Di fronte all’inasprimento dell’offensiva militare israeliana e al crescente isolamento internazionale, l’immagine di Benjamin Netanyahu è sempre più compromessa. Tuttavia, la recente attenzione mediatica e diplomatica sulla sua figura rischia di sviare il dibattito da una realtà ben più inquietante: Netanyahu, come spiegavo in un articolo uscito qualche giorno fa[1], non è l’anomalia, ma il sintomo più evidente di un sistema coloniale consolidato e ormai radicalizzato, che non si fermerà con la sua eventuale caduta.

Gli Stati Uniti, storici alleati dello Stato di Israele, sembrano oggi adottare una linea ambigua. Da un lato, condannano alcuni eccessi del governo Netanyahu e auspicano un ritorno alla “moderazione”; dall’altro, continuano a fornire armamenti, copertura diplomatica e aiuti miliardari a Tel Aviv. Una postura analoga è assunta da molti Paesi europei, che a parole invocano la “pace” e il “diritto internazionale”, imponendo anche sanzioni mirate contro alcuni coloni israeliani particolarmente violenti. Tuttavia, queste misure restano simboliche e marginali, mentre nei fatti l’Unione Europea e i suoi Stati membri mantengono relazioni economiche, militari e politiche stabili con Israele, contribuendo così al consolidamento dell’occupazione. In questo contesto, la campagna di delegittimazione personale contro Netanyahu appare più come un’operazione di facciata: l’obiettivo non è cambiare rotta, ma cambiare immagine. Sostituire Netanyahu con figure più “presentabili” come Yair Lapid servirebbe a proseguire indisturbati la stessa politica di apartheid, colonizzazione e repressione, ma con maggiore efficienza e meno scandalo.

Ma se negli Stati Uniti e in Europa cresce il malcontento per l’attuale dirigenza israeliana, in patria Netanyahu resta il perno di una coalizione che poggia sul sostegno dei partiti dell’estrema destra religiosa e nazionalista. Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir — ministri che inneggiano apertamente al suprematismo ebraico — vedono in lui il premier ideale: debole, isolato, sotto processo e, dunque, completamente ricattabile. La caduta del governo significherebbe per Netanyahu affrontare i procedimenti giudiziari da semplice cittadino, senza l’ombrello protettivo dell’incarico. In cambio della sua sopravvivenza politica, l’estrema destra sionista ottiene carta bianca per portare avanti il proprio programma ideologico.

Quel programma non è un mistero: espansione illimitata delle colonie, cancellazione del popolo palestinese e annessione de facto dei territori occupati. Da tempo si parla apertamente del “Grande Israele”, un’entità biblica che si estenderebbe dal Nilo all’Eufrate, come teorizzato dal rabbino Meir Kahane, le cui idee razziste e violente sono oggi riabilitate nei palazzi del potere israeliano.

A sostenere questa agenda ci sono oggi circa 700.000 coloni armati che vivono nei territori palestinesi occupati. Molti di loro sono mossi da convinzioni messianiche e rappresentano una forza paramilitare di fatto. In uno scenario di destabilizzazione politica o cedimenti verso compromessi diplomatici, una parte di questo blocco è pronta a reagire, anche con la violenza, cosicché l’ipotesi di una guerra civile non può più essere liquidata come fantascienza: il gruppo sociale dominante in Israele ne è consapevole, per cui continua a concedere spazio e impunità a formazioni che, in altri paesi, sarebbero considerate terroristiche.

In questo senso, i coloni estremisti rappresentano per Israele ciò che i mujahidin afghani rappresentarono per gli Stati Uniti negli anni ’80: un mostro cresciuto all’interno di una strategia geopolitica, armato, legittimato e protetto per combattere un nemico designato — allora l’Unione Sovietica, oggi gli Arabi e i Palestinesi. Quel sostegno, apparentemente tattico, contribuì alla nascita di Al-Qaeda, un’organizzazione che avrebbe poi colpito proprio i suoi ex patroni. Allo stesso modo, Israele ha alimentato e armato le frange più radicali del movimento dei coloni, sperando di poterle usare come leva interna, ma ora si ritrova prigioniero di una dinamica che non controlla più. Come il dottor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley, che perde il controllo della creatura generata dalle sue stesse mani, l’apparato statale israeliano rischia oggi di essere travolto dal mostro che ha contribuito a creare. La combinazione di fanatismo ideologico, impunità e armi distribuite a coloni fanatici rappresenta una minaccia concreta, che lo stesso gruppo sociale dominante finge di non vedere — o, peggio, alimenta in modo calcolato. E mentre il centro politico cerca una via d’uscita indolore, il popolo palestinese continua a pagare il prezzo più alto, nell’indifferenza di chi preferisce parlare di stabilità, anziché di giustizia.

In tutto questo, i Palestinesi sono gli unici a non avere voce. Sottoposti a bombardamenti, assedi, demolizioni e violenze quotidiane, non vedono nessuna differenza sostanziale tra un governo Netanyahu e un governo Lapid. Per loro, la tragedia non è l’identità del primo ministro israeliano, ma la continuità storica del progetto coloniale sionista, che da decenni nega il diritto all’autodeterminazione, alla terra, alla vita.

La cosiddetta “comunità internazionale”, e in particolare l’Europa, deve decidere se continuare a giocare la carta della “moderazione” come maschera per la complicità, o se iniziare finalmente a interrogarsi sul vero nodo della questione: l’esistenza di un regime criminale nato dall’usurpazione del territorio palestinese, dal terrorismo e dalla pulizia etnica.


NOTE

[1] Vedi Gabriele Repaci, “Il capro espiatorio Netanyahu”, pubblicato il 3 giugno, su Eurasia – Rivista di Studi geopolitici https://www.eurasia-rivista.com/il-capro-espiatorio-netanyahu-e-lipocrisia-delloccidente/


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