Introduzione

Nel momento in cui si scrive gli Stati Uniti, oltre a trasferire navi da combattimento in prossimità del Golfo Persico, continuano a minacciare un attacco diretto contro Tehran che segnerebbe il loro ingresso definitivo (non più solo in termini di logistica) all’interno del nuovo conflitto iniziato dall’aggressione israeliana contro l’Iran.

L’espressione “nuovo conflitto”, in realtà, non rende bene l’idea di ciò che sta avvenendo in queste ore. Sarebbe più corretto affermare che si sta assistendo a quello che sembra essere l’istante culminante di quella che in altre occasioni è stata definita come “controffensiva occidentale” nel Vicino Oriente, partita con l’assassinio del generale Qassem Soleimani nel 2020 ad opera della prima amministrazione Trump. Una controffensiva già marchiata dal successo della caduta di Damasco ad opera delle milizie terroriste di Hayat Tahrir al-Sham e dalle uccisioni in serie delle personalità di spicco del cosiddetto “Asse della Resistenza” (dalla guida di Hezbollah Hassan Nasrallah a Yahya Sinwar) fino all’assai sospetto incidente in cui ha perso la vita il Presidente iraniano Raisi.

Non a caso, proprio Soleimani affermava che difendere la Siria, il Libano, l’Iraq e la Palestina è fondamentale per difendere la Repubblica Islamica dell’Iran, mostrando come fossero in torto coloro che in Iran manifestavano contro l’impegno dei Pasdaran nel Paese levantino. Oggi si ha una ulteriore conferma di quanto avesse ragione il comandante delle forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie. 

Detto ciò, in questa analisi si cercherà di indicare i possibili scenari futuri in relazione all’eventuale coinvolgimento diretto statunitense nell’aggressione all’Iran.

 

Una nuova fase dell’attacco all’Iran

In un articolo comparso sul numero 4/2024 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (dal titolo Prospettive geopolitiche di fine “impero”) constatavamo che l’assenza di una guida politica dell’Occidente (dovuta alla patologica incapacità del Presidente Biden) aveva spianato la strada all’assunzione di questo ruolo da parte del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Una sorta di autoinvestitura resa palese dal suo quarto discorso davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America, conclusosi tra scroscianti applausi sia democratici sia repubblicani.

La situazione non sembra essere cambiata con l’elezione di Donald J. Trump, che dopo diversi mesi di mandato continua a manifestare una sostanziale debolezza di fronte ai “desideri” di Israele, sia per il peso degli uomini legati alla lobby sionista al suo interno, sia per l’altrettanto evidente incapacità/inconsistenza di alcuni dei suoi membri (su tutti, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth).

Nel medesimo articolo, inoltre, riferivamo anche il fatto che J.D. Vance, attuale Vicepresidente estremamente attivo (in stile Dick Cheney), aveva invitato Netanyahu a porre fine in tempi brevi all’operazione su Gaza, per concentrarsi in modo definitivo sull’Iran, magari cercando di coinvolgere le monarchie del Golfo.

Ora, è innegabile che l’autoinvestitura di Netanyahu ha portato l’entità sionista ad operare su scala regionale come faceva l’America unipolare: minacce, assassinii extragiudiziali, presentazione di prove fasulle per giustificare aggressioni, e così via. In altri termini, Israele, uno Stato nato dal terrorismo e dalla pulizia etnica, si è trasformato in giudice ed esecutore della pena in spregio di qualsiasi norma del diritto internazionale.

È altrettanto innegabile il fatto che Netanyahu ha seguito il consiglio di Vance solo in parte. Il genocidio della popolazione palestinese di Gaza è lungi dall’essere terminato. Dopo quasi due anni, Hamas è ancora lì e sta infliggendo notevoli perdite all’IDF. Israele non può vincere a Gaza, e per questo motivo ha scelto di alzare il tiro attaccando l’Iran e coinvolgendo direttamente gli Stati Uniti (vista la riluttanza delle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in primis, a farsi trascinare in un conflitto potenzialmente distruttivo per le loro economie e per degli eserciti che si reggono esclusivamente sull’acquisto di armi da Washington). E, sotto certi aspetti, l’attacco all’Iran è anche funzionale a distrarre l’attenzione pubblica internazionale da quanto avviene giornalmente a Gaza.

Ma quali sono gli obiettivi reali di questa aggressione?

Si cercherà di andare con ordine. È difficile pensare che non vi fosse da subito un coordinamento diretto con gli Stati Uniti, il cui obiettivo rimane quello di forzare l’Iran ad un accordo che di fatto rappresenti una sorta di capitolazione su tutta la linea per ciò che concerne la politica estera e militare della Repubblica Islamica.

