E’ un periodo di grandi dibattiti interni circa il reale legame che unisce l’amministrazione italiana ai più alti vertici delle istituzioni europee. Le recenti rivolte maghrebine, con le inevitabili conseguenze sul piano degli interessi italiani coinvolti in una situazione simile, soprattutto in materia di immigrazione, hanno in qualche maniera giustificato e incentivato le posizioni di quanti, antieuropeisti per convinzione, rilevavano la piena inefficienza di un sistema sovrastatale comune, assolutamente incapace di fornire una risposta univoca a una emergenza che non poteva (e non doveva) interessare soltanto gli Stati geograficamente più coinvolti.

Trascendendo dalle mere posizioni politiche, dalle scelte individuali di attori che si pongono a favore o in netto contrasto rispetto a un’idea comune di integrazione infrastatale, poco si riesce ad addurre in appoggio ad una realtà non ancora o non pienamente realizzata rispetto agli intenti originari dei padri fondatori del concetto di europeismo.

Altrettanto vero è che le posizioni governative dei singoli Stati subiscono periodicamente delle accelerazioni o delle imbarazzanti e brusche frenate a seconda del sostegno che parti interne alla maggioranza politica rivolgono alle primarie necessità di una presenza effettiva nei tavoli decisionali della legislazione comunitaria.

E’ stato così con il governo di Prodi, in convinto appoggio alle dinamiche europee, tanto da subire sul piano interno seri contraccolpi a livello di consensi, soprattutto per la politica di austerity adottata col fine di condurre l’Italia in piena zona euro. Ed è la stessa situazione attuale a dimostrare ancora una volta quanto il raggiungimento di politiche europee comuni sia molto spesso in balia di atteggiamenti governativi nazionali che, se non propriamente convinti nell’intraprendere un percorso simile, generano incertezza e incidono, il più delle volte negativamente, nel potere decisionale dei rappresentanti nazionali e nel delicato processo in cui si sviluppano gli interventi legislativi europei necessariamente da recepire nel quadro normativo statale.

Va da sé che le intenzioni dei singoli governi circa l’appoggio da offrire all’ampio ambito delle relazioni internazionali può sottilmente essere dedotto dall’attenzione che questi rivolgono alle necessarie rappresentanze nazionali da investire nel più vasto teatro delle istituzioni estere.

 

E su questo filone di pensiero non può non destare una particolare attenzione lo status attuale in cui si trova l’Italia (soprattutto come uno dei Paesi fondatori delle istituzioni comunitarie) a seguito delle dimissioni del Ministro per le politiche europee, Ronchi, nel novembre dello scorso anno.

Da questa data, infatti, il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio assiste all’imbarazzante situazione di una deleteria assenza nella guida di un Istituto creato appositamente per favorire e allo stesso tempo potenziare una stabile rappresentanza italiana nel tavolo decisionale europeo.

In Italia il Ministero per le politiche europee ha una storia relativamente recente. Per lunghi anni, in seguito alla firma dei primi trattati di adesione all’Unione, il necessario elemento di raccordo tra le Comunità europee e l’Amministrazione nazionale continuava a essere riconosciuto nello stesso Ministero degli affari esteri, sebbene non sempre esso riuscisse a coordinare eventuali contrasti con gli altri settori ministeriali.

Con l’amplificarsi degli obblighi derivanti dall’ingresso in Europa, inevitabilmente si acuì anche la necessità di istituire un organo che, agendo con l’autorità del Governo, riuscisse a mediare i contrasti tra le Amministrazioni.

La scelta cadde dunque sulla decisione di realizzare un apposito Dipartimento istituito proprio presso la Presidenza del Consiglio, coadiuvando il Presidente del Consiglio nel coordinamento tra obblighi europei e corrispondenti adeguamenti nazionali.

Istituito con legge 16 aprile 1987, n. 183 [http://www.normattiva.it/dispatcher?service=213&fromurn=yes&datagu=1987-05-13&annoatto=1987&numeroatto=183&task=ricercaatti&elementiperpagina=50&redaz=087U0183&newsearch=1&classeprv=1&paginadamostrare=1&tmstp=1307216679568], il Dipartimento veniva propriamente pensato come un elemento necessario affinché, nell’iter di formazione degli Atti dell’Unione, l’Italia potesse essere puntualmente rappresentata, eventualmente anche incidendo sul contenuto e sulla adozione dell’atto stesso.

Il lungo processo di integrazione rese poi inevitabile un adeguamento nel tempo della normativa originaria [http://www.normattiva.it/dispatcher?service=213&datagu=1987-05-13&redaz=087U0183&task=showaggiornamentoatto&datavalidita=null], che subì quindi modifiche e potenziamenti fino ad arrivare alla disciplina tuttora vigente, regolata con la legge 4 febbraio 2005, n. 11 [http://www.parlamento.it/parlam/leggi/05011l.htm].

