Introduzione
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, Israele ha lanciato l’operazione “Rising Lion” colpendo decine di obiettivi strategici in Iran. L’entità dell’attacco è senza precedenti dal 1981 e segna un ritorno alla dottrina del colpo preventivo, già sperimentata a Osiraq e Deir ez-Zor. A differenza di quelle operazioni, però, l’attacco del 2025 ha preso di mira un sistema nucleare già operativo, distribuito e fortemente protetto. Più di 200 tra caccia F-35, droni kamikaze e missili da crociera hanno preso parte all’azione, coordinata da basi aeree israeliane e probabilmente supportata da risorse satellitari e logistiche statunitensi.
I bersagli comprendevano non solo i centri di arricchimento dell’uranio a Natanz e Fordow, ma anche laboratori di ricerca a Teheran, depositi missilistici a Shahriar, nodi di comando a Isfahan e basi delle forze Quds. Tra le vittime dell’attacco risultano anche figure di primo piano dell’apparato militare e scientifico iraniano: il generale Reza Ghadir, responsabile della difesa aerea della regione centrale, è stato ucciso in un attacco mirato a Yazd; il dottor Homayoun Khosravi, uno dei principali coordinatori del programma nucleare civile, è deceduto in seguito al bombardamento del complesso di ricerca Shahid Beheshti. Fonti locali parlano inoltre della distruzione parziale del centro di comando integrato di Isfahan e del danneggiamento di una porzione delle installazioni sotterranee di Fordow.
L’attacco ha provocato almeno 78 morti, tra cui sei scienziati nucleari e diversi alti ufficiali della Guardia rivoluzionaria iraniana. Tra questi figurano tre tra i più importanti leader militari dell’apparato di difesa iraniano: Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate; Hossein Salami, comandante dei Guardiani della rivoluzione; e Ali Hajizadeh, a capo del programma missilistico balistico dei pasdaran. La loro morte rappresenta un colpo gravissimo per la catena di comando militare iraniana e per le capacità strategiche offensive e difensive del Paese. La centrale di Natanz ha subito danni gravi, con perdita temporanea di controllo su alcuni segmenti del reattore. Le immagini satellitari analizzate da fonti occidentali mostrano vaste aree di distruzione e incendi estesi, con il silenzio comunicativo imposto da Teheran che ha ulteriormente amplificato la percezione di gravità.
Il valore strategico dell’attacco risiede anche nel suo tempismo: avvenuto in una fase di stallo nei negoziati internazionali sul nucleare, ha ridisegnato la mappa delle opzioni militari disponibili. Secondo fonti dei servizi d’informazione, Israele avrebbe attivato una rete clandestina interna per preparare l’attacco, neutralizzando le difese aeree con operazioni cibernetiche e sciami di droni. L’obiettivo strategico non era solo il rallentamento del programma nucleare iraniano, ma anche l’invio di un messaggio politico: Israele non tollererà un Iran nucleare, anche a costo di scatenare una guerra regionale.
Alla luce di questi eventi, è tornata alla ribalta la prospettiva di un cambiamento di regime in Iran attraverso pressioni esterne o interventi militari. Le dichiarazioni del presidente statunitense Donald Trump e la retorica israeliana hanno contribuito ad alimentare uno scenario che, a un’analisi approfondita, appare estremamente improbabile. Tale ipotesi si fonda su un insieme di convinzioni ideologiche e su un immaginario geopolitico che tende a sottovalutare la complessità storica, culturale e militare dell’Iran contemporaneo.
Nel corso degli ultimi decenni, ogni volta che l’Iran ha manifestato una certa assertività nella regione vicino orientale, si è assistito a un ritorno di fiamma di teorie e auspici legati alla possibilità di rovesciare il suo governo. Si tratta di una narrativa che non solo trascura la reale capacità dello Stato iraniano di resistere a pressioni esterne, ma ignora anche le lezioni degli ultimi trent’anni di interventi occidentali nel mondo islamico. La presunzione secondo cui l’Iran potrebbe crollare sotto il peso di sanzioni, rivolte interne o attacchi militari ricalca gli stessi schemi fallimentari già applicati altrove.
