnet, inviato nel 1940 negli Stati Uniti come rappresentante del governo inglese per negoziare una commessa militare, diventò consigliere del presidente Roosevelt. A suo parere, l’America doveva essere l’arsenale delle democrazie; per mesi perseguì tenacemente questo obiettivo, che fu realizzato dal Victory Program annunciato da Roosevelt il 6 gennaio 1942. “L’eccellente qualità dei rapporti intercorsi fra Jean Monnet e gli Stati Uniti è proverbiale. D’altronde, Monnet non ne fece mai un segreto: fervido ammiratore della costituzione federale americana, auspicava la creazione di ‘Stati Uniti d’Europa’ ricalcati sul modello americano. (…) Ma ciò gli valse di essere qualificato dagli avversari – a partire da Charles de Gaulle – come ‘apatride’ e ‘portavoce dello straniero’”[64].

Robert Schuman pronunciò il 9 maggio 1950, in qualità di Ministro degli Esteri del governo francese, il discorso politico ufficiale considerato come punto di avvio del processo d’integrazione europea. La storica ‘dichiarazione Schuman’ si colloca in un momento in cui la Francia ambiva a soppiantare il Regno Unito nel ruolo di Paese alleato degli Stati Uniti. D’altronde Schuman era uno dei capi del Movimento Europeo finanziato dall’American Committee on United Europe (ACUE), l’organizzazione ‘privata’ il cui primo presidente fu William Joseph Donovan, il padre fondatore della CIA.

Konrad Adenauer, che le truppe d’occupazione americane avevano reinsediato nella carica di sindaco di Colonia, dal 1949 fu Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca e dal 1950 fu capo della Christlich Demokratische Union (CDU). Poté così guidare la Germania occidentale nel cammino di adesione agli organismi nati per volontà degli USA: l’OECE e la NATO. Decisamente schierato a fianco degli Stati Uniti, nel 1952 Adenauer rifiutò la proposta di Stalin, che intendeva riunificare la Germania in un unico Stato neutrale fra i due blocchi.

Alcide De Gasperi formò l’ultimo governo del Regno d’Italia il 10 dicembre 1945; “da quel momento le autorità italiane procederanno senza più obiezioni sulla via indicata da quelle americane, e sarà una marcia trionfale”[65]. Alla fine del 1946, in un memorandum sulla situazione italiana redatto per la Casa Bianca, il vicedirettore del Dipartimento di Stato John Hickerson raccomandò al governo di Washington: “Dobbiamo aiutare subito De Gasperi”[66]. Così, nel gennaio 1947, De Gasperi venne accolto negli Stati Uniti; nel corso della visita, oltre ad essere onorato con una ticker-tape parade[67], il capo del governo italiano ottenne dalle autorità statunitensi un prestito di 100 milioni di dollari. In questo periodo la CIA intensificò pesantemente il suo intervento nella politica italiana, influenzando a favore della Democrazia Cristiana, di cui De Gasperi era il presidente, le elezioni del 18 aprile 1948. Consacrato fiduciario degli USA in Italia, De Gasperi poté impegnarsi nel dibattito sull’adesione del Paese al patto militare che poi si sarebbe concretizzato nell’Alleanza Atlantica.

Nel settembre 1952 i ministri degli Affari Esteri dei sei Paesi della CECA misero mano ad un progetto di Comunità Politica Europea che prevedeva un Parlamento europeo, composto dalla Camera dei Popoli e dal Senato, un Consiglio esecutivo europeo e una Corte di Giustizia. Ma con la morte di Stalin e il conseguente allentamento della tensione internazionale, il progetto fu abbandonato e il 30 aprile 1954 il Parlamento francese rifiutò di ratificare il trattato della Comunità Europea di Difesa (CED). Perciò il “New York Times” poté scrivere che la politica dell’integrazione europea era più che altro una politica che gli Americani volevano imporre ad ogni costo all’Europa.

Il 25 marzo 1957 furono firmati i Trattati di Roma: il trattato istitutivo della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA) e il trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE), diventata Comunità Europea (CE) in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1 novembre 1993). E qui occorre osservare che “le adesioni o le richieste di adesione alla UE procedono quasi di pari passo con le adesioni o le richieste di adesione alla NATO. Il che la dice lunga sulle strategie messe in atto da chi ha interesse a legare le politiche europee alle strategie militari della NATO”[68].

