Introduzione

Smentendo clamorosamente le sue stesse dichiarazioni ufficiali – “deciderò entro due settimane se attaccare l’Iran” – Donald Trump ha ordinato un attacco militare a sorpresa contro tre impianti nucleari iraniani nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025. I bombardieri stealth B‑2 Spirit, decollati da basi nel Golfo, e i missili Tomahawk lanciati da sottomarini statunitensi nel Mare Arabico, hanno colpito i siti di Fordow, Natanz ed Esfahan, sganciando bombe bunker‑buster GBU‑57, progettate per penetrare strutture sotterranee ultrarinforzate.

L’operazione è stata battezzata da Washington “Midnight Hammer”, e annunciata da Trump come “un attacco di grande successo”, celebrato in un post su X come “un momento storico per gli Stati Uniti, Israele e il mondo”. Ma al di là del trionfalismo retorico, la portata effettiva dei danni resta da verificare. Fordow – situato sotto oltre 90 metri di roccia e cemento armato – è ritenuto da analisti civili e militari uno dei siti nucleari più protetti al mondo, e persino fonti interne al Pentagono riconoscono che una sola incursione, per quanto potente, difficilmente può aver compromesso in modo decisivo le capacità di arricchimento dell’uranio dell’Iran.

Nonostante l’evidente carattere dimostrativo dell’attacco, la risposta di Teheran è stata immediata. Circa 30 missili balistici sono stati lanciati verso il centro e il nord di Israele, colpendo obiettivi nelle aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme e causando almeno 14 feriti, secondo fonti israeliane. “Adesso è iniziata la guerra”, ha dichiarato la Guardia Rivoluzionaria iraniana. La TV di Stato ha intanto rilanciato il messaggio che “ogni cittadino americano o militare nella regione è ora un obiettivo legittimo”.

Tuttavia, dietro i toni bellicosi, l’approccio iraniano ha mostrato una notevole dose di cautela. I missili lanciati erano in larga parte di vecchia generazione, facilmente intercettabili, e secondo fonti diplomatiche l’operazione sarebbe stata preannunciata attraverso canali ufficiali. In altri termini, Teheran ha risposto per affermare la propria capacità di deterrenza, ma ha evitato deliberatamente di oltrepassare soglie che avrebbero provocato una reazione diretta e massiccia da parte degli Stati Uniti. Si delinea così un conflitto che alterna forza e misura, tensione e calcolo: una guerra che, almeno per ora, preferisce restare sotto il punto di ebollizione.

 

L’attacco e la nuova dottrina Trump: deterrenza offensiva e potere per shock

L’operazione militare del 21 giugno 2025 rappresenta non solo un atto di forza contro l’Iran, ma anche una smentita definitiva della narrativa su cui Donald Trump ha costruito gran parte del suo successo politico. Presentatosi – e presentato dai suoi sostenitori – come un presidente isolazionista, deciso a porre fine alle “guerre infinite” e a riportare i soldati a casa, Trump ha in realtà confermato il primato della forza militare come strumento ordinario della politica estera americana. L’attacco ai siti nucleari iraniani lo dimostra con chiarezza: nella sua visione del potere, il ricorso alla violenza non è un’eccezione, ma una regola. Non un fallimento della diplomazia, ma il suo presupposto implicito.

In questo quadro, l’incursione contro Fordow, Natanz e Esfahan appare come l’emblema di una postura più teatrale che strategica. L’attacco è stato concepito per colpire l’immaginario – con bombardieri stealth, ordigni bunker-buster e comunicazione muscolare – più che per ottenere un risultato risolutivo sul piano militare. È stato un gesto calibrato per riaffermare unilateralmente la centralità militare americana, senza preoccuparsi né della sostenibilità a lungo termine né della coerenza con le promesse elettorali di disimpegno.

Così, la presunta rottura che Trump rappresenterebbe rispetto ai suoi predecessori si rivela, in ultima analisi, solo stilistica. A cambiare è il tono, non la direzione. Sul piano geopolitico, l’amministrazione ha semplicemente aggiornato la mappa delle priorità degli Stati Uniti: non più la Russia come principale minaccia sistemica, ma la Cina. In questo quadro l’Iran diventa un bersaglio regionale da colpire per indebolire preventivamente qualsiasi tentativo di saldatura tra Teheran, Mosca e Pechino: un’alleanza eurasiatica che rappresenterebbe una sfida diretta alla supremazia statunitense.

