Avevo già affrontato la questione del 7 ottobre in un articolo precedente, cercando di smontare la narrazione ufficiale che si era imposta fin dalle prime ore nei media occidentali[1]. Ma a quasi due anni da quell’attacco, e con Gaza trasformata in un cumulo di macerie e corpi, è necessario tornarci. Non per polemica retrospettiva, ma perché capire cosa è stato (e cosa non è stato) il 7 ottobre è diventato fondamentale per comprendere il presente: ciò che accade oggi nella Striscia è stato preparato, legittimato e reso possibile proprio da quel racconto.

Il 7 ottobre 2023 segna un punto di svolta nella storia recente del conflitto israelo-palestinese. L’attacco di Hamas contro Israele ha provocato una reazione militare senza precedenti da parte dello Stato ebraico, ma ha anche dato il via a una campagna mediatica che ha finito per demonizzare l’intera popolazione palestinese.

Al di là del bilancio delle vittime, restano aperti interrogativi cruciali. Che cosa è accaduto davvero quel giorno? Chi erano le vittime? Quali fonti hanno alimentato la narrazione dominante? E, soprattutto, quale ruolo ha avuto quel racconto nel preparare, giustificare e coprire il massacro che ne è seguito?

Già nelle prime ore dopo l’attacco, le principali agenzie di stampa occidentali rilanciarono una serie di affermazioni gravissime: Hamas avrebbe decapitato quaranta bambini, avrebbe stuprato in massa donne israeliane, avrebbe mutilato corpi e bruciato vivi interi nuclei familiari. Si trattava di narrazioni granghignolesche, rilanciate senza alcuna verifica indipendente da giornalisti asserviti, funzionari militari e rappresentanti politici. La notizia più devastante – e più ampiamente ripetuta – fu quella dei «quaranta neonati decapitati» nel kibbutz di Kfar Aza, inizialmente diffusa dalla giornalista israeliana Nicole Zedeck di I24News, che dichiarò di aver ricevuto tali informazioni direttamente da soldati israeliani. Nonostante l’assenza totale di prove, la storia fece rapidamente il giro del mondo, venendo ripetuta da politici, opinionisti e, soprattutto, dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che l’11 ottobre affermò pubblicamente di aver visto «immagini confermate di bambini decapitati». Immagini che, come si è poi scoperto, non sono mai esistite.

Nel frattempo, la campagna israeliana di disinformazione si diffondeva in modo sincronizzato attraverso i media internazionali più influenti, amplificata dai governi occidentali. Queste storie, pensate per colpire l’immaginario collettivo, ottenevano l’effetto desiderato: seminare orrore, produrre reazioni viscerali, e creare una figura del nemico completamente disumanizzata. I giornalisti che tentarono di verificare i fatti – come quelli di Haaretz e Channel 13 – si resero subito conto che la narrazione era infondata: i registri ufficiali non confermavano la presenza di bambini decapitati tra le vittime, e molte delle fonti primarie risultarono riconducibili all’organizzazione religiosa ebraica ZAKA. Quest’ultima, incaricata dal governo israeliano di occuparsi del recupero dei corpi, era già da tempo sotto indagine per frode e gestione opaca dei fondi. Secondo numerose inchieste giornalistiche, ZAKA avrebbe utilizzato immagini e video dei cadaveri – talvolta raccolti in modo non professionale – per fini propagandistici e per raccogliere fondi, guadagnando milioni in donazioni.

