Joe Biden, vicepresidente degli Stati Uniti, da Monaco, ove si è tenuta nei giorni scorsi la Conferenza internazionale sulla sicurezza, ha lanciato la proposta di costruire un’area di libero scambio fra le due sponde dell’Atlantico. Un’idea che ha trovato subito una sostenitrice entusiasta in Marta Dassù – sottosegretario di Stato al ministero degli Esteri del governo Monti e direttore generale (sino al mese di novembre del 2011) delle attività internazionali del noto Aspen Institute Italia. Conoscendo le posizioni difese dall’Aspen Institute e dalla Dassù, (sul cui orientamento filoamericano, come si suol dire, non ci piove), non ci si può meravigliare di un siffatto entusiasmo. Sorprende però, in questo caso, il modo in cui la Dassù argomenta. (1)

Infatti, la Dassù non solo ignora del tutto le conseguenze geopolitiche che un “mercato atlantico” comporterebbe per l’Europa, ma addirittura non prende nemmeno in considerazione il ruolo delle potenze emergenti nel prossimo futuro, né dal punto di vista economico né dal punto di vista geopolitico. Indipendentemente dal problema dei benefici economici a breve termine (ché solo questi possono  essere stimati con un minimo di attendibilità e su cui comunque è lecito nutrire parecchi dubbi), la Dassù pretende di liquidare un mutamento di paradigma geopolitico (e di conseguenza economico), che non è esagerato definire “epocale”, semplicemente rilevando che l’economia di queste nuove potenze non può sostituire il potere d’acquisto del consumatore americano.

Secondo la Dassù, si dovrebbe garantire la ripresa dell’eurozona agganciando l’Europa alla locomotiva statunitense che, anche se ora è arrugginita e quasi ferma, dovrebbe ripartire a gran velocità grazie a tre fattori: indipendenza energetica degli Usa per la rivoluzione del tight oil and shale gas; tecnologie informatiche; dollaro debole. Inoltre, nota la Dassù, che pure ammette che un mercato unico tra le due sponde dell’Atlantico non è certo un progetto facile da realizzare, si avrebbe in tal modo l’opportunità di non “perdere” la Gran Bretagna e di stabilizzare definitivamente l’area dell’Atlantico. Il che, si può osservare, potrebbe essere conveniente per alcuni Paesi “atlantici”, anche se la maggior parte dei Paesi europei, compresa l’Italia, “atlantici” proprio non lo sono. E anche questo significherà pur qualcosa. Tuttavia, la questione vera è un’altra, benché la Dassù, che cerca di convincere i lettori riguardo ai vantaggi che deriverebbero dal nuovo “patto atlantico” (oltre mezzo punto di crescita del Pil nel breve periodo, ammesso e non concesso che si tratti di una stima attendibile), si guardi bene dall’analizzare i veri motivi della proposta di Biden.

Se è vero che l’innovazione tecnologica potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo, tanto più che la rivoluzione informatica è “in corso” già da qualche decennio) agevolare la ripresa degli Usa, è impossibile però sottovalutare il cosiddetto “declino relativo” degli Stati Uniti. Da un lato, si devono cioè considerare i gravi problemi dell’economia statunitense (evidenziati da un pesantissimo deficit della bilancia commerciale e dalla dipendenza degli Usa proprio dalla Cina che detiene gran parte del gigantesco debito pubblico degli Stati Uniti), l’impoverimento della classe media americana, il rischio che scoppi un’altra “bolla finanziaria”, nonché l’enorme costo di una macchina bellica che, se garantisce la supremazia degli Usa anche in campo economico, è riuscita a collezionare una serie impressionante di fallimenti, sconfitte e insuccessi che hanno costretto gli Usa a contare sempre più su alleati come le petromonarchie del Golfo e perfino su organizzazioni terroristiche di vario genere. Dall’altro, si deve tener conto che la crescita – da ritenersi ormai irreversibile – di Paesi come la Cina e l’India e di potenze regionali come l’Iran e il Brasile, e la “rinascita” della Russia – rivelatasi una “terra” al di là delle possibilità di “conquista” degli Usa – mostrano non solo l’obsolescenza di un sistema internazionale imperniato sui petrodollari, ma anche che la sfida geopolitica che gli Stati Uniti devono affrontare è incredibilmente complessa e ardua. E soprattutto adesso che anche nel “cortile di casa” un Chavez, una Kirchner o un Morales confermano che il “risveglio nazionalpopolare” di buona parte dell’America Latina è una realtà.