Il presente saggio intende dunque mettere in discussione in modo sistematico e articolato questa visione, analizzando i principali ostacoli – di ordine storico, strategico, sociale e politico – che si frappongono a un’eventuale operazione di sovvertimento politico. L’obiettivo è fornire uno strumento di lettura più realistico e meno ideologizzato della posizione iraniana, restituendo al dibattito internazionale un quadro basato su analisi razionale e conoscenza dei fatti, piuttosto che su parole d’ordine o auspici propagandistici.
L’asimmetria come paradigma militare occidentale
Uno degli elementi più sottovalutati nel dibattito pubblico sul possibile confronto militare diretto con l’Iran riguarda la natura dei conflitti combattuti dagli Stati Uniti (e più in generale dalle potenze occidentali) negli ultimi decenni. Dalla fine della Guerra del Vietnam, Washington ha evitato sistematicamente il confronto diretto con potenze dotate di forze armate paragonabili, preferendo ingaggiare nemici più deboli, privi di una vera aviazione, di difese aeree moderne, di capacità missilistiche strategiche o di una catena di comando integrata.
Le guerre combattute dagli Stati Uniti dal 1991 a oggi – dall’Iraq alla Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia – sono state tutte guerre asimmetriche: campagne in cui l’equilibrio delle forze era schiacciato a favore dell’Occidente, che disponeva del dominio assoluto dello spazio aereo, della superiorità tecnologica, del controllo informativo e satellitare, e di capacità logistiche ineguagliate. Il nemico, spesso mal equipaggiato e frammentato, veniva combattuto in teatri marginali, senza che la sicurezza del territorio americano fosse mai messa in discussione.
Anche in queste condizioni, i risultati sono stati tutt’altro che risolutivi. Gli interventi si sono frequentemente trasformati in conflitti prolungati e costosi, con esiti ambigui o del tutto fallimentari: la caduta di regimi autoritari ha generato vuoti di potere, guerre civili e nuovi attori ostili; le forze occupanti sono rimaste impantanate in contesti culturali e politici di difficile comprensione; l’opinione pubblica occidentale ha progressivamente perso interesse e consenso per le “guerre infinite”.
Un confronto diretto con l’Iran rappresenterebbe un salto di qualità radicale. Si tratterebbe di affrontare uno Stato di circa novanta milioni di abitanti, con una difesa aerea articolata, una rete missilistica distribuita, capacità cibernetiche offensive, una forza navale specializzata nella guerra non convenzionale, e soprattutto la possibilità concreta di colpire in profondità le basi militari statunitensi nel Golfo e gli interessi dei suoi alleati regionali. L’Iran, inoltre, ha dimostrato di saper assorbire sanzioni prolungate, conflitti per procura e campagne di sabotaggio, rafforzando – e non indebolendo – le sue strutture di comando e le sue reti esterne.
Di fronte a uno scenario simile, non è affatto scontato che l’apparato militare statunitense, per quanto potente, sia disposto o capace di impegnarsi in un conflitto ad alta intensità senza esiti rapidi. La mancanza di una strategia di uscita, i rischi di escalation regionale, le conseguenze economiche e umane di una guerra prolungata rappresentano ostacoli che la dottrina militare e politica americana non ha ancora dimostrato di saper affrontare efficacemente.
L’Iran, consapevole di questo quadro, ha costruito la propria dottrina proprio su questi presupposti: non competere sul piano della parità tecnologica, ma rendere ogni eventuale aggressione talmente costosa e imprevedibile da risultare impraticabile. È una logica di dissuasione indiretta che ha, fino a oggi, funzionato. Illudersi di poterla spezzare con un’operazione militare rapida equivale a rimuovere vent’anni di storia strategica recente.