La sua politica estera si fonda su un’impostazione fredda e funzionale: impedire la formazione di alleanze strategiche in grado di sfidare la supremazia americana, mantenendo l’egemonia attraverso la classica logica del divide et impera. Da qui il tentativo di distensione con Mosca – considerata più utile o comunque contenibile – e lo spostamento della pressione militare verso l’Estremo e il Vicino Oriente. La retorica antinterventista è servita solo a mascherare un riassetto dell’apparato militare-industriale, non il suo ridimensionamento.

Neppure i democratici, però, rappresentano un’alternativa reale. Se Trump è disposto a sacrificare l’Ucraina per colpire Cina e Iran, i liberal preferiscono concentrare la pressione su Mosca, mantenendo un atteggiamento più cauto verso Teheran. Ma in entrambi i casi nessuno mette in discussione il diritto unilaterale degli Stati Uniti a intervenire ovunque, in qualsiasi momento, per difendere la propria supremazia. La guerra non è più l’ultima risorsa: è un meccanismo ordinario di gestione dell’ordine mondiale.

Le differenze tra i due schieramenti si concentrano su temi di politica interna – tassazione, diritti civili, sanità – cruciali per l’elettorato domestico, ma marginali nel contesto geopolitico globale. Sul piano internazionale, invece, la continuità strategica è impressionante: cambiano i volti, le retoriche e le giustificazioni, ma resta intatta la logica imperiale che guida da decenni le scelte fondamentali degli Stati Uniti. L’America di Trump non chiude le guerre: semplicemente, ne apre di nuove.

Emblematica, in tal senso, è la dichiarazione rilasciata da Trump poche ore dopo il bombardamento in Iran e la risposta missilistica contro Israele: in una conferenza stampa, il presidente ha affermato di voler “premere su Israele per la pace con i suoi vicini”. Una svolta retorica improvvisa e disorientante, che ha colto di sorpresa persino ambienti repubblicani e lo stesso governo israeliano. Dopo aver scatenato un’escalation potenzialmente sistemica, Trump si propone improvvisamente come mediatore di pace: una contraddizione solo apparente, se si considera che nel suo approccio guerra e diplomazia non sono sequenze logiche ma strumenti intercambiabili, funzionali alla gestione dell’immagine e del potere. È questa logica performativa – più che geopolitica – a rendere la sua politica estera tanto imprevedibile quanto instabile.

 

La risposta iraniana: asimmetria, ambiguità, attesa

La risposta dell’Iran all’attacco statunitense non è stata né impulsiva né indiscriminata. Teheran ha adottato una strategia calibrata, volta a inviare un segnale politico-militare forte ma contenuto, evitando di oltrepassare le soglie che avrebbero potuto scatenare una reazione militare diretta da parte degli Stati Uniti. L’obiettivo è stato duplice: mantenere l’iniziativa tattica nella regione senza perdere il controllo politico dell’escalation, e guadagnare tempo in vista di una possibile soluzione diplomatica.

Nella serata del 23 giugno, l’Iran ha lanciato una decina di razzi contro la base aerea americana di Al Udeid, in Qatar – la più grande installazione statunitense nella regione. L’operazione, battezzata “Basharat al-Fath” (“Lieta novella di vittoria”), ha avuto una portata prevalentemente dimostrativa: tutti i missili sono stati intercettati dalle difese aeree qatariote e statunitensi, senza provocare né vittime né danni materiali significativi. Fonti diplomatiche a Doha e Washington hanno confermato che l’attacco era stato preannunciato da Teheran tramite canali ufficiali, a ulteriore conferma della volontà iraniana di esercitare una pressione misurata e controllata[1].

La Guida suprema Ali Khamenei ha ribadito questa linea in un discorso trasmesso dalla televisione di Stato: “Non vogliamo fare del male a nessuno, ma l’Iran risponderà a ogni aggressione con fermezza e dignità”. Il messaggio è chiaro: il ricorso alla forza è legittimo e limitato, non finalizzato ad avviare un conflitto totale.

In parallelo, l’Iran ha evitato per ora di attivare i propri alleati regionali: Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Iraq e gli Houthi in Yemen restano in stato di allerta, ma non hanno ancora preso parte diretta alle ostilità. Questa architettura bellica “senza centro”, in cui ogni fronte può accendersi in modo decentrato e asincrono, rappresenta una risorsa strategica cruciale per Teheran, ma anche un potenziale fattore di destabilizzazione se non governata con attenzione.