Anche le accuse di stupri di massa seguirono lo stesso schema: diffuse inizialmente da volontari di ZAKA, poi riprese da uomini politici e testate internazionali, e infine consacrate da una campagna mediatica che trasformava in verità incontestabili eventi mai documentati. Nessuna prova forense, nessuna testimonianza diretta, nessun fascicolo d’indagine è mai stato aperto in Israele. Al contrario, i familiari delle presunte vittime hanno in alcuni casi smentito le versioni ufficiali, e il Times of London ha concluso che «non esistono prove video o fisiche di stupri avvenuti il 7 ottobre». Eppure, queste narrazioni hanno assolto la loro funzione principale: disumanizzare il nemico, trasformarlo in una creatura mostruosa, rendere accettabile l’indicibile.
Ma c’è un ulteriore livello di dissimulazione. In Israele è stata applicata in alcuni casi la cosiddetta Direttiva Annibale, che autorizza l’esercito a colpire i propri cittadini se stanno per essere presi in ostaggio, pur di impedire la cattura. È stato lo stesso ministro della Difesa Yoav Gallant ad ammetterlo[2]. Diversi rapporti indicano che molti degli intervenuti al Festival Nova sarebbero morti sotto fuoco incrociato o persino sotto attacco di elicotteri israeliani. La linea ufficiale non ha mai chiarito questi episodi, ma si è limitata ad assumerne una lettura univoca: Hamas ha ucciso tutti, senza distinzione.

Eppure, molte delle persone prese in ostaggio erano militari, riservisti o personale armato. La presenza di militari tra gli ostaggi colloca l’azione in un quadro ben diverso da quello di una “strage cieca”. Inoltre, Hamas ha dichiarato fin dall’inizio di essere disposto a un’indagine internazionale sui presunti crimini, mentre Israele ha negato qualsiasi accesso a commissioni indipendenti, impedendo verifiche sui fatti del 7 ottobre come su quelli avvenuti dopo.

Il trattamento degli ostaggi, spesso presentati come simbolo del male assoluto, merita anch’esso una riflessione. Hamas ha trattato gli ostaggi come leva di pressione, non come obiettivi da eliminare. Se il suo scopo fosse stato il massacro, non avrebbe tenuto in vita decine di israeliani per mesi, trattando con mediatori internazionali e consentendo, in alcuni casi, visite della Croce Rossa. L’idea che abbia deliberatamente ucciso ostaggi contraddice non solo la logica umana, ma anche quella militare.

Infine, c’è la questione più ignorata di tutte: quella dei prigionieri palestinesi. Prima del 7 ottobre, Israele deteneva oltre 8.000 Palestinesi, molti dei quali senza accusa formale, in detenzione amministrativa. Tra loro, centinaia di minori. La detenzione amministrativa è un regime carcerario ereditato direttamente dal diritto coloniale britannico, che consente di arrestare persone senza formulare alcun capo d’accusa, senza processo e senza limiti chiari alla durata della prigionia, prorogabile a oltranza. In base a questo dispositivo, Israele ha incarcerato — e continua a incarcerare — migliaia di Palestinesi solo per il fatto di essere palestinesi, in assenza di prove, processi o sentenze. Attualmente, oltre 3.400 detenuti palestinesi si trovano in regime di detenzione amministrativa, tra cui decine di donne e numerosi bambini.

Durante il cessate il fuoco del gennaio 2025, il linguaggio mediatico e politico ha nuovamente rivelato tutta la sua ipocrisia: gli israeliani liberati da Hamas venivano definiti universalmente “ostaggi”, mentre i Palestinesi liberati da Israele venivano chiamati “prigionieri”. Eppure, tra questi ultimi c’erano almeno 22 bambini e 62 donne, mai condannati né accusati formalmente di alcun reato, arrestati in base a un sistema legale che Amnesty International ha definito come «detenzione arbitraria senza prove, senza capi d’accusa e senza processo». Molti di questi individui erano detenuti non secondo il diritto penale, ma in base a una legge speciale per i cosiddetti “combattenti illegali”, che consente allo Stato israeliano di imprigionare chiunque venga considerato sospetto — senza obbligo di processo, senza limiti di tempo, senza garanzie minime.

Di fatto, molti dei cosiddetti “prigionieri” palestinesi scambiati con Hamas erano a tutti gli effetti ostaggi: persone private della libertà in modo arbitrario, in un sistema dove la presunzione d’innocenza viene rovesciata, e il sospetto etnico diventa criterio sufficiente per la detenzione. Se è legittimo parlare di rapimento per gli israeliani presi da Hamas, perché non si applica lo stesso termine — con la stessa indignazione e la stessa attenzione mediatica — a migliaia di Palestinesi incarcerati senza processo? La simmetria del diritto cede spesso il passo alla gerarchia delle vite: alcune prigionie commuovono e indignano, altre vengono normalizzate, rese invisibili, legittimate dal silenzio e dalla complicità del discorso pubblico internazionale.