Non a caso, lo stesso John Biden a Monaco ha dichiarato che: «Noi non ammettiamo che una nazione, qualsiasi essa sia, abbia una sua sfera di influenza», un principio, come nota giustamente Manlio Dinucci, che Washington ritiene sacrosanto per tutti i Paesi, tranne gli Stati Uniti (2). Lo  stesso Biden, ha precisato che l’Europa è un partner indispensabile per gli Stati Uniti, nel quadro della Nato che continuerà ad espandersi verso Est, includendo Stati balcanici e la Georgia. E il vicepresidente statunitense, oltre confermare che gli Usa stanno aiutando i cosiddetti “ribelli” in Siria, ha lasciato chiaramente intendere che gli Stati Uniti sono un potenza atlantica ma anche una potenza del Pacifico e che di conseguenza i Paesi europei in quanto membri della Nato devono  partecipare alla politica statunitense, il cui punto focale si sta spostando dall’Atlantico verso il Pacifico. Si tratta di considerazioni che, benché non prese in esame dalla Dassù, chiariscono molto bene i motivi per cui gli Usa e i circoli atlantisti vorrebbero  un mercato “euroamericano”.

Non a caso, Washington rischia addirittura di interpretare il ruolo dell’apprendista stregone pur di ridisegnare la mappa geopolitica di una regione strategica come quella del Mediterraneo – che è pure la principale via di comunicazione marittima tra l’Europa, l’Africa e l’ Asia -, nonché quella del continente africano, vuoi per il controllo e lo sfruttamento delle materie prime di cui i Paesi africani sono notoriamente ricchi, vuoi per contrastare la penetrazione cinese fondata su una intelligente politica di cooperazione con gli africani. E lo stesso Biden non ha fatto mistero che il confronto con la Cina è fondamentale per gli  Stati Uniti. Del resto, è logico che gli Stati Uniti si stiano preparando su diversi piani alla sfida con la Cina, un Paese che può basarsi su direttrici geostrategiche “terrestri” per il proprio sviluppo (collegamenti “via terra” con la Russia, l’Iran etc.; o comunque sulla “linea costiera”, il cosiddetto “Rimland”, senza necessariamente dover impegnarsi a sfidare gli Stati Uniti in uno scacchiere difficile come quello dell’Oceano Pacifico). Da qui la consapevolezza che la partita con la Cina la si dovrà giocare probabilmente non tanto sul piano del “confronto militare” nel Pacifico, quanto sul piano tecnologico ed economico, su quello culturale e quello sociale, su quello diplomatico e su quello del controllo, diretto o indiretto, di territori e aree di rilevanza strategica. In quest’ottica, sono possibili guerre “per procura” e ogni sorta di intervento per restringere la sfera d’azione della Cina (e della Russia, che è pur sempre il Paese in grado di fare la differenza in Eurasia, non fosse altro che per potenza militare, posizione geografica e la grande abbondanza di ogni genere di risorse) e impedire che si venga a creare un blocco di potenze continentale sulla base di un effettivo multipolarismo.

E’ naturale perciò che per gli Usa sia decisivo che l’Europa non cresca politicamente tanto da poter dissociarsi dagli Usa, allo scopo di difendere i propri interessi. Insomma è di un’Europa che non sia un soggetto politico indipendente, cioè che non possa fare una politica distinta da quella atlantista, che hanno estremamente bisogno gli Stati Uniti. Per questo non è sufficiente la Nato, o far leva sulle differenze (e le rivalità, più o meno meschine) tra i diversi Paesi europei, sulla fragilità dell’eurozona o sull’ambizione neocolonialista di una Francia che pare essersi dimenticata completamente degli insegnamenti di De Gaulle per quanto concerne l’indipendenza dell’Europa e i rapporti con gli Usa. La “questione tedesca” e la crisi economica possono infatti portare gli europei a rendersi conto della necessità di un nuovo corso politico e di un netto “cambiamento di rotta” per evitare che il nostro continente si trasformi nei prossimi anni nella retrovia degli Usa, perdendo definitivamente la possibilità di agire strategicamente in qualsiasi settore.