Israele pianifica sempre per tempo le proprie aggressioni. Aveva pianificato l’aggressione al Libano del 2006 prima dello sconfinamento dei miliziani di Hezbollah e della cattura di alcuni soldati dell’IDF. Aveva pianificato la nuova invasione di Gaza prima del 7 ottobre 2023. Ed anche l’attacco all’Iran è stato il prodotto di un lento lavoro di infiltrazione spionistica nei gangli delle istituzioni della Repubblica Islamica (vero cruccio per Tehran, oltre ad una porosità dei confini che consente gioco facile a gruppi terroristi separatisti curdi, baluchi o azeri). Il problema sostanziale della dottrina militare israeliana, tuttavia, è l’utilizzo da subito di tutta la potenza di fuoco disponibile per condurre la guerra in tempi ristretti e limitare le perdite militari (fondamentali per la sua sopravvivenza). L’attacco preventivo è uno dei fondamenti di tale dottrina. Si pensi all’esempio classico della “guerra dei sei giorni”, ma anche al fatto che, prima del conflitto del 1948, le bande sioniste avevano operato per distruggere villaggi palestinesi e forzare la popolazione alla fuga. Questo, allo stesso tempo, comporta il fatto che ogni prolungamento di un conflitto diretto, convenzionale o meno, diviene estremamente pesante da sostenere. Nel 1948, il nucleo di quello che poi divenne l’IDF riuscì a sostenere lo sforzo bellico solo violando apertamente le regole della prima tregua imposta dall’ONU; nel 1982, l’operazione “Pace in Galilea” si risolse in un sostanziale fallimento, e lo stesso avvenne sempre in Libano nel 2006, quando Israele, dopo la prima settimana, iniziò a subire i contraccolpi della reazione asimmetrica di Hezbollah. Ancora, oggi, l’IDF è impantanato in una guerra di logoramento brutale a Gaza, dove rivendica come successi l’uccisione di civili inermi.

Se l’attuale aggressione all’Iran dovesse risolversi in un conflitto prolungato di attrito, i danni per Israele sarebbero notevoli, soprattutto alla luce dell’assenza totale di profondità strategica per l’entità sionista. Questa, infatti, sopravvive grazie ai rifornimenti per via marittima ed aerea, sicché l’Iran, come dimostrato anche dagli Houthi, avrebbe gioco facile nel colpire le infrastrutture critiche del cosiddetto “Stato ebraico” (come in parte sta già avvenendo). Al contrario, l’Iran può godere di linee di rifornimento dirette attraverso il Pakistan (unico Paese musulmano dotato di armi nucleari, ed unico Paese musulmano ad aver assunto una posizione forte e coerente contro la nuova aggressione sionista) e può disporre di una demografia che lo pone in una posizione di netto vantaggio rispetto a Tel Aviv.

Ne consegue che Israele, nonostante la superiorità aerea già manifestata, può “vincere” solo con l’attivo sostegno degli Stati Uniti, visto che i suoi propositi di scatenare una sollevazione popolare contro la Repubblica Islamica sono già falliti, così come fallirono quelli di Saddam Hussein nel 1980, quando pensò di ottenere il sostegno delle comunità arabe del Khuzestan.

Questo comporta una seconda domanda: in che modo gli Stati Uniti possono gestire il conflitto? L’intervento di terra rimane di difficile (se non impossibile) realizzazione e l’elettorato trumpista non vedrebbe affatto di buon occhio la morte potenziale di diverse migliaia di giovani americani. La soluzione più plausibile è quella di una campagna aerea prolungata (dal mese in su) in stile ex Jugoslavia, per distruggere l’intero tessuto economico iraniano (sorprendenti, in questo senso, le affinità tra NATO e Israele: ambedue hanno preso di mira la TV di Stato, a Belgrado e a Tehran). L’obiettivo, così, diventerebbe quello di trasformare l’Iran in una sorta di nuovo Iraq del 1991, economicamente distrutto e militarmente debolissimo.

Non bisogna inoltre dimenticare che al conflitto contro l’ex Jugoslavia venne posta una fine “convenzionale”, dopo oltre 70 giorni di bombardamenti, con la NATO che affermava di aver raggiunto l’obiettivo di aver reso Belgrado incapace di “nuocere”. La possibilità che si faccia lo stesso con l’Iran, indicando come pretesto la necessità di distruggere il suo programma nucleare, è altamente elevata.

 

Conclusioni

Infine, bisogna valutare se tra gli obiettivi vi possa essere la caduta della Repubblica Islamica. Netanyahu ha fatto sapere che la morte della Guida Suprema Ali Khamenei potrebbe portare alla fine del conflitto; tuttavia, disse esattamente la stessa cosa in relazione ai vertici politici di Hamas a Gaza. Dunque, le sue affermazioni lasciano il tempo che trovano.

Ad ogni modo, il “cambio di regime” in Iran porrebbe seri problemi alla Repubblica Popolare Cinese, che in Iran ha importanti interessi economici (così come il Pakistan, che diverrebbe facilmente il prossimo obiettivo sionista). La Cina, che ha firmato con l’Iran un accordo di cooperazione strategica venticinquennale, si troverebbe privata di un ramo fondamentale della Nuova Via della Seta, che rappresenta uno dei più importanti mercati di sbocco per i suoi prodotti tecnologici. In questo senso, è bene ribadire che, per gli Stati Uniti, colpire l’Iran significa anche colpire la Cina.

Resta da capire se a Washington siano consapevoli del fatto che un’aggressione diretta contro l’Iran può significare un’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz, con la conseguenza di una crisi energetica globale che colpirebbe in primo luogo soprattutto l’Europa, ancora una volta incapace di esprimere una posizione ragionevole. La risposta è sì, soprattutto alla luce del fatto che dal 1999 a questa parte le guerre combattute dalla NATO e dagli Stati Uniti, dalla Serbia alla Libia fino all’Ucraina, sono state sempre state (in parte o nella loro totalità) guerre contro l’Europa.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).