Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato intervistato da Adriano Scianca per “Il Secolo d’Italia” a proposito del suo ultimo libro – Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario – scritto assieme a Pietro Longo (redattore di “Eurasia”, ricercatore IsAG). Riproduciamo qui l’intervista e l’articolo di corredo di Adriano Scianca, entrambi apparsi nell’edizione odierna del quotidiano.

«Macché Twitter, i ribelli sono islamisti»

Lo studioso Daniele Scalea: «Nei nostri media dominano doppiopesismo e superficialità»

 

Macché “popolo di Facebook”, qui c’è la Fratellanza musulmana che si sta ramificando in tutto il mondo islamico. Ad affermarlo è Daniele Scalea, redattore di Eurasia e segretario scientifico del neonato Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag), primo centro di studi geopolitici nel nostro Paese. Coautore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe (Avatar, € 18,00, pp. 164), Scalea dà una versione della “primavera araba” diversa da quella dei media.

 

Allora, Scalea: ha seguito la storia della finta blogger siriana?

Sì, mi sembra sintomatica del livello di informazione che c’è sulle rivolte arabe. Un livello che definirei infimo.

 

Addirittura?

Certo. Pensiamo alle false notizie diffuse sul caso libico: dai 10 mila morti iniziali alle fosse comuni fino ai bombardamenti sugli oppositori. Purtroppo da un lato c’è chi diffonde notizie false ad arte, dall’altro c’è la scarsa professionalità dei nostri giornalisti.

 

Qualche esempio?

Be’, a volte si citano non meglio precisate “fonti dell’opposizione”. Chi sono? E perché dovrebbero essere più attendibili delle fonti ufficiali? Per non parlare di quando queste fonti vengono occultate e la loro versone diventa la verità sic et simpliciter…

 

E poi non mancano doppiopesismi…

Esatto. Prendiamo il Bahrein. Anche lì esistono filmati della polizia che spara sui manifestanti, ma non fanno notizia. Anche lì, come in Libia, il regime usa mercenari, ma il fatto non viene denunciato con lo stesso clamore.

 

E questo avviene perché il Bahrein è filo-occidentale?

Direi proprio di sì.

 

A proposito di falsificazioni: lei crede alla storia del “popolo di Facebook”?

No, non ha riscontri reali, basta guardare i dati sulla diffusione di internet nelle zone interessate. È pur vero che inizialmente, in Egitto, alcune organizzazioni giovanili hanno sfruttato i social network. Ma costoro non sarebbero mai riusciti a tirar fuori una protesta di massa. Ciò si è avuto solo quando è scesa in campo la Fratellanza musulmana. Che non ha successo grazie a internet, ha successo perché funge da “stato sociale” laddove il governo liberalizza e smantella.

 

Quindi ci sono i Fratelli musulmani dietro a tutto…

In Egitto mi sembra evidente il patto militari-Fratelli musulmani per gestire la transizione e creare uno stato che seguirà probabilmente il modello turco. Ma la Fratellanza è ormai radicata un po’ in tutti i Paesi e ha contatti con tutti gli attori in gioco.

 

Ma come, non erano rivolte laiche e occidentaliste, queste?

Macché, il minimo comune denominatore è proprio l’islamismo. Del resto chi è stato in Egitto ha parlato di slogan contro Israele e di accuse a Mubarak di essere troppo filo-occidentale. Uno studio di qualche anno fa sui combattenti stranieri in Iraq, molti di loro legati ad Al Qaeda, stilò una classifica dei Paesi di provenienza di queste persone. Sa da dove venivano la maggior parte di loro?

 

Afghanistan? Iran? Sudan?

Libia. Precisamente dalla regione di Bengasi…

 

(ad.sc.)

 

***

 

 

Quella “primavera araba” di bugie e finti blogger

 

La dissidente siriana? È tarocca, come molte informazioni sulle rivolte maghrebine

 

Adriano Scianca

 

D’accordo, lo stereotipo vuole le donne omosessuali in possesso di tratti particolarmente mascolini, ma la blogger siriana lesbica Amina Arraf forse esagera. Amina ha infatti il volto di Tom, barbuto 40enne americano. Ah, che brutti scherzi gioca internet. Soprattutto ai commentatori frettolosi, agli analisti da Twitter, ai geopolitici laureati su Google. E più in generale a tutti quelli che bevono tutto ciò che il circo mediatico somministra loro.

