In un articolo di pochi giorni fa si è criticato il comportamento della diplomazia italiana in occasione della crisi libica.

Innanzi tutto si è escluso che la guerra alla Libia sia davvero motivata da preoccupazioni umanitarie: a) mancano elementi probanti gravi violazioni dei “diritti umani” da parte delle autorità libiche nel corso della rivolta; b) le recenti esperienze lasciano supporre che i bombardamenti ed un’eventuale successiva invasione, oltre al procrastinarsi delle lotte intestine, faranno più vittime d’una guerra civile che stava ormai esaurendosi; c) il medesimo interventismo “umanitario” non è stato suscitato dalla dura repressione da parte della monarchia assolutista del Bahrain, che ha addirittura fatto entrare truppe straniere nel suo territorio per massacrare manifestanti realmente disarmati. Le vere finalità sono geopolitiche e strategiche, come sembra aver realizzato la maggioranza dell’opinione pubblica italiana ed una vasta gamma d’opinionisti, diversi per orientamenti e sensibilità, che va da Gino Strada a Vittorio Feltri passando per Sergio Romano e Carlo Jean.

In secondo luogo, si è riassunta l’importanza strategica ed economica della Libia per l’Italia. Si è sottolineato come la Libia, caso più unico che raro, rappresenti un paese produttore di petrolio e gas naturale inserito nella “sfera d’influenza” italiana.

Si è infine ripercorso l’atteggiamento italiano nel corso della crisi libica: incerto ed ondivago, ha palesato la volontà di schierarsi col probabile vincitore. Gl’imbarazzanti ondeggiamenti si sono conclusi stracciando di fatto il recente Trattato di Amicizia, Cooperazione e Partenariato tra Italia e Libia, tradendo impegni ben precisi assunti da Roma nei confronti di Tripoli, e passando repentinamente da un’intesa strategica e cordiale ad uno stato di guerra.

Si concludeva quindi che l’Italia ha già perso la sua guerra di Libia, perché qualsiasi sarà l’esito del conflitto ne sortirà una situazione per noi più svantaggiosa dello status quo ante.

Resta ora da valutare, per completezza, di quali alternative disponeva l’Italia per meglio affrontare la crisi libica.


Il Governo italiano si difende dalle critiche affermando che non aveva altra scelta, dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CdS), che quella di partecipare alle operazioni militari. La Risoluzione 1973/2011 del CdS si limita ad autorizzare i paesi membri all’azione «per tutelare i civili» (paragrafo 4) e per imporre la zona d’interdizione al volo (par. 8), ed a chiedere assistenza per questi compiti (par. 9), dunque non vincola l’Italia a scendere in guerra e neppure a concedere le basi per gli attacchi altrui: la piccola Malta, ad esempio, ha negato l’uso del proprio territorio per l’implementazione della Risoluzione 1973. Del resto, il territorio italiano è importante ma non imprescindibile: i Francesi bombardano facendo decollare gli aerei direttamente dalle loro basi, ed anche Spagna e Grecia si sono prestate alla missione.

Dunque, anche dopo il voto del CdS del 17 marzo 2011 (e tralasciando per ora quanto avvenuto prima), all’Italia si ponevano effettivamente due scelte:


a) l’Italia poteva non avvalersi dell’autorizzazione ad attaccare la Libia e non concedere il proprio territorio a quei paesi che hanno deciso d’avvalersene. Ciò in ragione della sua posizione privilegiata nei rapporti col paese nordafricano e del Trattato siglato nel 2009, che c’impegna a non ingerire negli affari interni libici (art. 4.1), a non usare la forza (art. 3) ed a non prestare il nostro territorio ad azioni di forza contro la Libia (art. 4.2). Benché secondo alcuni, in punto di diritto, la Risoluzione 1973 esenti l’Italia dal rispettare integralmente il Trattato, s’intende sempre che ciò sia vero solo ed esclusivamente nella misura ed entro i limiti fissati dalla risoluzione medesima.

Ma ciò che è legittimo giuridicamente non necessariamente dev’essere compiuto. Il fatto che una risoluzione del CdS ci consenta di non rispettare un Trattato non è ragione sufficiente per non rispettarlo. Debbono entrare in gioco altre considerazioni, d’interesse ed opportunità. Il comportamento italiano rispetto agl’impegni assunti con la Libia può essere giustificabile dal punto di vista giuridico, ma non necessariamente anche da quello morale. L’Italia è stata percepita come traditrice e voltagabbana da Tripoli e, c’è da scommettervi, anche dal resto del mondo.