Quest’ultima, nell’art. 3 e relativamente alla partecipazione del Parlamento nazionale al processo di formazione delle decisioni comunitarie, affidando al Dipartimento (o, in alternativa, alla Presidenza del Consiglio) l’onere di trasmettere alle Camere gli atti predisposti, ne prevede anche il compito di assicurare a queste un’informazione qualificata e tempestiva sui progetti trasmessi, affinché gli organi parlamentari competenti possano formulare opportune osservazioni, nonché riferire in ordine alle posizioni che il Governo intende assumere nell’ambito delle riunioni del Consiglio e all’esito delle relative risultanze. Allo stesso tempo, come organo interno alla macchina governativa, esegue consultazioni fra più uffici dei ministeri competenti, ovvero riunioni interministeriali tra più ministeri competenti nella medesima materia, per i quali la stessa legge istituisce, all’interno del Dipartimento, il CIACE (Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei), a cui partecipano il Ministro degli affari esteri, il Ministro per gli affari regionali, nonché “gli altri Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno”.

Inoltre, la legge del 2005, relativamente ai compiti da affidare al governo e al proprio Dipartimento, giunge a definire in maniera più dettagliata la disciplina della legge comunitaria, già prevista fin dal 1989 dalla legge La Pergola.

Con tale legge, in perfetta sintonia con lo spirito delle direttive europee, che vincolano lo Stato cui sono rivolte solo per quanto attiene il risultato, lasciando poi libero il legislatore di intervenire con forme e mezzi propri, è affidato al Ministro per le politiche europee il compito di redigere, entro il 31 gennaio di ogni anno, un disegno di legge recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”. In tal modo, l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitario è assicurato dalla legge comunitaria annuale, nella cui relazione dinnanzi al Parlamento, il Dipartimento deve riferire sullo stato di conformità normativo raggiunto e sullo stato di eventuali procedure di infrazione, fornire l’elenco delle direttive attuate o da attuare e più in generale esporre la posizione assunta dal rappresentante italiano, in linea con le posizioni governative, nella  discussione contenutistica esposta in sede europea.

A livello interno, dunque, il Ministero gioca da focal point nell’importantissimo svolgimento delle cosiddette fasi ascendente e discendente delle politiche comunitarie, in quel percorso che va dalla formazione della normativa europea fino alla fase conclusiva del recepimento interno.

Ma svolge allo stesso tempo un significativo ruolo di rappresentanza europea in una sede in cui, per motivi logistici, non sempre avrebbe modo di presiedere il Presidente del Consiglio in persona.

Sul piano esterno, ad esempio, esercita un ruolo di coordinamento anche nel contributo di attuazione della Strategia di Lisbona, inteso come l’accordo stipulato tra Capi di Stato e di Governo nel Consiglio europeo di Lisbona nel 2000, quando venne concordato l’obiettivo di far diventare l’Unione una economia altamente competitiva a livello internazionale, anche promuovendo una potenziata coesione sociale e una crescita economica sostenibile. Media inoltre con le istituzioni comunitarie nella prevenzione dei contenziosi e nella gestione delle operazioni atte a risolvere eventuali procedure di infrazione.

Sebbene ogni norma in precedenza citata preveda che siano “Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie” i diretti destinatari di ogni singola delega, evidente sembrerebbe dedurre che nella stessa legge che nel tempo istituiva il Dipartimento vi fosse una ractio a fondamento dell’esigenza di creare una struttura maggiormente stabile, in grado di contribuire significativamente all’operato del governo italiano nella realizzazione dell’integrazione con l’Europa. Parrebbe pertanto poco coerente l’inerzia attuale del governo italiano nel mantenere una situazione di pesanti lacune in un piano di relazioni internazionali molto spesso messo in discussione negli ultimi mesi.

Le emergenze che di recente hanno interessato in prima linea l’Europa hanno più volte rischiato di incrinare i rapporti istituzionali tra questa e l’Italia. Soprattutto le vicende libiche, con la particolare posizione dell’Italia, inizialmente poco favorevole a interventi diretti alla persona di Gheddafi; seguendo poi con la crisi tunisina, che ci ha visto teatri di aspri dibattiti con la Francia in tema di immigrazione e libera circolazione delle persone negli spazi Schengen. Tutte situazioni che, in aperto e spesso polemico contrasto con le istituzioni comunitarie hanno inevitabilmente avvantaggiato e accelerato il processo di crescente visibilità di altri Stati, quali Francia e Germania.

Il mantenimento della situazione attuale, con una posizione vacante in Europa che dura ormai da sette mesi, potrebbe facilmente essere interpretato come una mancanza di attenzione e considerazione rispetto alle decisioni che di volta in volta impegnano i singoli Stati.

Lasciare che i compiti vengano comunque legittimamente assolti dalla Presidenza del Consiglio, in piena conformità dei lavori che continuano a essere svolti dagli uffici interni del Dipartimento, potrebbe non essere sufficiente a rendere l’Italia uno dei Paesi che con diligenza e devozione partecipano alla crescita di un progetto comune.

Senza contare che un rappresentante permanente, preferibilmente dalle capacità tecniche e giuridiche in grado di catturare consensi tra i protagonisti europei, potrebbe tempestivamente intervenire e far valere il ruolo dell’Italia nei settori economici, negli ingenti finanziamenti che potrebbero giungere a sostegno dell’economia nostrana e nell’incisività del nostro stesso operato.

Nelle relazioni diplomatiche, probabilmente più che in quelle politiche, una rappresentanza spesso non assume semplicemente il senso di una presenza visibile nella serie di incontri preposti; non ne limita l’azione ad una mera accondiscendenza passiva priva di iniziative e autodeterminazione.

Ne rafforza invece le aspettative nei confronti di quello Stato, ne incentiva la partecipazione e, inevitabilmente, ne potenzia l’attendibilità e la considerazione collettiva.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


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