L’11 Marzo l’Unione Europea e gli Stati membri hanno organizzato una giornata di commemorazione delle vittime del terrorismo. Il «giorno della vittima» si inscrive nel contesto della lotta antiterrorista, ma anche, più in generale, nei cambiamenti del diritto registrati da una dozzina d’anni a questa parte.

L’ideologia vittimista è servita come riferimento a tante riforme della giustizia. In Francia i giudici, nell’applicare le pene, devono obbligatoriamente avvisare le vittime della ammissione alla liberazione condizionale. Instaurare una preminenza della vittima sulla legge opera un sconvolgimento del sistema penale. Oggigiorno, un numero sempre maggiore di pene vuole rispondere all’eventuale ansia di vendetta della vittima. Il ruolo della legge è mutato. La sua funzione primaria era fermare la violenza. Attualmente questo freno è rimesso in discussione. Siamo trascinati in un processo infinito di punizione e vittimizzazione. La vittima non può nemmeno rinunciarvi. Essa diviene uno stato permanente, un’essenza che capovolge il ruolo pacificatore del diritto.

La lotta antiterrorista apporta una dimensione supplementare. Oltre ogni analisi della realtà, è la voce della vittima che rivelerebbe la vera natura dei terroristi: dei criminali che  «ammazzano e causano enormi sofferenze». Così, il grido, l’invocazione del dolore crea un’immagine. Essa pone l’atto al di fuori di ogni contesto politico o sociale. Un insieme di attentati non aventi alcun rapporto fra loro: il crollo delle torri del World Trade Center, gli attacchi contro le truppe di occupazione statunitensi in Irak o in Afghanistan, gli attentati di Madrid dell’11 Marzo 2004, sono considerati come fossero identici.
Tutti questi atti risulterebbero da una violenza senza oggetto, da una violenza pura. La lotta antiterrorista costruisce un’immagine che fa pensare alla nozione di violenza originaria sviluppata da René Girard nella sua teoria della vittima emissaria, una violenza inesplicabile, ma fondatrice dell’organizzazione sociale.
Allo stesso modo, la violenza terrorista sarebbe fine a sé stessa, non avrebbe senso. In mancanza di senso, il linguaggio regredisce. Ciò che è detto dà semplicemente a vedere, ad intendere. Il linguaggio diventa rumore, grido, puro significante. E’ costruzione di un’immagine unificatrice ed inglobante: la voce della vittima. Essa opera una fusione fra lo spettatore e l’orrore mostrato. La rappresentazione diviene impossibile. L’emotività si sostituisce all’analisi e alla ragione. Le incriminazioni che puniscono il terrorismo operano un doppio spostamento. Non è più soltanto nel nome d’una qualsiasi vittima che si organizza la lotta contro il terrorismo. Il potere è non solo il rappresentante della vittima, ma ne assume il ruolo. In effetti, ciò che rende tale un atto terroristico, non è tanto l’azione stessa, quanto il fatto che sia accompagnata dall’intento di fare pressione su un governo.
L’incriminazione del terrorismo permette al potere di porsi lui stesso come vittima.

La giornata di commemorazione dell’11 Marzo si inscrive in questo schema. L’iniziativa dell’Unione Europea risulterebbe da una responsabilità particolare degli Stati membri nei riguardi delle vittime, giacché «i terroristi attaccherebbero la società nel suo insieme». Noi saremmo tutti potenzialmente delle vittime. La feticizzazione della vittima reale realizza una fusione tra la stessa, le popolazioni, il potere.
La lotta antiterrorista organizzerebbe la difesa di tutti contro questa violenza cieca. Per far ciò, essa fonde stato di guerra e lotta contro la criminalità. Essa sopprime ogni distinzione fra esteriore ed interiore, guerra e pace. Lo Stato rimette in discussione l’Habeas Corpus dei suoi cittadini e applica loro misure di sorveglianza una volta riservate ai nemici del paese. Lo stato di guerra diviene permanente, illimitato, contro un nemico indefinito dai molteplici volti, che può assumere quello di chiunque, giacché gli USA possono perseguire chiunque sia semplicemente additato come terrorista, cioé identificato come «nemico combattente illegale» dal potere esecutivo. Da vittime, possiamo diventare terroristi. La fusione è dunque completa fra vittima, terrorista e potere.
Un ordine politico psicotico, fondato sull’amore della vittima, ci intima di abbandonare e rinunciare alle nostre libertà costituzionali, al fine di essere protetti dall’altro e da noi stessi. Questa struttura politica maternalista sopprime ogni separazione fra Stato e cittadino. La legge francese LOPPSI 2 (Legge di Orientamento e di Programmazione per la Sicurezza Interna, ndt), trasformando la videosorveglianza in videoprotezione, opera una mutazione semantica caratteristica dell’attenzione che ha per noi la Big Mother.
Parlando a nome della vittima e ponendosi come tale, il potere entra nel sacro. Esso fonde ordine politico ed ordine simbolico. Come già espresso da George Bush, nella sua guerra del Bene contro il Male, il potere occupa direttamente il posto dell’ordine simbolico. Fondando la sua legittimità sull’icona della vittima, ci pone in una violenza senza fine, invece di fermare la stessa. La lotta antiterrorista ci inscrive così nel tragico, come era messo in scena dalla tragedia greca. Ci immette in una violenza infinita, sempre rinnovata, giacché non vi è più un principio protettore della vita, d’ordine simbolico, articolato al potere politico. I lavori di Jacques Lacan ci hanno insegnato che è proprio questo fantasma dell’unificazione alla madre immaginaria, qui allo Stato come madre simbolica, che è alla base di questa violenza senza limiti, autodefinitasi senza oggetto, che la lotta antiterrorista pretende di combattere.

* Jean-Claude Paye, sociologo, collabora con Eurasia; Tülay Umay, sociologo.

Traduzione a cura di Giacomo Guarini


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