Evitare un voltafaccia tanto plateale, anche con la foglia di fico dell’ONU, non è solo un punto d’onore e dignità nazionale. È anche una questione d’interesse pratico. L’Italia da decenni paga pesantemente il fatto di essere percepita come una nazione inaffidabile ed incline al tradimento. Si tratta d’una nomea costruitasi nel corso della nostra storia unitaria, talvolta meritatamente talaltra meno. Nel 1870 i Francesi non apprezzarono la scelta italiana di non intervenire a fianco di Napoleone III, protagonista della nostra Seconda Guerra d’Indipendenza, ed anzi di sfruttare la sue disgrazie belliche per occupare Roma. Le critiche francesi erano ingenerose, poiché l’atteggiamento del Secondo Impero nei nostri confronti era stato ambiguo (dalla soppressione della Repubblica Romana del ’48 all’armistizio di Villafranca ed allo scontro di Mentana). Più fondata appare invece l’acrimonia sviluppata dai Tedeschi, costretti ad assistere ai celebri “giri di valzer” primo-novecenteschi della nostra diplomazia, al rovesciamento d’alleanze all’inizio della Prima Guerra Mondiale, al proditorio cambio di schieramento nel bel mezzo della Seconda.

Quella dell’8 settembre 1943 è un’onta che l’Italia ha cercato per decenni di cancellare. Poco importa il giudizio storico, politico o morale che si vuole dare di quella data: è fuor di dubbio che essa è stata percepita e recepita dal resto del mondo, anche da quella parte che s’avvantaggiò del nostro cambio di schieramento (si vedano a proposito i giudizi attribuiti al generale Eisenhower nelle memorie del suo aiutante navale), come un tradimento disonorevole. La Repubblica Italiana ha così percepito come necessario dimostrare l’affidabilità internazionale del nostro paese, in contrasto coi succitati eventi storici. È stata questa esigenza ad indurre i nostri governanti a coinvolgere l’Italia in un numero esageratamente alto d’imprese militari oltremare, in luoghi o missioni lontani dal nostro interesse nazionale, ma con la sola ambizione di rimarcare la fedeltà agli alleati. L’Italia è il paese europeo che fornisce all’ONU la maggior parte dei “caschi blu”, ed è uno degli Stati al mondo col maggior numero di militari in missione all’estero. Si cerca di dimostrare l’affidabilità dell’Italia rispondendo sempre di sì a qualsiasi richiesta da parte delle organizzazioni internazionali cui siamo legati.

La macchia dell’Otto Settembre, insomma, sta costandoci caro. Un po’ di militari morti e diversi miliardi di euro che se ne vanno in missioni che, per noi, non hanno ritorni strategici ma servono solo a migliorare l’immagine internazionale del paese. Ecco perché la scelta di Berlusconi – anzi, dei ministri Frattini e La Russa – di violare il Trattato con la Libia è sciagurata: lavare l’immagine di paese inaffidabile ed incline al tradimento (che si è data non solo in Libia ma nel mondo intero) ci costerà, ancora una volta, molto caro.


b) l’Italia ha optato dunque per una diversa opzione: intervenire contro la Libia, sfruttando l’autorizzazione del CdS ed in spregio dei precedenti accordi con Tripoli. Il Governo è stato molto chiaro sulle reali motivazioni della sua scelta, non riuscendo a spacciare efficacemente (soprattutto tra il suo elettorato) il pretesto “umanitario”. Si è giustificato asserendo che solo partecipando in prima persona all’attacco contro la Libia Roma avrebbe potuto difendere i suoi interessi in loco.

Lucio Caracciolo, intervistato da “l’Unità”, ha sagacemente osservato che «come al solito siamo vittime della sindrome del “posto a tavola”, nell’illusione che partecipando, a modo nostro, a questa operazione di matrice “sarkoziana”, i francesi, gli inglesi e gli americani vorranno spartire con noi il bottino della vittoria».

È un riflesso storico che affonda le sue radici nella Guerra di Crimea. Era il lontano 1853, ed il Conte di Cavour – capo del Governo del Regno di Sardegna – decise di mandare le sue truppe a sostegno di quello franco-britanniche e contro la Russia. Il Piemonte non aveva alcun interesse strategico in Crimea. Ce l’aveva la sua nemica mortale, l’Austria, che infatti appoggiava la missione franco-britannica. Torino andava dunque a combattere a vantaggio di Vienna, la sua nemica, al solo scopo di poter partecipare al successivo tavolo della pace e sollevare la questione italiana. La questione italiana fu infatti sollevata, ma senza troppo eco. La storiografia italiana esalta quella pagina di storia diplomatica, mentre quella straniera è più cauta: il britannico Denis Mack Smith, ad esempio, la derubrica tra le mosse mal riuscite di Cavour.