In questo contesto si inserisce anche il comportamento del presidente statunitense Donald Trump, che negli ultimi giorni ha ulteriormente intensificato i toni aggressivi contro Teheran. Il 17 giugno 2025 ha pubblicamente chiesto la “resa incondizionata” dell’Iran, sostenendo di conoscere la posizione della Guida Suprema e lasciando intendere la possibilità di un’azione militare imminente. Queste dichiarazioni, amplificate dai suoi canali social e accompagnate da un’uscita anticipata dal vertice del G7, hanno rilanciato l’ipotesi di un confronto diretto. Tuttavia, vi è un’evidente distanza tra la retorica muscolare esibita a fini elettorali e la realtà delle opzioni strategiche disponibili. Trump, come già accaduto nel corso del suo primo mandato, tende a utilizzare il linguaggio della minaccia e della superiorità per rafforzare la propria immagine interna, senza necessariamente disporre di una volontà politica coerente o di un piano d’azione realistico.
Dietro la facciata dello scontro frontale si intravede, in realtà, una forte cautela: un’America affaticata da due decenni di guerre costose, riluttante a impegnarsi in nuovi conflitti su larga scala, e ben consapevole dei costi politici, economici e militari di una guerra con un attore strutturato come l’Iran. La postura aggressiva serve più a proiettare forza verso l’elettorato nazionale che a preparare realmente un’azione bellica. Anche le strutture militari statunitensi – il Pentagono, i servizi d’informazione, il Dipartimento di Stato – appaiono ben più prudenti di quanto non suggeriscano le dichiarazioni del presidente. In ultima analisi, l’ipotesi di una guerra simmetrica con l’Iran resta improbabile non solo per motivi tecnici, ma perché non corrisponde all’interesse strategico degli Stati Uniti stessi.
L’Iran come attore regionale strutturato
L’Iran non è uno Stato nato da spartizioni coloniali o da processi recenti: è una civiltà statale che affonda le sue radici in più di due millenni di storia. A differenza di molte altre realtà vicinoorientali, sorte da decisioni diplomatiche imposte dall’esterno nel XX secolo, l’Iran possiede una continuità territoriale, culturale e politica che lo rende un unicum nella regione. Il sentimento nazionale iraniano è radicato non solo nella religione, ma anche nella lingua, nella memoria storica e in una tradizione imperiale che ha saputo adattarsi a contesti moderni senza perdere coerenza.
La Repubblica Islamica attuale si fonda su un apparato amministrativo centralizzato, efficiente nel controllo del territorio e nella gestione delle risorse strategiche. Le istituzioni, pur segnate da un’impronta ideologica, seguono una logica gerarchica ben strutturata, in cui l’autorità religiosa, quella militare e quella civile si intrecciano in un sistema complesso ma coordinato. Il Consiglio dei Guardiani, la Guida Suprema, i pasdaran (Guardiani della Rivoluzione) e il governo civile non agiscono in modo disgiunto, ma formano un equilibrio di poteri che permette allo Stato di affrontare crisi interne ed esterne con notevole prontezza.
Il sistema istituzionale della Repubblica Islamica non è facilmente riconducibile alle categorie classiche della scienza politica. Non è una democrazia liberale, ma non si tratta nemmeno di una dittatura. È un assetto ibrido e originale, in cui si combinano elementi religiosi e strumenti di partecipazione popolare, secondo una logica stratificata e sofisticata. Al vertice si trova la Guida Suprema, figura dotata di amplissimi poteri, ma non priva di limiti: viene nominata da un Consiglio degli Esperti eletto a suffragio universale, che teoricamente ha anche il potere di rimuoverla.
Anche gli altri organi fondamentali dello Stato rispondono a un equilibrio peculiare. Il Consiglio dei Guardiani, che controlla la conformità delle leggi alla shari’a e filtra le candidature alle elezioni, è composto per metà da membri scelti dalla Guida e per metà da giuristi nominati dal potere giudiziario. In caso di conflitto istituzionale, interviene l’Assemblea per la Determinazione dell’Interesse, incaricata di dirimere le controversie tra Parlamento, governo e autorità religiose. Esiste un Majles (Parlamento) eletto dal popolo, così come una Presidenza della Repubblica anch’essa espressa dal voto popolare, e pur nei limiti imposti dal sistema, questi organi mantengono una funzione politica non irrilevante.