Il leit-motiv della solidarietà transatlantica e della complementarità della difesa europea con la NATO fu ribadito nel novembre 2021 da Josep Borrell. L’Alto Rappresentante degli Affari Esteri dell’Unione Europea affermò che la difesa di quei “valori universali” che – a suo dire – coinciderebbero coi “nostri valori liberali” richiede una “responsabilità strategica europea”; la quale, proseguì Borrell rassicurando gli alleati egemoni, non solo “non contraddice in alcun modo l’impegno europeo nei confronti della NATO, che resta al cuore della nostra difesa territoriale”, ma anzi sarà “il modo migliore per rafforzare la solidarietà transatlantica”[69]. Insomma, l’ago magnetico della “bussola strategica” prodotta dall’Unione Europea continua a indicare l’Occidente[70].


NOTE

[1] “Omnium provinciarum populi Romani, quibus finitimae fuerunt gentes, quae non parerent imperio nostro, fines auxi” (Res gestae divi Augusti, 26, 1).

[2] Luca Canali, Introduzione a: Res gestae divi Augusti, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 13.

[3] Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Laterza, Bari 1980, p. 3

[4] Henri Pirenne, op. cit., p. 4.

[5] “I diritti indigeni sopravvissero e continuarono ad essere applicati nelle diverse comunità che costituivano l’Impero: diritto ‘greco’ (in realtà diritto indigeno spolverato di diritto greco) in Egitto, diritto delle città greche nel Mediterraneo orientale, diritto di tale o talaltra tribù in Mauritania o in Arabia, diritto ebraico (Torah) per gli ebrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primavera 1992, p. 29).

[6] Massimiliano Pavan, Roma, Costantinopoli, Mosca: l’ideologia delle tre Rome, “Il Veltro. Rivista della civiltà italiana”, 1-2, 1984, p. 32.

[7] Pierangelo Catalano, Alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani, “Studi sassaresi”, VIII Cultura iberica e diritto romano, Serie III, Anno Accademico 1980-81, p. 12.

[8] P. Catalano, op. cit., p. 11.

[9] P. Catalano, op. cit., p. 12.

[10] “tacit agreement among Euroamerican historiologists” in: Bunei Tsunoda, The problem of the Ending of the Ancient World, Palaeologia”, 4, Osaka 1956, p. 298; trad. tedesca in: Paul Egon (hrsg.), Zur Frage der Periodengrenze zwischen Altertum und Mittelalter, Darmstadt 1969, pp. 239 ss.

[11] “ablato patricii nomine imperator et Augustus est appellatus”, Annales Regni Francorum a. 801; e con piccole varianti Annales Q. D. Einhardti a. 801. Cfr. Karl Heldmann, Das Kaisertum Karls des Grossen. Theorien und Wirklichkeit, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1928, p. 11°, n. 1.

[12] G. Ostrogorsky, op. cit., p. 168.

[13] James Bryce, The holy Roman Empire, London 1895, p. 372.

[14] G. P. Baker, Carlo Magno, Dall’Oglio, Milano 1962, pp. 244-245.

[15] Gabriele Pepe, Un problema storico: Carlo Magno, in: Carlo Magno, Federico II, Sansoni, Firenze 1968, p. 82.

[16] Antonino de Stefano Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, illustrazione in copertina.

[17] Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.

[18] R. Morghen, op. cit., pp. 173-174.

[19] R. Morghen, op. cit., pp. 173-174.

[20] A. de Stefano, L’idea imperiale di Federico II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, p. 56.

[21] “e sulla condivisione ottomana e zarista dell’eredità bizantina bisognerà discutere a lungo, in futuro, dato che territori di essa partecipi sono ormai entrati a far parte dell’Unione europea, modificando profondamente la tematica relativa alle sue radici storiche e culturali” (Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Mondadori, Milano 2006, p. 96).

[22] Arnold Toynbee, A Study of History, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158.

[23] Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. in: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucureşti 1998, p. 138.  Cfr. Claudio Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. I, n. 1, ottobre-dicembre 2004, pp. 95-108.

[24] Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo, Milano 2004, p. 15.

[25] Franco Cardini – Sergio Valzania, op. cit., p. 27.

[26] Adam Wandruszka, Gli Asburgo, Milano 1974, p. 87.