Fatto sta che, da allora, la diplomazia italiana è ossessionata dal “posto a tavola”, per riprendere le parole di Caracciolo. C’è un filo rosso che lega l’intervento cavouriano in Crimea alla decisione mussoliniana del 1940 di entrare in guerra per procurarsi quella manciata di morti da buttare sul tavolo della pace; questo filo sembra allungarsi fino al recente espediente di Frattini e La Russa (più che di Berlusconi) di bombardare l’ex amico libico per non lasciare la mano alla Francia.

Ma non è scritto da nessuna parte che, accodandosi alla “coalizione dei volenterosi”, l’Italia avrà davvero voce in capitolo. Ci sono 10 paesi attivamente impegnati nelle operazioni belliche contro la Libia, e gli attacchi aerei non partono solo (né principalmente) dall’Italia, ma anche da Spagna, Grecia, Francia e persino Gran Bretagna e Stati Uniti (grazie ai bombardieri intercontinentali o alle unità di marina che stazionano nel Mediterraneo). L’Italia non ha un ruolo decisivo nelle operazioni militari, dunque nulla garantisce che l’avrà nelle decisioni politiche e strategiche.

Quando Berlusconi si è recato al vertice di Parigi, che radunava i capi di Governo della “coalizione dei volenterosi”, ha scoperto che le decisioni fondamentali erano già state prese durante un incontro privato da Obama, Cameron e Sarkozy. L’Italia è stata trattata alla stregua d’un comprimario, al pari di paesi come la Danimarca o la Norvegia: incaricata d’eseguire le disposizioni altrui. A differenza di Oslo, non ha avuto sussulti d’orgoglio e non s’è sottratta all’ingrato incarico.

Non è, infatti, un vero “sussulto d’orgoglio” la recente richiesta italiana che il comando della missione non passi alla Francia bensì alla NATO: si è trattato della semplice pedissequa ripetizione d’una richiesta britannica formulata il 20 marzo, e poi ripresa da Frattini il giorno successivo. Lo scontro è tra Francia e Gran Bretagna, ognuna delle quali vuol fare la parte del leone nell’impresa libica: l’Italia s’agita confusamente sullo sfondo. Anche il comando NATO non risolverà i nostri problemi, perché Sarkozy ha già messo in chiaro che vi sarà una “cabina di regia” politica. Ed in ultima istanza, continuerà ad essere composta da Parigi, Washington e Londra.


La diplomazia italiana è in un vicolo cieco, impelagata in una guerra che, come si è detto nell’articolo precedente, si può solo perdere, ma in nessun caso vincere. Ma in questo vicolo cieco, Roma ci si è infilata da sola. Il Governo continua a ripetere di non aver avuto altra scelta dopo la Risoluzione 1973, ma questa è stata adottata il 17 marzo, mentre la crisi libica è cominciata intorno al 20 febbraio, con l’insurrezione armata anti-Gheddafi. Cos’ha fatto, nel corso di questo mese precedente la risoluzione ONU, la diplomazia italiana per evitare il vicolo cieco?

La posizione espressa da Roma è stata ondivaga: di volta in volta ha cercato d’ingraziarsi la parte che appariva come la più probabile vincitrice. Ma era evidente (e pure comprensibile e condivisibile, considerando il nostro rapporto privilegiato con la Libia) fin da subito che l’Italia avrebbe voluto evitare un intervento esterno nel paese nordafricano. Frattini assunse dunque la seguente posizione: sì ad una zona d’interdizione dei voli, ma solo col consenso dell’ONU; ciò in una fase in cui Russia e Cina ancora s’opponevano all’internazionalizzazione della crisi. L’atteggiamento italiano era passivo: scommetteva sul veto di Mosca e Pechino al CdS. Avrebbe dovuto allarmare la nostra diplomazia il fatto che, più o meno nei medesimi giorni, anche Sarkozy, campione dell’interventismo, condizionava la “no fly zone” all’assenso delle Nazioni Unite. Evidentemente, aver passivamente scommesso sul sicuro veto russo-cinese è stato un azzardo.

È difficile, e richiederebbe quanto meno un articolo a parte, spiegare le ragioni per cui Russia e Cina hanno permesso che la Risoluzione 1973 passasse al CdS. Sembra però scontato ipotizzare che la Francia abbia fatto pressioni su Mosca, nell’ambito d’un riavvicinamento strategico con la Russia in corso già da diversi mesi e ben simboleggiato dalla vendita di navi da guerra Mistral al Cremlino. Il mancato veto della Russia al CdS può essere inteso anche come un implicito riconoscimento del Mediterraneo quale sfera d’influenza della Francia.