 

La beffa di Tom MacMaster

 

Tom MacMaster, a modo suo, merita un plauso. Prima dalla sua abitazione di Stone Mountain, Georgia, poi dall’università di Edimburgo, dove stava seguendo un master, l’uomo ha finto per mesi di essere Amina, una dissidente siriana – gay, per giunta – pronta a immolarsi per la causa della libertà e dell’informazione non allineata. Le sue cronache sulla “repressione” attuata dal perfido Bashir al-Assad hanno fatto il giro del mondo. Era il trionfo del citizen journalism, la rivincita della comunicazione spontanea, il coraggio che viaggia sulla rete. Non era vero niente. Tom si era inventato tutto. Poi ha chiesto scusa, cosa che certo non basterà a testate “autorevoli” come The Guardian – che sulla storia di Amina avevano puntato con convinzione – per recuperare credibilità. E qui si aprirebbe una parentesi anche sulla stampa estera che con vezzo provinciale continua a essere dipinta dalle nostre parti come la bocca della verità. Ma questa è un’altra storia.

 

Fosse comuni” a Tripoli

 

La storia della cosiddetta “primavera araba”, del resto, è un po’ tutta costellata di episodi simili. Un po’ per l’ingenuità, la faciloneria, la superficialità di certi operatori dell’informazione, un po’ per le imbeccate interessate di qualche furbacchione, un po’ per le due cose combinate insieme. Prendiamo il caso libico. Ok, Gheddafi non è precisamente un leader riformista e illuminato. Diciamo pure che è un satrapo un po’ megalomane. Talvolta ha la mano pesante nei confronti del suo popolo. Ce l’ha da 40 anni, a dir la verità, e la cosa non ha mai fatto troppo scalpore. Poi il vento cambia, diciamo intorno al febbraio di quest’anno. E allora una mattina apriamo il giornale troviamo la cifra di 10.000 (diecimila) vittime civili causate dalla repressione del colonnello. La cifra viene rilanciata dalla tv araba al-Arabiya, che cita le dichiarazioni del componente libico della Corte Penale Internazionale, Sayed al Shanuka, che parla anche di 50 mila feriti. Sono trascorsi pochi giorni dallo scoppio delle rivolte e certi numeri, raggiunti in così breve tempo, fanno impressione. Tutti sbattono la cifra in prima pagina. Poi non se ne parlerà più. Le stime dei giorni successivi saranno tutte molto, molto, molto inferiori a quei 10 mila morti. Ma intanto il panico mediatico è stato scatenato, il resto non conta. Lo stesso dicasi per le “prove” delle fosse comuni libiche. Si tratta di una foto diffusa il 22 febbraio che vede una decina di fosse (comunque “singole”, non certo “comuni”) in allestimento. Il tutto in una località segreta, per nascondere il frutto della repressione del dittatore? Macché, quello ritratto nella foto è il normale cimitero Ashaat di Tripoli.

 

I “ragazzi di Facebook”

 

E che dire della balla colossale della rivolta nata da Facebook, da Twitter, da YouTube? Che dire della frottola di una rivoluzione spacciata per spontanea, orizzontale, improntata sui “diritti” e le “libertà” intesi all’occidentale? È il solito vecchio vizio di casa nostra: ricondurre l’ignoto al noto, la complessità allo schema semplice semplice. E così tutti i complicati fattori culturali, religiosi, sociali, politici e geopolitici che hanno portato alle rivolte arabe vengono occultati dietro la storiella dei social network rivoluzionari. Nel loro fondamentale libro Capire le rivolte arabe (vedi box), Pietro Longo e Daniele Scalea sono andati a vedere i dati. E hanno scoperto che «tra i paesi attualmente in fermento, solo il Bahrein ha una diffusione elevata di internet (circa il 50% della popolazione), mentre in Yemen e in Libia è praticamente nulla, in Egitto, Siria e Algeria bassissima. In generale, nel Vicino Oriente meno del 30% della popolazione ha accesso a internet: il dato in Africa si riduce a poco più del 10%, anche se gli utenti si concentrano nella parte settentrionale del continente. In Siria, Libia, Algeria, Iran e altri paesi solo una percentuale infima del già ridotto bacino d’utenza internet usa il portale Facebook». E quindi? I rivoltosi del Maghreb sono tutti delinquenti o agenti del “Grande Satana”? No. Forse hanno persino ragione. Ma dovremmo smetterla di farci le cose più semplici di quelle che sono…


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