L’intero ordinamento non è statico, né monolitico. Al contrario, si fonda su un equilibrio dinamico tra istituzioni religiose e rappresentanze civili, che ha dimostrato una notevole capacità di adattamento nel corso del tempo. In Occidente, questo intreccio viene spesso sottovalutato o banalizzato. Ma è proprio questa architettura peculiare – insieme rigida e flessibile – a spiegare la tenuta del sistema iraniano, anche in momenti di grave pressione interna ed esterna.
Sul piano esterno, l’Iran ha costruito nel tempo una rete articolata di alleanze e relazioni strategiche che rappresentano oggi uno dei principali strumenti della sua politica di potenza. Questa rete si è formata attraverso il sostegno costante – materiale, ideologico e operativo – a una galassia di movimenti sciiti o antioccidentali: Hezbollah in Libano, le milizie Hashd al-Shaabi in Iraq, il movimento Ansar Allah (Houthi) nello Yemen, oltre ad attori minori attivi in Afghanistan. A differenza di molte potenze regionali che operano tramite alleanze formali e trattati bilaterali, Teheran ha scelto un modello flessibile, radicato nei territori, spesso basato su legami religiosi, etnici o politici. Questa strategia, definita da alcuni analisti “profondità strategica” o “asse della resistenza”, consente all’Iran di estendere la propria influenza ben oltre i suoi confini, intervenendo nelle crisi regionali con modalità indirette ma efficaci.
Ogni focolaio di instabilità nel Vicino Oriente può trasformarsi, grazie a questa rete, in un’occasione per rafforzare il peso negoziale dell’Iran nei consessi internazionali. Le sue alleanze, pur non sempre omogenee o formalizzate, garantiscono un potenziale deterrente contro eventuali attacchi diretti, rendendo ogni aggressione una mossa dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti per l’intera regione.
Dal punto di vista militare, la Repubblica Islamica ha sviluppato una dottrina difensiva fortemente autonoma, concepita per compensare l’assenza di alleati strategici statuali e per rispondere a una possibile superiorità tecnologica del nemico. Il suo arsenale missilistico – che include vettori a corto, medio e lungo raggio – è tra i più vasti e diversificati del continente asiatico. La dottrina prevede l’impiego massiccio di razzi e missili per saturare i sistemi di difesa aerea degli avversari, con l’obiettivo di colpire basi militari, infrastrutture critiche e unità navali nel Golfo Persico.
Accanto alla forza missilistica, Teheran ha investito in modo significativo nello sviluppo di capacità cibernetiche, nella guerra elettronica e nella produzione di droni da ricognizione e da attacco, molti dei quali sono stati già testati con successo in vari contesti regionali. Queste tecnologie non solo rafforzano la difesa nazionale, ma aumentano il costo politico, militare e simbolico per qualunque potenza straniera intenzionata a intervenire contro l’Iran.
Un ruolo particolarmente rilevante è svolto dalla marina cosiddetta “asimmetrica”, composta da piccole unità veloci, sommergibili leggeri, droni marini e batterie costiere mobili. Questo dispositivo consente all’Iran di minacciare in modo credibile il traffico nello Stretto di Hormuz, il collo di bottiglia più sensibile del commercio petrolifero globale. Un blocco anche solo parziale di questa via marittima – attraverso mine, attacchi a sorpresa o l’impiego di missili antinave – sarebbe sufficiente a scatenare una crisi energetica mondiale, con effetti immediati sui mercati finanziari, sulle forniture e sulle economie più vulnerabili, in particolare quelle europee e asiatiche. La sola possibilità di interrompere il flusso del greggio rappresenta, già di per sé, una potente arma negoziale.