Come in ogni guerra moderna, la propaganda ha un ruolo decisivo. Non basta uccidere l’avversario: occorre prima privarlo della sua umanità. Ed è esattamente ciò che è avvenuto. Il Palestinese è stato trasformato in archetipo del male: terrorista, stupratore, assassino di bambini. Una figura mitologica, grottesca, costruita per suscitare orrore, rendere legittima la vendetta e cancellare qualsiasi empatia. Il modello è antico: la “barbarie teutonica” nella propaganda anglo-francese della Prima guerra mondiale; i “bambini strappati dalle incubatrici” in Kuwait nel 1990; le “armi di distruzione di massa” in Iraq nel 2003; la falsa strage di Timișoara nel 1989, quando centinaia di cadaveri riesumati da un obitorio furono spacciati per vittime del regime di Ceaușescu, dando un volto sanguinario e disumano al nemico da abbattere. In ognuno di questi casi, il nemico non è descritto come un semplice avversario politico o militare, ma come un’entità ontologicamente malvagia, incompatibile con la civiltà. Oggi, a Gaza, il paradigma si ripete con una precisione strategica inquietante.

Ma c’è un ulteriore passo in avanti nella brutalizzazione della guerra narrativa: la strumentalizzazione delle sofferenze storiche e delle battaglie di giustizia, in particolare quelle legate alla violenza sessuale. Il governo israeliano ha fatto ricorso ad accuse mai provate di stupro di massa non solo per costruire il nemico come “mostro”, ma anche per appropriarsi della voce stessa delle vittime, trasformando lo stupro in un’arma di propaganda. Non sono state le donne eventualmente sopravvissute a parlare: è stato lo Stato a parlare al loro posto. In assenza di corpi, di prove, di testimonianze dirette, Israele ha preteso di rappresentare una violenza che non ha voluto fosse indagata, impedendo l’accesso a commissioni indipendenti, rifiutando l’apertura di fascicoli giudiziari, oscurando ogni verifica.

Così, la lotta per il riconoscimento delle violenze sessuali è stata piegata a un disegno propagandistico che ha usato il femminismo come scudo, e la figura della donna stuprata come oggetto simbolico. Le accuse, lanciate e mai confermate, sono diventate un elemento chiave nella costruzione dell’immagine del Palestinese quale essere disumano, mentre erano le donne e i bambini palestinesi a morire a migliaia sotto i bombardamenti. L’obiettivo era chiaro: neutralizzare preventivamente l’impatto delle immagini provenienti da Gaza, costruendo attorno a esse una nebbia tossica di orrore inventato, dentro cui ogni verità potesse annegare indistinguibile dalle bugie.

Si tratta di una forma di propaganda scientificamente elaborata, cinica, feroce. Una macchina narrativa pensata per disinnescare l’empatia, per saturare lo spazio del dolore, per impedire che lo spettatore globale possa davvero vedere – e riconoscere – l’umanità della vittima palestinese. Non è solo il Palestinese a essere cancellato nella sua umanità: lo è anche la donna, la madre, la persona violentata, ridotta a strumento, a funzione, a immagine da brandire. In questa guerra semantica, le parole uccidono prima dei proiettili, e giustificano ciò che, altrimenti, sarebbe inammissibile.


NOTE

[1] “7 ottobre 2023: crolla la versione sionista”, Eurasia – Rivista di studi geopolitici, 8 aprile 2024. Disponibile online: https://www.eurasia-rivista.com/7-ottobre-2023-crolla-la-versione-sionista/

[2] “Israele. Ex ministro ammette: ‘il 7 ottobre fu applicata la direttiva Annibale’”, Pagine Esteri, 4 febbraio 2025. Disponibile online: https://pagineesteri.it/2025/02/04/medioriente/israele-ex-ministro-direttiva-annibale/pagineesteri.it


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Collaboratore di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici". Scrive per la rivista scientifica "Das Andere – L’Altro"; ha collaborato con l'Associazione Politico-Culturale Marx XXI e con Arianna Editrice.