Un altro nodo chiave è lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale transita circa un quarto del greggio mondiale. Anche una sua chiusura parziale – tramite mine, blocchi navali o attacchi missilistici – avrebbe conseguenze drammatiche. Secondo valutazioni interne al governo italiano, rese note durante il vertice NATO dell’Aja, un blocco dello stretto farebbe aumentare il prezzo del petrolio del 28% entro 48 ore, quello del gas naturale del 21%, e porterebbe a un’impennata delle assicurazioni marittime (+350%) e a un calo del 3,5% degli indici finanziari globali. Si stima che oltre 14 miliardi di dollari di merci potrebbero restare bloccate. Proprio per evitare uno scenario del genere, Stati Uniti e NATO hanno rafforzato la presenza navale nella regione, mentre Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno attivando rotte alternative via Mar Rosso.

In questo contesto già tesissimo, è emersa un’apertura diplomatica significativa. Il 24 giugno, un funzionario iraniano ha dichiarato ad Al Jazeera che un cessate il fuoco tra Iran e Israele “potrebbe essere raggiunto nelle prossime ore”, sottolineando che Teheran non sta negoziando con gli Stati Uniti, ma attraverso “paesi amici”[2]. Poco dopo, il ministro degli Esteri iraniano Seyed Araghchi ha confermato che “non esiste al momento alcun accordo di cessate il fuoco”, ma ha aggiunto che “l’Iran è pronto a interrompere ogni ulteriore azione militare se Israele cesserà i bombardamenti entro le 4:00 (ora di Teheran)”[3].

Si tratta del primo vero spiraglio verso una attenuazione delle ostilità, dopo settimane di guerra a distanza e bombardamenti reciproci. Tuttavia, il fatto che il dialogo avvenga senza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti mostra quanto la sfiducia tra Washington e Teheran sia ormai strutturale. La comunicazione passa oggi attraverso intermediari come Qatar, Oman, Iraq o Turchia – attori che, pur marginali sul piano militare, rivestono un ruolo diplomatico cruciale.

In sintesi, la risposta iraniana si articola su più livelli: militare nella forma, ma politica nella sostanza. Il governo di Teheran si muove entro margini ristretti, cercando di evitare la trappola di una guerra totale, ma senza apparire debole agli occhi del proprio popolo e dei propri alleati. L’architettura della deterrenza iraniana è asimmetrica, fluida, decentralizzata: non è guidata da un comando univoco, ma da una logica strategica che mira alla sopravvivenza del regime e alla dissuasione multilivello.

In questo scenario, la possibilità di un cessate il fuoco, per quanto fragile, diventa un banco di prova non solo per l’Iran e Israele, ma per l’intero ordine regionale e globale.

 

Il calcolo di Mosca: evitare la guerra, vincere nella crisi

L’alleanza strategica firmata da Iran e Russia nell’aprile 2025 ha trasformato il conflitto mediorientale in una partita a scacchi globale, ma la profondità reale di questa intesa resta ambigua. Mosca ha interesse a sfruttare la crisi per logorare l’Occidente, ma non intende esporsi militarmente a favore di Teheran. La sua strategia punta a prolungare l’instabilità per aumentare i costi per Washington, distrarre l’attenzione internazionale dall’Ucraina e, soprattutto, proporsi come interlocutore imprescindibile su più tavoli.

Dopo l’“Operazione Martello di Mezzanotte” degli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è volato a Mosca, portando con sé un messaggio chiaro della leadership iraniana: chiedere sostegno, forse anche militare, alla Federazione. Ma l’esito del vertice con Vladimir Putin è stato prudente: solidarietà politica sì, impegni concreti no[4]. Putin ha definito “ingiustificata” l’aggressione contro l’Iran, ma ha anche sottolineato di essere in contatto con tutte le controparti – Trump, Netanyahu, il presidente iraniano e altri leader regionali – ribadendo il proprio ruolo di ponte e mediatore, non di alleato militante.