In questo quadro, l’Iran si presenta non solo come una potenza militare in senso stretto, ma come un attore regionale dotato di una propria visione strategica, di strumenti operativi versatili e di un’impronta diplomatica autonoma. La sua influenza non dipende dalla pura forza militare, bensì da una combinazione di capacità tecnologiche, radicamento ideologico, presenza capillare nel territorio e pragmatismo tattico. Alla luce di questi elementi, l’idea di poter rovesciare il regime iraniano con un intervento esterno – come avvenne con l’Iraq di Saddam Hussein o la Libia di Muammar Gheddafi – appare del tutto scollegata dalla realtà. L’Iran non è uno Stato fragile, privo di coesione interna o dipendente da una figura carismatica isolata. È una potenza regionale strutturata, dotata di istituzioni autonome, di una cultura politica radicata e di una capacità militare autosufficiente. Trattarlo come un semplice “problema di sicurezza” da neutralizzare equivale a ignorare la profondità delle sue risorse statali e la complessità dei suoi legami sociali e internazionali. Pensare di disarticolarlo rapidamente, come se fosse un’anomalia temporanea o un ostacolo tecnico da rimuovere, non è solo illusorio: è semplicemente impossibile.
La fragilità degli alleati regionali
Una guerra su vasta scala contro l’Iran avrebbe effetti destabilizzanti immediati per diversi Stati della regione considerati tradizionali alleati dell’Occidente. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Giordania si reggono su equilibri politici ed economici delicati, fondati su una combinazione di autoritarismo, distribuzione clientelare delle rendite energetiche e repressione sistematica del dissenso. In condizioni di relativa stabilità, questi regimi riescono a mantenere il controllo attraverso apparati di sicurezza efficienti, censura dei media, cooptazione delle élite religiose e uso selettivo del benessere economico per placare il malcontento.
Tuttavia, in uno scenario di conflitto aperto con l’Iran, questi assetti si troverebbero esposti a rischi enormi, sia sul piano esterno che interno. Da un lato, le basi militari statunitensi presenti in questi Paesi diventerebbero immediatamente obiettivi di rappresaglie iraniane, dirette o per mezzo di attori armati locali. Teheran ha già dimostrato in passato – ad esempio in Yemen e in Iraq – la capacità di colpire attraverso milizie alleate o sistemi missilistici a lungo raggio. Dall’altro, la guerra favorirebbe un’ondata di malcontento popolare, spinta dall’impennata dei prezzi, dalla disoccupazione e da una narrativa antioccidentale che in molti ambienti religiosi e giovanili gode già di ampia presa.
La chiusura dello Stretto di Hormuz – anche solo parziale – farebbe schizzare il prezzo del petrolio a livelli insostenibili per l’economia globale, ma metterebbe in crisi soprattutto le economie locali, che si fondano su un equilibrio tra esportazione energetica e importazione di beni di consumo. Il blocco dei traffici marittimi, la caduta delle entrate petrolifere e il panico sui mercati internazionali rischierebbero di travolgere questi regimi già sottoposti a tensioni sociali latenti. Le popolazioni, in gran parte giovani, disoccupate e politicamente escluse, potrebbero reagire con proteste di massa, rivolte o forme di radicalizzazione difficilmente controllabili.
A rendere il quadro ancora più instabile è la dipendenza strutturale di questi Stati dal sostegno esterno, in particolare militare, logistico e tecnologico. Senza il sostegno costante degli Stati Uniti e dei loro alleati, molti di questi regimi faticano a mantenere il controllo sulle proprie periferie, sulle minoranze religiose o sulle zone tribali. In caso di crescendo dello scontro, Washington si troverebbe a dover difendere non solo i propri interessi diretti, ma anche la tenuta politica di governi vulnerabili, rischiando di restare impantanata in una spirale di interventi e crisi successive.
Infine, va considerato l’effetto domino geopolitico. Il crollo o l’indebolimento dei partner arabi dell’Occidente aprirebbe spazi di influenza ad altri attori regionali e globali, a cominciare da Turchia, Russia e Cina, pronti a inserirsi nel vuoto lasciato dal caos. La fine dell’equilibrio tra potenze nel Vicino Oriente potrebbe tradursi in una nuova stagione di conflitti a catena, con effetti devastanti non solo per la sicurezza regionale, ma per la stabilità globale.
Coesione interna e tenuta dello Stato iraniano
Contrariamente alle rappresentazioni prevalenti in molti ambienti politici e mediatici occidentali, l’Iran non è un Paese sull’orlo del collasso. La narrazione che lo dipinge come una struttura fragile, minata da tensioni etniche e sociali pronte a esplodere al primo shock esterno, si basa spesso su analisi approssimative o su desideri politici più che su valutazioni empiriche. In realtà, l’Iran è uno Stato unitario, con una forte identità collettiva e una lunga tradizione di centralismo amministrativo e coesione nazionale.