Lo smacco per l’Italia è grave ed evidente. Il nostro paese, ed il Governo Berlusconi più d’ogni altro, hanno posto grande enfasi sul rapporto strategico con la Russia. Tanto da far infuriare gli USA e spingere l’Ambasciata statunitense a Roma ad operare nell’ombra per creare una fronda anti-Berlusconi nel PDL – come documentato dalle rivelazioni di “Wikileaks”. La nostra diplomazia ha cercato di far valere questo rapporto privilegiato con Mosca per ottenere un veto al CdS, contrastando le prevedibili pressioni francesi in senso contrario? Oppure, per negligenza o altro, s’è limitata a sperare? Al momento non si può rispondere a queste domande.

Nell’un caso e nell’altro, tuttavia, l’errore sta a monte: l’aver scelto la passività, affidandosi all’iniziativa ed alle scelte altrui. L’Italia doveva e poteva avere un ruolo attivo e di primo piano nella crisi libica, fin dal primo minuto.

È un’altra delle sindromi che affligge la diplomazia italiana, almeno quella repubblicana, il ritenere il nostro paese inadatto a prendere posizioni di forza, chiare e decise a sostegno del proprio interesse nazionale. Si tratta di un’eredità della Seconda Guerra Mondiale, in questo caso della disfatta che derivò dall’avventurismo di Mussolini. E poggia su un fatto reale: l’Italia non ha i mezzi per una politica di Grandeur.

Eppure, dall’evitare l’avventurismo al rinunciare ad ogni iniziativa molto ne corre. Il nostro paese aveva tutte le carte in regola per prendere l’iniziativa nell’affaire Libia. L’Italia ha l’economia più ricca del Mediterraneo, Francia esclusa (ma la Francia non è un paese propriamente mediterraneo; è un paese del Nordeuropa che si affaccia sul Mediterraneo). Dei 17 paesi litoranei è il quarto più popoloso (hanno più abitanti Egitto, Francia e Turchia). Ha una posizione strategica nel centro del Mare. Infine, era il paese che intratteneva le relazioni più strette con la Libia.

Persino Hugo Chávez, presidente del lontano Venezuela, s’è proposto come mediatore nella vertenza libica, suscitando l’interesse di Unione Africana e Lega Araba ma il rifiuto, non a caso, di Parigi. Il problema è che non toccava ad un paese sudamericano, bensì all’Italia prendere una simile iniziativa, ed avrebbe potuto farlo in collaborazione con la Turchia, altra potenza mediterranea contraria alla guerra. Assieme, Roma e Ankara avrebbero potuto premere sulla Russia affinché usasse il suo potere di veto per frenare le opzioni belliche nel CdS, e favorire una soluzione negoziale della crisi.

Prima della Risoluzione 1973, la guerra civile libica stava rapidamente volgendo verso la conclusione, con la vittoria delle forze governative sui ribelli. Rinunciando all’obiettivo politico, ormai non più conseguibile se non a grave prezzo, di destituire Gheddafi, si poteva inviare una forza di pace variegata, con l’apporto di nazioni neutrali come l’Italia e la Turchia, dell’Unione Africana schierata col Governo libico e della Lega Araba che parteggia per i ribelli; forza di pace incaricata d’interporsi tra le armate in conflitto, disarmare i ribelli ormai prossimi alla sconfitta ma costringere Gheddafi a varare un’amnistia e qualche concessione minore. La missione internazionale sarebbe stata accettata, con tutta probabilità, dal Governo libico, dal momento che escludeva un attacco militare a suo danno; dai ribelli, perché scongiurava il bagno di sangue finale, poteva favorire l’espatrio di quelli più compromessi con la rivolta, e strappare a Tripoli concessioni che non era più possibile conquistare con le armi.

Questo è solo un possibile scenario di come l’Italia avrebbe potuto muoversi per frenare l’escalation della crisi libica. L’importante era porsi come elemento di mediazione, all’interno della Libia e tra la Libia ed il mondo esterno. Ciò non si è neppure tentato. Si è rinunciato all’azione per affidarsi passivamente alle scelte altrui. Quest’errore ha infilato l’Italia in un vicolo cieco da cui ormai non può più uscire se non con una sconfitta.

L’Italia non è una grande potenza, si ama ripetere; e dunque ci stava anche che perdesse la Libia. Ma è il modo che brucia, con la violazione del Trattato e l’attacco all’ex amico e partner di Tripoli. Parafrasando Churchill, si potrebbe dire che potevamo scegliere tra il disonore e la perdita della Libia; abbiamo scelto il disonore, e perderemo anche la Libia.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (Roma 2010). È co-autore, assieme a Pietro Longo, d’un libro sulle rivolte arabe di prossima uscita.

Sull’argomento vedi anche, dallo stesso autore: “L’Italia ha già perso la sua guerra di Libia”.

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