L’accordo strategico siglato a gennaio non contiene clausole di difesa reciproca, né obblighi di intervento in caso di aggressione. Anche la cooperazione sui droni – elemento cruciale della sinergia russo-iraniana – ha beneficiato più Mosca che Teheran. La Russia ha internalizzato la produzione dei droni Shahed 136 (rinominati Geran-2), che ora vengono fabbricati in loco in migliaia di esemplari. Teheran, invece, non ha ricevuto finora armamenti strategici in cambio, né garanzie operative. E se da parte iraniana si moltiplicano le richieste di un coinvolgimento più diretto, Mosca risponde con frasi aperte ma vaghe: “tutto dipenderà dalle necessità”, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, lasciando intendere che il margine di aiuto è flessibile, ma non illimitato.

L’elemento chiave resta la priorità russa in Ucraina. Secondo fonti del Cremlino, la Russia non può permettersi un secondo fronte aperto. La scelta di non intervenire militarmente in Medio Oriente è dettata non solo da cautela diplomatica, ma da vincoli operativi: Mosca è già sotto pressione nel conflitto europeo. Tuttavia, conserva piena utilità nel posizionarsi come attore di equilibrio, capace di influenzare – o rallentare – le dinamiche di escalation attraverso il dialogo diretto con la Casa Bianca. Putin e Trump, riferiscono fonti ufficiali, mantengono un accordo che consente loro di “chiamarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte”.

Nel frattempo, Washington ha dirottato verso Israele circa 20.000 sistemi anti-drone inizialmente destinati all’Ucraina, una mossa che ha indebolito Kiev e inasprito la competizione per l’attenzione americana. Mentre Zelensky cerca di riconquistare visibilità appoggiando l’intervento contro Teheran, Putin adotta una strategia di equilibrio tattico: mantiene i canali aperti con tutti, rifiuta un coinvolgimento diretto, ma resta pronto a capitalizzare sul caos.

La Russia quindi non difende l’Iran, ma lo usa come variabile di pressione sistemica. La sua strategia è quella del logoramento selettivo, attraverso strumenti indiretti: cyber-attacchi, disinformazione, supporto tecnologico, manovre diplomatiche. È la forma più raffinata della guerra ibrida: flessibile, opaca, calibrata sull’ambiguità. In questo scenario, Putin non agisce da alleato: agisce da giocatore autonomo, alla ricerca di uno spazio negoziale privilegiato tra le grandi potenze

 

Israele di fronte al fallimento: guerra di logoramento e vulnerabilità strategica

La guerra scatenata da Israele contro l’Iran – denominata “Operazione Rising Lion” – si sta rivelando un boomerang strategico. Nonostante il massiccio impiego dell’aviazione e il sostegno militare di Washington, Tel Aviv non è riuscita a conseguire i suoi obiettivi fondamentali: distruggere i siti nucleari iraniani, innescare un cambio di regime a Teheran o rafforzare la propria deterrenza regionale.

Dopo dieci giorni di bombardamenti, Fordow – il sito nucleare più protetto dell’Iran – risulta ancora operativo. Anche altri obiettivi strategici, come Natanz e Isfahan, hanno subito danni limitati. In parallelo, l’Iran ha dimostrato di poter colpire il territorio israeliano in profondità, sfruttando l’asimmetria missilistica: aerei israeliani contro missili balistici iraniani si stanno dimostrando uno scontro insostenibile per Tel Aviv.

Le difese antimissile israeliane sono sotto pressione. I missili Arrow 3 – gli unici in grado di intercettare i balistici iraniani – stanno progressivamente esaurendosi. Israele ha iniziato a razionarli già dopo pochi giorni di conflitto, scegliendo di non abbattere missili non diretti su obiettivi sensibili per risparmiare le scorte, e proteggendo prioritariamente la centrale nucleare di Dimona. La sproporzione di costi è abissale: un Arrow 3 costa 4 milioni di dollari; ogni giorno di guerra contro l’Iran costa a Israele circa 735 milioni di dollari. Gli aerei israeliani necessitano di portaerei e rifornimenti in volo forniti dagli Stati Uniti, senza i quali le sortite su Teheran sarebbero insostenibili anche solo per distanza operativa. In questo quadro, la guerra di aerei contro missili ha esposto tutti i limiti strutturali della macchina bellica israeliana[5].