Dal punto di vista religioso, oltre il 90% della popolazione iraniana si identifica come sciita duodecimana, compresi molti appartenenti alle minoranze etniche più numerose, come gli azeri, i curdi sciiti e una parte dei baluchi. Questo dato è rilevante: mentre in altri Paesi della regione – come l’Iraq o il Libano – le divisioni confessionali rappresentano una faglia costante di instabilità, in Iran la relativa omogeneità religiosa contribuisce a rafforzare l’integrazione ideologica e simbolica tra centro e periferia. L’identificazione collettiva con l’Imamato sciita e con la memoria della rivoluzione islamica del 1979 ha fornito al regime, per decenni, una base di legittimità che ha superato le sole appartenenze etniche.
Le minoranze esistenti, pur numericamente consistenti in alcune aree di confine (curdi, arabi del Khuzestan, baluchi, turkmeni), non dispongono di strutture autonome di potere, né di un’organizzazione politico-militare paragonabile a quella che ha favorito, ad esempio, la frammentazione dell’Iraq o della Siria. Il controllo capillare del territorio da parte delle autorità centrali, attraverso i pasdaran, le forze di sicurezza e i basij (milizie volontarie), impedisce la formazione di enclave indipendenti. Inoltre, l’apparato scolastico, culturale e religioso contribuisce alla costruzione di una narrativa nazionale in cui la diversità linguistica ed etnica viene in parte assorbita, in parte neutralizzata.
Il consenso ideologico, pur non più compatto come nei primi anni dopo la rivoluzione, resta significativo. Nelle aree rurali, nei segmenti religiosi della società, tra i militari, gli impiegati pubblici e le fasce popolari che beneficiano dei sussidi statali, l’identificazione con la Repubblica Islamica – o almeno con il principio di difesa dell’indipendenza nazionale – continua a essere viva. Le proteste urbane, cicliche e sempre più frequenti, sono la spia di un malessere reale, ma non ancora in grado di scardinare le fondamenta dello Stato. Al contrario, in momenti di forte pressione esterna, come sanzioni o minacce militari, si osserva spesso un consolidamento del fronte interno, mosso da sentimenti di orgoglio nazionale e di autodifesa identitaria.
La struttura dello Stato iraniano è pensata per resistere alle crisi prolungate. Il sistema istituzionale – già descritto nei capitoli precedenti – integra elementi teocratici e forme di partecipazione popolare, rendendo l’ordine politico più adattabile di quanto si creda. In caso di disordini localizzati, lo Stato è in grado di rispondere con prontezza sia sul piano repressivo sia su quello della gestione simbolica e comunicativa. L’assenza di una dialettica politica aperta non ha impedito, fino ad oggi, una continua rielaborazione delle priorità e degli equilibri tra le diverse anime del regime.
Alla luce di questi fattori, l’idea di una “frantumazione” dell’Iran lungo linee etniche o religiose – magari immaginando la formazione di un Kurdistan indipendente a nord-ovest, un Baluchistan separatista a sud-est o una repubblica araba nel Khuzestan – appare del tutto infondata. Si tratta più di una costruzione propagandistica che di una previsione realistica. L’Iran non solo possiede gli strumenti per evitare un simile scenario, ma ha già dimostrato, in passato, una straordinaria capacità di assorbire shock interni e sopravvivere a momenti di isolamento internazionale, crisi economica e guerre prolungate.
L’illusione israeliana del sovvertimento politico
In più occasioni, esponenti di primo piano del governo israeliano hanno auspicato un cambio di regime in Iran, nella convinzione che l’eliminazione della Repubblica Islamica costituirebbe la condizione preliminare per la stabilizzazione della regione e la definitiva neutralizzazione della minaccia strategica rappresentata da Teheran. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni pubbliche e dei richiami ideologici, manca completamente una visione operativa chiara su ciò che dovrebbe accadere dopo un eventuale rovesciamento del governo iraniano.