[27] D.B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Dall’Oglio, Milano 1964, p. 18.

[28] Andrea Dall’Oglio, Europa, unità e divisione, Dall’Oglio, Milano 1962, p. 124.

[29] Franco Cardini – Sergio Valzania, op. cit., pp. 14-16.

[30] Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957, p. 255.

[31] Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Edizioni di Ar, Padova 1989, pp. 47-48.

[32] Dizionario critico della Rivoluzione francese, a cura di François Furet e Mona Ozouf, Bompiani, Milano 1988, p. 192.

[33] Emil Ludwig, Napoleone, Mondadori, Milano 1929, pp. 218-219.

[34] Albert Sorel, cit. in AA. VV., Napoléon et l’Europe. Regards sur une politique, Actes du colloque organisé par la direction des Archives du ministère des Affaires étrangères et la Fondation Napoléon, 18 et 19 novembre 2004, Coordonné par Thierry Lentz, Fayard, Paris 2005, p. 428).

[35] “L’idea napoleonica di costringere alla resa l’Inghilterra mediante il blocco continentale era giusta fondamentalmente; Napoleone però non fu capace di sviluppare un vero senso di solidarietà europea, anzi in lui la dominazione degenerò in una brutale oppressione del più forte popolo europeo, il tedesco; inoltre egli trattò il problema spagnolo in modo sbagliato (…) In questo modo l’Inghilterra ebbe agio di continuare i suoi saccheggi nell’oltremare” (Johann von Leers, L’Inghilterra. L’avversario del continente europeo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2004, p. 53).

[36] Campagnes d’Egypte et de Syrie, présentation par Henry Laurens, Imprimerie nazionale, p. 144. Sul rapporto di Napoleone con l’Islam, cfr. in particolare Christian Cherfils, Bonaparte et l’Islam, Alcazar Publ., Studley 2005 e D. Vivant-Denon – A. Rahman el-Gabarti, Bonaparte in Egitto. Due cronache tra Illuminismo e Islam, Manifestolibri, Roma 2001.

[37] Emmanuel Malynski, op. cit., p. 48.

[38] AA. VV., Napoléon et l’Europe. Regards sur une politique, cit., p. 429.

[39] Emmanuel de las Cases, Memoriale di Sant’Elena, Rizzoli, Milano 1930, p. 633.

[40] Adolf Hitler, Ultimi discorsi, Edizioni di Ar, Padova 1988, p. 82.

[41] Pierre Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, Il Mulino, Bologna 1995, p. 238 (22 giugno 1940).

[42] P. Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, cit., p. 284 (29 dicembre 1941).

[43] P. Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945 cit., p. 311 (23 novembre 1942).

[44] P. Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, cit. p. 320 (26 dicembre 1942). Secondo Drieu, il fallimento di Hitler è da addebitare in gran parte ai gravi limiti della sua politica europea e alla sua incapacità di trasformare il nazionalsocialismo in un eurosocialismo. Il Reich “non avrebbe dovuto alzare la bandiera tedesca sui monumenti pubblici (…) Avrebbe dovuto rispettare dappertutto le autonomie nazionali dal punto di vista amministrativo e politico, non avrebbe dovuto compiere annessioni, secondo un vecchio costume, come quelle della Boemia, dell’Alsazia, della Francia settentrionale e della Polonia. (…) In compenso avrebbe dovuto liberare i prigionieri, utilizzare l’arma dei plebisciti per fare direttamente con i popoli i trattati di pace o gli armistizi; avrebbe dovuto abolire le frontiere doganali e creare un’unione doganale europea. (…) e la convocazione, a Strasburgo per esempio, di una nuova Società delle Nazioni esclusivamente europea. In tale sede si poteva chiedere l’internazionalizzazione, l’europeizzazione di alcuni punti strategici (…) L’esercito tedesco sarebbe stato proclamato europeo, le SS sarebbero diventate il nucleo e il punto d’incontro della gioventù guerriera d’Europa; questi eserciti non avrebbero occupato nessun luogo o territorio europeo senza un mandato di un’assemblea europea. (…) Bisognava creare in ogni paese un partito nazionalsocialista e confederarli tutti in un’internazionale nazionalsocialista europea con sede a Strasburgo o a Bruxelles. (…) Non vi sarebbe stato bisogno di annettere l’Alsazia perché tutta l’Europa sarebbe diventata Germania e la Germania a sua volta si sarebbe trasformata in Europa” (P. Drieu La Rochelle, Socialismo Fascismo Europa, Edizioni Nuova Europa, Napoli 1990, pp. 217-219).