“Scopre le carte” pertanto la Dassù, riconoscendo implicitamente che il vero obiettivo dell’“euroatlantismo” consiste nell’impedire la formazione di un autentico polo europeo, dissolvendo le identità nazionali dei Paesi europei in un “mercato atlantico” e permettendo così agli Usa di ridefinire obiettivi politici ed economici in funzione degli interessi dell’oligarchia atlantista. Tra l’altro, una volta saldata “definitivamente” l’Europa agli Usa – anche a costo di sacrificare l’Europa Meridionale agli interessi di “bottega” dell’Europa Settentrionale, come purtroppo sta avvenendo, anche per la miopia politico-strategica della Germania – perfino il “pericolo” di trasformazioni sociali tali da ostacolare le “decisioni” dei “mercati” si ridurrebbe notevolmente. Volere vincolare il mercato europeo a quello statunitense, quando la struttura dell’edificio europeo, che è lungi dall’essere completato, vacilla sotto i colpi di maglio dei “mercati” e la potenza statunitense vede la sua sfera d’azione contrarsi notevolmente, non può che equivalere a riconoscere che gli interessi dell’Unione Europea non possono essere quelli dei popoli europei. Ma ovviamente ai funzionari europei del capitale importa assai poco dei popoli europei. Quello che loro intendono tutelare, proprio tramite le istituzioni della Unione Europea, a cominciare dalla Bce, è il “mondo occidentale”, i suoi valori di “mercato” e i suoi equilibri “americanocentrici”.

Questo non significa che la “partita europea” sia già finita. Anzi è appena cominciata. Euroscetticismo, egoismo, nazionalismo e populismo sono termini sempre più usati per cercare di mascherare il fallimento “sostanziale” dell’europeismo, con un’Unione Europea del tutto priva di una propria identità politica, culturale e sociale, mentre gli squilibri e le differenze tra i Paesi europei e tra le diverse zone dell’Europa si accentuano sempre più. Sotto questo aspetto però, se gli “agenti” degli Usa hanno molte più carte da giocare, vi sono troppi (e troppo difficili) nodi da sciogliere anche per gli “euroamericani”. Gli appetiti nazionalistici (quelli veri), l’inasprirsi della lotta tra gruppi (statunitensi) dominanti (uno scontro di cui si sa poco, ma di cui vi sono molteplici “segni”) e tra (sub)dominanti, proprio perché il “declino relativo” degli Usa lascia margini di azione sempre maggiori ad altri attori geopolitici, la difficoltà di trovare punti di accordo tra posizioni rese ancor più distanti e inconciliabili dalla crisi economica – una crisi che trova terreno fertilissimo nella debolezza dell’Unione Europea e in particolare in quella di Eurolandia – sono solo alcune delle ragioni che devono indurre a non credere che l'”euroatlantismo” sia necessariamente destinato a trionfare. Non solo. Più il tempo passa, più sarà difficile continuare a nascondere dietro un europeismo “di facciata” la reale impotenza politica dell’Europa .

A questo proposito, si devono condannare recisamente quelle tesi sul cosiddetto “nuovo ordine mondiale” che, oltre a non tener conto della funzione politico-strategica che svolgono i grandi gruppi finanziari, non aiutano a comprendere che l’attuale fase storica è caratterizzata (e lo sarà ancor di più in futuro) dal conflitto geopolitico contro l’Occidente da parte di potenze emergenti, il cui obiettivo principale è indubbiamente la costruzionedi un sistema multipolare. Un obiettivo che, se conseguito, implicherebbe un drastico ridimensionamento della potenza statunitense e che l’Europa, se fosse un vero attore (geo)politico, dovrebbe perseguire senza se e senza ma, non essendoci, senza indipendenza politica, alcun futuro, né economico né di altro tipo, tranne quello di eseguire, volenti o nolenti, gli ordini di chi “decide”, ossia di chi è realmente “sovrano”

Che, oggi, i singoli Paesi europei non possano difendere la propria sovranità da soli è palese, ma è pure chiaro che si sta rafforzando la convinzione che questa Europa non è affatto in grado di far fronte ad una crisi che non è finita e che farà invece ancora “soffrire” il ventre molle (e non solo) dell’Europa. Eppure anche questo prova che in Europa vi è ancora “spazio” sufficiente per la creatività politica e l’innovazione strategica. E i prossimi anni, se non già i prossimi mesi, ci diranno se il “populismo” e l’euroscetticismo sapranno evolversi verso posizioni più serie e mature di modo da potere contrapporsi con successo alle strategie atlantiste. E’ questa la vera sfida geopolitica che l’Europa non deve perdere, se si vuole che a vincere siano glieuropei, anziché gli “euroatlantisti”.

 

 

 

(1) Marta Dassù, Usa-Europa nuovo patto atlantico (vedi http :// www. Senato. It/ notizie/ RassUffStampa/130205/1rqgze.pdf

(2) Malio Dinucci, La “sicurezza” dell’Impero, “Il Manifesto”, 05/02/2013.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.