Quale forza politica, con quale legittimità e con quale sostegno interno ed esterno, potrebbe realisticamente sostituire l’attuale classe dirigente iraniana? Non esistono soggetti credibili in grado di assumere la guida del Paese mantenendo al tempo stesso coesione interna e stabilità regionale. Le opposizioni in esilio sono frammentate, prive di un radicamento nel territorio e, in molti casi, screditate presso l’opinione pubblica iraniana. Le proteste interne, sebbene ricorrenti, non hanno finora espresso una classe dirigente politica organizzata, né una piattaforma programmatica condivisa. Pensare che il collasso del sistema porterebbe automaticamente a un Iran più stabile, aperto e filooccidentale è, più che una previsione analitica, un atto di fede privo di basi empiriche.
Anche dal punto di vista militare e operativo, l’idea di innescare un processo di sovvertimento politico tramite pressioni esterne appare irrealistica. Israele, pur dotato di una sofisticata capacità di intelligence e di forze armate avanzate, non è riuscito, dopo venti mesi di guerra, a sradicare definitivamente un attore non statale come Hamas, operativo in un territorio ristretto e sotto costante assedio. È quindi legittimo dubitare che possa provocare, direttamente o indirettamente, la caduta di un apparato statale strutturato come quello iraniano, che dispone di strumenti di controllo, risorse strategiche e legittimazione ideologica ben più profondi.
In questo quadro, le dichiarazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu in favore del sovvertimento politico sembrano rispondere più a esigenze di politica interna che a una riflessione strategica articolata. Il richiamo alla minaccia iraniana serve spesso a rafforzare il consenso nei settori più oltranzisti della società israeliana, a consolidare l’immagine del primo ministro come “uomo forte” in un contesto politico frammentato, e a spostare l’attenzione dalle proprie vicende giudiziarie e dalle difficoltà nella gestione della crisi a Gaza.
Più che un progetto fondato su una visione lucida degli equilibri regionali, il “cambiamento di regime” in Iran si configura come una formula retorica, impiegata per rafforzare la narrativa di un conflitto esistenziale tra Israele e la Repubblica Islamica. Una formula che, se trasformata in azione concreta, rischierebbe di aprire scenari ben più caotici e incontrollabili rispetto allo status quo.
Conclusione
L’Iran, con tutte le sue contraddizioni, i limiti del suo sistema politico e le tensioni sociali interne, rimane uno Stato solido e strutturato, dotato di una continuità storica che affonda le radici in secoli di tradizione imperiale e amministrativa. Le sue istituzioni, pur lontane dai modelli liberali occidentali, operano secondo una logica consolidata, nella quale elementi religiosi, militari e civili interagiscono in un sistema capace di assorbire le pressioni esterne e interne senza collassare.
La popolazione iraniana, sebbene attraversata da tensioni economiche, culturali e politiche, condivide una matrice identitaria che si fonda sul senso di appartenenza nazionale, sul rifiuto delle ingerenze straniere e sulla valorizzazione della sovranità. Anche le componenti più critiche nei confronti del governo tendono, in contesti di minaccia esterna, a riconoscersi in un orizzonte collettivo di difesa e autodeterminazione.
In questo quadro, l’idea di provocare il crollo della Repubblica Islamica attraverso un’operazione di sovvertimento politico, una pressione militare o una destabilizzazione economica, appare priva di fondamento. Tale prospettiva si basa su una lettura distorta dello Stato iraniano, che ne sottovaluta la complessità interna, la coesione istituzionale e la capacità di controllo del territorio. È una visione più ideologica che strategica, alimentata da aspettative irrealistiche e da analogie improprie con contesti del tutto differenti.
Il caso iraniano conferma che la realtà geopolitica è ben più resistente di qualsiasi costruzione ideologica. Essa non si adatta facilmente agli schemi semplificati del potere o della propaganda. Per questo motivo, ogni approccio nei confronti dell’Iran dovrebbe basarsi su strumenti analitici rigorosi, su una comprensione profonda delle sue dinamiche storiche e su una visione diplomatica fondata non sulla forza, ma sulla responsabilità.
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