La situazione è apparsa talmente critica che l’intervento americano con l’operazione “Midnight Hammer” sembra essere stato motivato non solo da calcoli strategici globali, ma anche dal bisogno urgente di impedire il collasso di Israele. Teheran, fino a quel momento, aveva usato missili di vecchia generazione e con moderazione, proprio per evitare una reazione statunitense. Il rischio che Israele fosse sopraffatto prima ancora di ottenere risultati tangibili – né sul piano nucleare, né su quello politico – ha reso inevitabile l’ingresso diretto degli Stati Uniti.

Nel frattempo, l’Iran ha segnalato di poter sostenere un conflitto anche di lungo periodo. Israele, al contrario, appare sempre più logorato: la guerra a Gaza ha già drenato oltre 67 miliardi di dollari; il Pil è in contrazione, il deficit cresce, e lo spostamento di risorse umane verso il fronte militare sta penalizzando interi settori produttivi. A questo si aggiunge la pressione diplomatica e la fragilità interna di un governo Netanyahu in bilico.

Da qui la disponibilità – filtrata da fonti diplomatiche e confermata da media israeliani – ad accettare un cessate il fuoco, purché l’iniziativa parta ufficialmente dall’Iran. Una mossa che rivela non solo apertura negoziale, ma anche riconoscimento implicito della propria vulnerabilità.

 

Conclusione

L’attuale crisi mediorientale è più di una semplice escalation tra due attori regionali: è un banco di prova per l’intero ordine multipolare contemporaneo. Nonostante gli sforzi tardivi per un cessate il fuoco tra Iran e Israele, la dinamica che si è messa in moto va oltre i confini di Teheran e Tel Aviv. Si tratta di una guerra per attrito, in cui nessuna delle parti mira a un colpo decisivo, ma ciascuna punta a logorare l’altra nel tempo, accumulando vantaggi marginali, economici, strategici e simbolici.

Questa logica di logoramento non è solo militare, ma anche diplomatica e sistemica. La deterrenza simmetrica della Guerra Fredda – che, pur nei suoi orrori, garantiva una certa prevedibilità – è stata sostituita da un sistema caotico di potenze regionali, attori informali, alleanze fluide e linee rosse non dichiarate. In questo nuovo contesto, basta poco: un missile intercettato male, una dichiarazione fraintesa, una provocazione non autorizzata. L’errore di calcolo è diventato strutturale, non accidentale.

Il Vicino Oriente si conferma il barometro del disordine globale. Ma oggi, a differenza del passato, il conflitto locale ha tutte le caratteristiche per trasformarsi in crisi sistemica. Il coinvolgimento implicito della Russia, la pressione economica sulle democrazie europee dovuta alla minaccia sulla sicurezza energetica, il ruolo ambiguo della Cina nel mantenere stabili i flussi di petrolio: tutto contribuisce a moltiplicare i punti di frizione. Lo Stretto di Hormuz, le basi statunitensi nel Golfo, la catena di alleanze informali costruita tra India, Israele, Emirati e Stati Uniti – ogni elemento si aggiunge a un mosaico già fragile.

Non si tratta ancora di una Terza Guerra Mondiale, ma il sistema internazionale si muove su un crinale pericolosamente stretto, in cui i meccanismi classici di contenimento non sembrano più funzionare. La guerra è tornata a essere un linguaggio ordinario della politica estera. La diplomazia, invece, si muove a fatica, relegata a dichiarazioni simboliche o iniziative bilaterali inefficaci.

Il rischio non è un’esplosione improvvisa, ma un collasso lento. Un’usura dell’ordine internazionale, giorno dopo giorno, crisi dopo crisi, finché le regole comuni smetteranno di essere riconosciute anche solo come riferimento formale. In questo scenario, il caos non è un effetto indesiderato, ma diventa strumento deliberato di potere.


NOTE

[1] Riccardo Antoniucci, L’Iran attacca le basi americane in Qatar. Nyt: “Avvisati prima”, 23 giugno 2025, www.ilfattoquotidiano.it.

[2] Ceasefire between Iran and Israel possible within hours, says Iranian official, 24 giugno 2025, www.middleeasteye.net.

[3] Iran warns Israel: “Ceasefire by 4am or we will escalate military response”, 24 giugno 2025, www.middleeasteye.net.

[4] Francesco Brusa, Quel pontiere di Putin, parole dure ma niente aiuti veri agli ayatollah, 24 giugno 2025, www.ilmanifesto.it.

[5] Alessandro Orsini, Trump bombarda l’Iran perché Israele è troppo debole, 24 giugno 2025, www.sicurezzainternazionale.com.


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