[45] Saint-Loup, Legion der Aufrechten. Frankreichs freiwillige an der Ostfront, Druffel Verlag 1977, p. 230.

[46] Léon Degrelle, La nostra Europa, Edizioni di Ar, Padova 1980, p. 16.

[47] L. Degrelle, Hitler per mille anni, Sentinella d’Italia, Monfalcone 1970, p. 106.

[48] L. Degrelle, La nostra Europa, cit., p. 52.

[49] Jean-Claude Valla, Les socialistes dans la Collaboration. De Jaurès à Hitler, “Les Cahiers libres d’histoire“, n. 13-14, 2006.

[50] Hans Werner Neulen, L’eurofascismo e la seconda guerra mondiale, Giovanni Volpe Editore, Roma 1982, p. 187.

[51] “La Gerbe” 6 novembre 1941, cit. in Pascal Ory, Les collaborateurs 1940-1945, Seuil, Paris 1976, p. 238.

[52] Christian de la Mazière, Ein Traum aus Blut und Dreck, Pabel-Moewig Verlag, Wien-Berlin 1972, p. 10.

[53] Hans Werner Neulen, L’eurofascismo e la seconda guerra mondiale, cit., p. 39.

[54] Adriano Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Settimo Sigillo, Roma 1984, p. 46.

[55] Johann von Leers, L’Inghilterra. L’avversario del continente europeo, cit.

[56] Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 41-43.

[57] Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance. La géopolitique aujourd’hui, Le Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 233.

[58] Jean Thiriart, Les 106 réponses à Mugarza (pré-édition non-corrigée), a cura dell’Autore, Bruxelles 1982, Question 103.

[59] “this noble continent, the home of all the great parent races of the Western world, the foundation of Christian faith and ethics”.

[60] “Indeed, but for the fact that the great republic across the Atlantic realised that the ruin or enslavement of Europe would involve her own fate as well, and stretched out hands of succour and guidance, the Dark Ages would have returned in all their cruelty and squalor. They may still return”.

[61] “We must build a kind of United States of Europe”.

[62] Il Manifesto di Ventotene fu adottato come programma del Movimento Federalista Europeo nella riunione tenuta il 26-28 agosto 1943 in casa del cattedratico Mario Alberto Rollier, alla quale parteciparono, oltre a Spinelli, Rossi, Colorni e la Hirschmann, anche Manlio Rossi Doria (all’epoca legato alla cerchia che ruotava attorno a Leone Ginzburg) e Vittorio Foa, segretario del Partito d’Azione.

[63] Ursula Hirschmann, che subito dopo la morte del marito Eugenio Colorni sposò Altiero Spinelli, era sorella dell’economista Albert Otto Hirschmann (1915-2012), ebreo tedesco naturalizzato statunitense. Vincitore di una Rockefeller Fellowship presso l’Università della California (1941-1943), il fratello della Hirschmann fu nominato capo della sezione Europa occidentale e Commonwealth Britannico del Federal Reserve Board (1946-1952).

[64] Gérard Bossuat – Klaus Schwabe, Jean Monnet, les États-Unis et le rôle de l’Europe au sein de la Communauté atlantique, Éditions de la Sorbonne, https://books.openedition.org

[65] Ennio Caretto – Bruno Marolo, Made in USA. Le origini americane della Repubblica Italiana, Rizzoli, Milano 1996, p. 189.

[66] E. Caretto – B. Marolo, Made in USA. Le origini americane della Repubblica Italiana, cit., p. 143.

[67] Parata tenuta in un centro urbano, durante la quale vengono lanciate sul percorso grandi quantità di pezzettini di carta.

[68] Antonio Arena, Finis Europae? L’Europa non è NATO, OAKS, Sesto San Giovanni 2024, p. 114.

[69] Josep Borrell. Una Bussola Strategica per l’Europa, www.project-syndicate.org, 12 novembre 2021.

[70] Cfr. C. Mutti, La bussola dell’UE indica l’Occidente, “Eurasia”, 1/2022.


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